Visualizzazioni totali

sabato 8 agosto 2015

La Chiesa la fame e gli Ogm

La Chiesa la fame e gli Ogm

L’Unità, 7 dicembre 2010


Appena preso possesso del nuovo incarico come presidente del pontificio consiglio per la giustizia e la pace, il cardinale ghanese Peter Kodwo Appiah Turkson ha espresso chiaramente il suo pensiero su l’utilizzazione degli ogm. Per Turkson, «proporre come soluzione ai problemi della fame nel mondo e delle carestie tecniche che non tengono conto della biodiversità delle coltivazioni africane o prevedono l'uso di organismi geneticamente modificati non può che suscitare sospetti sulle reali intenzioni. Un contadino africano che utilizza semi di mais conservati dal raccolto dell'anno precedente, forse avrà una resa leggermente più modesta di quella ottenuta con gli ogm. Sicuramente, però, non dovrà sborsare alcuna somma di denaro per l'acquisto dei semi. E soprattutto la sua attività non dipenderà da fattori esterni condizionanti, come la capacità e la volontà produttiva di aziende multinazionali». In quanti, ricordano che in Costa d’Avorio la pax democratica regnava sovrana fino a quando l’Unione Europea (che ammette il formaggio senza latte e il vino senza uva) ha iniziato una incomprensibile battaglia contro il cioccolato di puro cacao, facendo dimezzare il reddito dei Paesi produttori come Costa d’Avorio, Camerun e Senegal? Le parole di Turkson risalgono al 24 febbraio del 2010, l’Unione Europea aveva appena sdoganato gli organismi geneticamente modificati nel nostro Continente e il porporato africano sulla prima pagina dell’Osservatore Romano replicò rivolgendosi a coloro che usano la pretesa scarsità delle risorse agricole per sostenere la causa degli Ogm per tutti e senza limiti. Il fatto va ricordato perché proprio nel suo dicastero, fino a qualche mese prima della sua nomina, durante la precedente gestione, più di qualcuno pensava di aver visto nascere un forte feeling tra ambienti vaticani e multinazionali del bio-tech. Una entente cordiale manifestatasi con alcuni convegni sponsorizzati dalle organizzazioni pro-ogm prima nei due atenei romani dei Legionari di Cristo (l’Università Europea e l’Ateneo Regina Apostolorum) e poi, nel maggio del 2009, nella sede della Pontificia Accademia delle Scienze in Vaticano. Lo statement conclusivo del convegno di due anni fa, pubblicato in questi giorni e garantito solo dalla competenza scientifica dei firmatari (tra i quali solo 7 accademici pontifici su 80), in effetti esprimeva un sereno ottimismo sull'ingegneria genetica perché gli ogm, se usati nel modo opportuno, aiuterebbero piuttosto che ostacolarla- la biodiversità. Una tesi, abbastanza neutrale che però, ripetuta a Cuba dall’arcivescovo Marcelo Sanchez Sorondo, che per conto della Santa Sede ha seguito la settimana scorsa nell’isola caraibica i lavori del XII Incontro internazionale degli economisti sulla globalizzazione e i problemi dello sviluppo, è suonata come il certificato di battesimo per il bio-tech in salsa cattolica. Grazie al cielo qualcuno in Vaticano si è ricordato che il Papa aveva spiegato qualche mese prima, alla Fao, che quando si dice ogm e biotech bisogna pensare all’impatto socio-politico che le scelte Occidentali in campo agroalimentare (Turkson ricorda che il nostro è un sistema socio-economico che «giustifica comportamenti irresponsabili come la distruzione di risorse alimentari per mantenere alti i prezzi di mercato») hanno sulle fragili strutture dei Paesi che, in teoria grazie agli ogm, si vorrebbe aiutare. E ha precisato che quelle che qualche cappellano delle multinazionali diffonde sono solo opinioni personali. Tanto, aggiungiamo noi, non c’è bisogno di aspettare i file di Wikileaks per immaginare da chi vengono retribuite le loro prediche. E che queste siano opinabili, risulta anche dal rapporto presentato lunedì scorso a Londra dall’IFAD (fondo internazionale per lo sviluppo dell’agricoltura), un’agenzia Onu con sede a Roma che ribadisce pazientemente alcune verità. È l’agricoltura il “motore” dello sviluppo conosciuto nell’ultimo decennio da Paesi come il Brasile, la Cina, l’India, il Vietnam, il Paraguay. E gli esperti considerano del tutto acquisito il dato che indica come, il miglior strumento per far uscire i Paesi poveri dalle loro angustie quotidiane, sia sempre e soprattutto l’agricoltura. Questa, nel prossimo decennio, e fino al 2025, conoscerà uno sviluppo finora mai raggiunto nella storia dei popoli. Il fatto, poi, che sette su dieci tra gli affamati del mondo vivano in contesti rurali, non dipende dalle sementi ma, dai mercati e dalla politica internazionale dei prezzi. Dove la politica ha aiutato (sottolinea il rapporto) «un nuovo approccio all’agricoltura su piccola scala... negli ultimi dieci anni almeno 350 milioni di abitanti delle zone rurali del mondo sono riusciti a uscire dal vincolo della povertà». Non è esattamente ciò che i terzomondisti di professione affiliati alle multinazionali ci raccontano, ma la realtà è questa.