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lunedì 25 gennaio 2016

Ogni Paese europeo potrà vietare l’uso di prodotti contenenti ogm?

Ogni Paese europeo potrà vietare l’uso di prodotti contenenti ogm? Si tratta di una proposta della Commissione Europea che se approvata aprirebbe al blocco dell’importazione di mais e soia ogm per la produzione di mangimi. Sorge spontanea la domanda: dove troveremo mais e soia ogm free dato che importiamo per il mais il 30% e per la soia l’85% del nostro fabbisogno? Ma vediamo i numeri. Prendendo in considerazione solo mais e soia, a livello mondiale la quota di superfici ogm è pari, rispettivamente, al 30 e all’85% di quella totale, ma nei tre principali produttori ed esportatori – Argentina, Brasile e Stati Uniti – varia dal 94 e all’88%. È chiaro quindi che approvvigionarsi di mais e di soia ogm free da questi Paesi sarà piuttosto difficile.



Lo scenario per il mais

Nel 2013 l’Italia ha importato quasi 4 milioni di tonnellate di mais principalmente dall’Ucraina, che non produce mais ogm, e dai Paesi comunitari. La quota di mais importata da Paesi con coltivazioni ogm (Brasile, Argentina, Stati Uniti) incide per pochi punti percentuali per un totale di circa 100.000 tonnellate, di cui il Brasile ne fornisce circa 96.000.

Il potenziale produttivo di mais ogm free del Brasile, che è il principale fornitore dell’UE, potrebbe raggiungere i 13-14 milioni di tonnellate, valore che confrontato con le attuali esportazioni complessive, circa 20 milioni di tonnellate, lascia intravedere ancora un ampio margine di sicurezza rispetto ai volumi importati dall’Italia e anche dell’Ue nel suo complesso (le importazioni totali UE dal Brasile si aggirano sui 2,4 milioni di tonnellate). Tuttavia il Brasile esporta anche in altri Paesi, come ad esempio il Giappone, con i quali potrebbero essere già in atto accordi per la vendita di prodotti non ogm.

In sintesi la domanda di mais ogm free potrebbe essere soddisfatta senza grosse difficoltà.




Lo scenario per la soia



Per quanto riguarda la soia la situazione è più problematica sia per la nostra marcata dipendenza dall’importazione, sia per la concentrazione della produzione in pochi Paesi.

Nel 2013 l’Italia ha importato circa 1,4 milioni di tonnellate di semi e circa 1,8 milioni di tonnellate di farine di soia per un volume complessivo di circa 3,2 milioni di tonnellate di prodotto estero.

La produzione mondiale di soia si concentra soprattutto nei Paesi dell’America meridionale e settentrionale: i primi 10 produttori offrono il 97% della soia mondiale e il 98% dell’export sia per i semi, sia per le farine.

Di questi 10 Paesi 8 sono esportatori e solamente l’Ucraina produce solo soia non ogm; negli altri – Stati Uniti, Canada, Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay, Bolivia – la quota di superfici ogm varia dal 60% del Canada al 100% dell’Argentina.

La produzione di soia ogm free, considerando che le rese delle colture no ogm sono inferiori, potrebbe aggirarsi sui 43 milioni di tonnellate, pari al 15% di quella mondiale. Una produzione che dovrebbe soddisfare anche le richieste interne di questi Paesi, visto che in particolare negli Stati Uniti esiste una domanda interna da soddisfare.

Anche ipotizzando che tutta la soia ogm free fosse offerta sul mercato mondiale, l’export di semi tradizionali ammonterebbe a circa 16 milioni di tonnellate, pari a circa il 15% dell’export di semi. Per le farine la disponibilità di prodotto ogm free sarebbe invece poco significativa.

Confrontando per ogni singolo Paese fornitore dell’Italia la disponibilità di prodotto ogm free, l’export

complessivo e l’import italiano, emerge una buona copertura della domanda di semi, mentre per le farine si rileva un deficit di oltre il 70% in conseguenza degli acquisti dai Paesi sudamericani.

Una situazione difficile che peraltro non tiene conto di eventuali accordi commerciali tra esportatori e importatori e della concorrenza tra Paesi, ad esempio quelli comunitari, per acquisire il prodotto ogm free.

giovedì 19 novembre 2015

Negli ultimi anni nel nostro Paese è aumentata la dipendenza dall'estero per l'approvvigionamento di mangimi

Negli ultimi anni nel nostro Paese è aumentata la dipendenza dall'estero per l'approvvigionamento di mangimi. Qualcuno grida allo scandalo, poichè nel nostro Paese è vietato coltivare piante OGM, ma è possibile importare mangimi OGM.

Pertanto, anche se i 3/4 dei nostri connazionali gli OGM non li vogliono nè coltivare e nè mangiare, purtroppo già li stanno mangiando attraverso i prodotti derivati dell'allevamento animale (carne, latte, uova, ecc.)!!!!!

Come mai?

Erano i primi anni 2.000 quando qualcuno, consapevole dei rischi economici che potevano esserci, chiedeva l’”Etichettatura dei derivati” ……. ed è stato fatto di tutto affinchè non fosse applicata (si diceva che non era possibile distinguere il latte ottenuto da mangimi OGM rispetto a quello convenzionale, stessa cosa per la carne ….. oppure non potevamo vietare l’import di mangimi OGM perchè c’era il WTO ……. oppure perchè i costi di separazione della filiera erano troppo alti, ecc.)

La mancata etichettatura dei derivati da mangimi OGM ha determinato una sorta di “concorrenza sleale” tra allevatori che utilizzano mangimi OGM e allevatori che utilizzano mangimi convenzionali (hanno un prezzo superiore di quelli OGM di importazione), poichè il prodotto finale viene comunque venduto allo stesso prezzo. E' ovvio che in una situazione di questo tipo i margini di guadagno per gli allevatori convenzionali è ridotto rispetto a quello degli allevatori che utilizzano mangimi OGM, poichè il prezzo di vendita è rapportato a questi ultimi.

In questa situazione di mancata etichettatura dei derivati OGM, anche gli allevatori che in un primo momento erano contrari all’utilizzazione di mangimi OGM si sono dovuti adattare ed hanno sostituito i mangimi convenzionali con quelli OGM, poichè il loro sforzo di produrre “OGM free” non era riconosciuto dal mercato, ovvero a fronte di maggiori costi, non c'era un prezzo di vendita maggiore. 

Ovviamente questa situazione, con i prezzi del mais e della soia che hanno raggiunto prezzi minimi di 20 anni addietro, ha portato ad una diminuzione della produzione interna di mangimi e ad un aumento delle importazioni.

A distanza di 15 anni, quello che qualcuno aveva previsto, ovvero l’aumento della dipendenza del nostro Paese dalle importazioni, poichè i mangimi OGM costano meno, si è puntualmente verificato.

E adesso ne paghiamo le conseguenze.

martedì 17 novembre 2015

Quanto costerebbe in più 1 litro di latte o 1 kg di carne se fossero banditi i mangimi OGM?

Quanto costerebbe in più 1 litro di latte o 1 kg di carne se fossero banditi i mangimi OGM? Questa è la “madre di tutte le domande”, in quanto occorre verificare se ne vale la pena di soggiogare il nostro sistema produttivo ad una strategia fatta per aziende agricole decisamente diverse dalle nostre.

Quanto costerebbe in più 1 litro di latte? 

Ovviamente è una stima, ma si avvicina alla realtà.

Secondo uno studio del CRPA i mangimi incidono per 0,12 €/litro di latte


Se anche ammettessimo che il 30% di questi mangimi fosse costituito da mais e soia OGM (per la soia è vero, per il mais non è vero), il costo per mangimi OGM sarebbe di 0,036 €/litro. Ipotizzando un minor costo dei mangimi OGM rispetto a quelli convenzionali del 5%, il risparmio sul costo di produzione di 1 litro di latte sarebbe di 0,0018 euro!!!!! Su un costo totale di 0,39 €/l, la riduzione di costo inciderebbe per una aliquota dello 0,4%.

Non credo che i nostri allevatori, anche con gli OGM, se la passerebbero comunque bene!

sabato 8 agosto 2015

La Chiesa la fame e gli Ogm

La Chiesa la fame e gli Ogm

L’Unità, 7 dicembre 2010


Appena preso possesso del nuovo incarico come presidente del pontificio consiglio per la giustizia e la pace, il cardinale ghanese Peter Kodwo Appiah Turkson ha espresso chiaramente il suo pensiero su l’utilizzazione degli ogm. Per Turkson, «proporre come soluzione ai problemi della fame nel mondo e delle carestie tecniche che non tengono conto della biodiversità delle coltivazioni africane o prevedono l'uso di organismi geneticamente modificati non può che suscitare sospetti sulle reali intenzioni. Un contadino africano che utilizza semi di mais conservati dal raccolto dell'anno precedente, forse avrà una resa leggermente più modesta di quella ottenuta con gli ogm. Sicuramente, però, non dovrà sborsare alcuna somma di denaro per l'acquisto dei semi. E soprattutto la sua attività non dipenderà da fattori esterni condizionanti, come la capacità e la volontà produttiva di aziende multinazionali». In quanti, ricordano che in Costa d’Avorio la pax democratica regnava sovrana fino a quando l’Unione Europea (che ammette il formaggio senza latte e il vino senza uva) ha iniziato una incomprensibile battaglia contro il cioccolato di puro cacao, facendo dimezzare il reddito dei Paesi produttori come Costa d’Avorio, Camerun e Senegal? Le parole di Turkson risalgono al 24 febbraio del 2010, l’Unione Europea aveva appena sdoganato gli organismi geneticamente modificati nel nostro Continente e il porporato africano sulla prima pagina dell’Osservatore Romano replicò rivolgendosi a coloro che usano la pretesa scarsità delle risorse agricole per sostenere la causa degli Ogm per tutti e senza limiti. Il fatto va ricordato perché proprio nel suo dicastero, fino a qualche mese prima della sua nomina, durante la precedente gestione, più di qualcuno pensava di aver visto nascere un forte feeling tra ambienti vaticani e multinazionali del bio-tech. Una entente cordiale manifestatasi con alcuni convegni sponsorizzati dalle organizzazioni pro-ogm prima nei due atenei romani dei Legionari di Cristo (l’Università Europea e l’Ateneo Regina Apostolorum) e poi, nel maggio del 2009, nella sede della Pontificia Accademia delle Scienze in Vaticano. Lo statement conclusivo del convegno di due anni fa, pubblicato in questi giorni e garantito solo dalla competenza scientifica dei firmatari (tra i quali solo 7 accademici pontifici su 80), in effetti esprimeva un sereno ottimismo sull'ingegneria genetica perché gli ogm, se usati nel modo opportuno, aiuterebbero piuttosto che ostacolarla- la biodiversità. Una tesi, abbastanza neutrale che però, ripetuta a Cuba dall’arcivescovo Marcelo Sanchez Sorondo, che per conto della Santa Sede ha seguito la settimana scorsa nell’isola caraibica i lavori del XII Incontro internazionale degli economisti sulla globalizzazione e i problemi dello sviluppo, è suonata come il certificato di battesimo per il bio-tech in salsa cattolica. Grazie al cielo qualcuno in Vaticano si è ricordato che il Papa aveva spiegato qualche mese prima, alla Fao, che quando si dice ogm e biotech bisogna pensare all’impatto socio-politico che le scelte Occidentali in campo agroalimentare (Turkson ricorda che il nostro è un sistema socio-economico che «giustifica comportamenti irresponsabili come la distruzione di risorse alimentari per mantenere alti i prezzi di mercato») hanno sulle fragili strutture dei Paesi che, in teoria grazie agli ogm, si vorrebbe aiutare. E ha precisato che quelle che qualche cappellano delle multinazionali diffonde sono solo opinioni personali. Tanto, aggiungiamo noi, non c’è bisogno di aspettare i file di Wikileaks per immaginare da chi vengono retribuite le loro prediche. E che queste siano opinabili, risulta anche dal rapporto presentato lunedì scorso a Londra dall’IFAD (fondo internazionale per lo sviluppo dell’agricoltura), un’agenzia Onu con sede a Roma che ribadisce pazientemente alcune verità. È l’agricoltura il “motore” dello sviluppo conosciuto nell’ultimo decennio da Paesi come il Brasile, la Cina, l’India, il Vietnam, il Paraguay. E gli esperti considerano del tutto acquisito il dato che indica come, il miglior strumento per far uscire i Paesi poveri dalle loro angustie quotidiane, sia sempre e soprattutto l’agricoltura. Questa, nel prossimo decennio, e fino al 2025, conoscerà uno sviluppo finora mai raggiunto nella storia dei popoli. Il fatto, poi, che sette su dieci tra gli affamati del mondo vivano in contesti rurali, non dipende dalle sementi ma, dai mercati e dalla politica internazionale dei prezzi. Dove la politica ha aiutato (sottolinea il rapporto) «un nuovo approccio all’agricoltura su piccola scala... negli ultimi dieci anni almeno 350 milioni di abitanti delle zone rurali del mondo sono riusciti a uscire dal vincolo della povertà». Non è esattamente ciò che i terzomondisti di professione affiliati alle multinazionali ci raccontano, ma la realtà è questa. 

Il dott. Daniele Colombo ha scritto una lettera a favore della scelta OGM per l’agricoltura del nostro Paese

Il dott. Daniele Colombo ha scritto una lettera a favore della scelta OGM per l’agricoltura del nostro Paese ………… Non si è certo risparmiato ……..

Gentilissimo Sig. Presidente del Consiglio,
On.li Ministri,
On.li Senatori,

Sono a scriverVi, in merito al dibattito scaturito mezzo stampa nelle scorse settimane tra l’On.le Ministro Maurizio Martina e la On.le Sen. Prof. Elena Cattaneo sul tema della ricerca pubblica sugli OGM.” ........................ continua

Quale dibattito? La cosa è stata a senso unico, poiché la “neuro agronoma” Cattaneo, pur non avendo una competenza specifica, è riuscita a pubblicare una decina di articoli a favore degli OGM nelle prime pagine dei più importanti quotidiani nazionali, mentre la voce contraria non si è vista ……. E a mio parere avrebbero voluto in tanti scrivere qualcosa di diverso. Tra l’altro questi interventi della neuro agronoma sono farciti di inesattezze e rappresentano uno spaccato dell’approccio ideologico di coloro che sono a favore di questa tecnologia (la scienza è favorevole, le scelte sono solo politiche, il Paese ne ha bisogno, ecc.).

Daniele, parlando poi di OGM in agricoltura, poiché questo è il problema, mi sembra azzardato affermare che “Più di quindicimila persone, a partire dal 1994, hanno intrapreso nel nostro paese una carriera nelle biotecnologie scegliendo di diventare dei professionisti dell’innovazione medico-farmaceutica, agro-alimentare, veterinaria e industriale.”. Daniele, mi scusi, cerchiamo di non confondere le idee, lasciamo stare l’intera categoria dei Biotecnologi, visto che il problema è agricolo, parliamo di quelli che lavorano in agricoltura …….  Qualche centinaio? e non 15.000 come lei ha scritto?

Daniele scrive poi “I messaggi lanciati dai diversi Governi e Parlamenti che si sono succeduti in questi anni, quasi sempre senza distinzione di colore o provenienza politica, hanno però sottolineato con chiarezza lo scarso interesse, se non una vera e propria ostilità, verso l’innovazione e verso coloro che si adoperano per promuoverla in campo.” Allora Daniele, vuol proprio dire che è una scelta giusta! Possibile che tutti i Governi che si sono succeduti in 15-20 anni abbiano tenuto un atteggiamento solo ideologico sul problema? Probabilmente c’è qualcosa di vero. Ed è di questo che vogliamo parlare. Perché Daniele non ne ha parlato? Perché Daniele non ha parlato delle motivazioni contrarie all’adozione degli OGM in agricoltura. Possibile che non ce ne sia qualcuna vera, reale!

Daniele, ha anche scritto che “L’ultimo atto di questo rifiuto si è consumato nel 2012 con la distruzione forzata degli ultimi campi sperimentali pubblici italiani.
Distrutti senza alcuna ragione tecnica, rischio reale o riflessione sulla loro utilità. Quelle sperimentazioni pubbliche, pagate dai cittadini italiani, potevano aiutarci a capire se ha davvero senso dire no all’uso degli OGM. Ulivi, ciliegi, kiwi, furono distrutti, dopo 14 anni di coesistenza pacifica, per un cavillo.
” 


Daniele, in 14 anni ne saranno state fatte delle ricerche, delle sperimentazioni, delle pubblicazioni …….. dove sono? Non mi sembra che 14 anni siano pochi per poter avere delle conclusioni!

Daniele, riesce anche a scrivere che “L’Italia ha deciso, con le proprie politiche dissennate, di mortificare i propri ricercatori e le proprie Università impedendo loro di fare ricerca sugli OGM, ma allo stesso tempo ha deciso di non rinunciare ad usarli. Dice bene la Professoressa Cattaneo quando ricorda che l’Italia importa ed usa tonnellate di OGM (4 milioni solo per la soia) per alimentare gli animali da cui si ricavano i nostri prodotti di punta apprezzati in tutto il mondo.” Daniele, ma lei è al corrente che l’Italia opera in un mercato globale, dove se vuoi esportare qualcosa devi per forza importare qualcos’altro! E questo qualcos’altro, in relazione al fatto che l’Italia esporta prodotti industriali, è molto spesso costituito da prodotti agricoli ……… carne, mangimi, ecc. Non si spiegherebbe altrimenti la chiusura alla coltivazione e l’apertura alle importazioni di mangimi OGM. In definitiva, i mangimi che noi importiamo sono la contropartita per le nostre esportazioni di prodotti industriali. Che sia un fatto voluto? “A pensar male si commette peccato però spesso ci si prende”.

Daniele riesce anche a scrivere che “L’uso di OGM dopotutto, come emerge dalle oltre 15.000 pubblicazioni scientifiche sul tema, ma anche dai dati raccolti in oltre 15 anni di utilizzo, non presenta particolari rischi per la salute o per l’ambiente, come già ampiamente sottolineato dalle principali Società Scientifiche italiane attraverso due Consensus Document pubblicati nel 2004 e nel 2006.” Queste cose, però, le dovrebbero scrivere le Associazioni dei Medici e non quella dei Biotecnologi, ovviamente dopo aver fatto specifiche indagini epidemiologiche, che non sono mai state fatte.


Daniele, ma lei crede veramente che “Il nostro Paese ha però sistematicamente deciso di ignorare su questo tema la scienza, con il solo risultato di precludersi la possibilità di guidare l’innovazione del settore agricolo, finendo per subirla importando a caro prezzo quella prodotta altrove.” L’Italia che guida l’innovazione nel settore agricolo con gli OGM. Questa è una notizia! L’Italia potrebbe guidare l’innovazione solo basandosi sulla qualità e non tanto su prodotti omologanti, destinati alle grandi produzioni estensive degli USA, dell’Argentina e del Brasile. Le ricordo che in Italia la superficie media delle aziende agricole è di 7-8 ettari, contro i 250 ettari delle aziende americane. In questo caso ha ragione il Ministro Martina quando afferma che “la discussione sugli OGM [...] non rappresenta né l’unica né la più rilevante attività nel mondo della ricerca in agricoltura”. Vogliamo realmente fare innovazione? Ricerchiamo su nuovi metodi di lotta biologica ai parassiti, ricerchiamo sul risparmio di acqua in agricoltura, ricerchiamo su nuove metodiche di conservazione, ricerchiamo su nuove metodiche di coltivazione delle aree marginali, ricerchiamo sul risparmio energetico in agricoltura, ecc.

Daniele, chicca finale quando afferma che “Non ci appassiona il dibattito pro vs contro, ci interessa lavorare per la competitività del nostro paese valorizzando al meglio le competenze di tanti ricercatori e professionisti che vorrebbero mettersi al servizio del Paese invece di fuggire all’estero.Ma lei crede veramente a quello che ha scritto? Crede veramente che il nostro Paese potrebbe competere a livello globale con gli OGM? Pura illusione Daniele. Gli OGM non bastano: serve, infatti, molto di più. Serve soprattutto una scienza che sappia mettere al centro delle sue decisioni le esigenze della Società e che non sia al servizio di finalità di altro tipo. Solo così si potrà avere un dialogo vero e non ideologico sugli OGM, e sui mille altri temi su cui oggi siamo ancora fermi al palo. Solo così facendo si può costruire un futuro sostenibile che non siano gli altri a dettarci, ma che nasca partendo dal lavoro delle nostre menti migliori.

giovedì 12 marzo 2015

Anche negli USA si sono accorti che gli insetti maturano una resistenza genetica alla tossina Bt

Anche negli USA si sono accorti che gli insetti maturano una resistenza genetica alla tossina Bt

Cresce la resistenza dei parassiti alle sementi Ogm e, con essa, i dubbi sulle virtù miracolose dei prodotti transgenici. Il caso è al centro di un articolo apparso su un quotidiano statunitense, secondo il quale anche nella nazione che più ha spinto sulle coltivazioni geneticamente modificate ci si sta rendendo conto che gli insetti hanno sviluppato una resistenza alle sementi ammazza-parassiti. 

http://www.wsj.com/articles/limits-sought-on-gmo-corn-as-pest-resistance-grows-1425587078



sabato 14 febbraio 2015

Non è vero che se coltivassimo piante OGM saremmo in grado di fare a meno delle importazioni di mangimi.


Non è vero che se noi approvassimo per la coltivazione le piante OGM saremmo in grado di fare a meno delle importazioni di mangimi, in quanto i nostri costi di produzione sono molto più elevati di quelli dei Paesi esportatori di soia e di mais e, pertanto, le nostre importazioni non calerebbero di un grammo. Anzi, in relazione al fatto che saremmo concorrenti con gli stessi prodotti, l’importazione di materie prime/mangimi OGM sarà inevitabile.

Pertanto, è vero che importiamo 8 milioni di tonnellate di soia e di mais e che la soia importata è per la gran parte OGM, ma questo non vuol dire che se noi approvassimo le coltivazioni OGM queste importazioni automaticamente diminuirebbero! Occorre ricordare che noi siamo “costretti” ad importare soia perchè abbiamo esportato macchinari e altri prodotti industriali e abbiamo ricevuto in cambio 8 milioni di tonnellate di prodotti agricoli …………. e queste importazioni, purtroppo, deprimono i nostri prezzi interni, i nostri agricoltori non guadagnano, abbandonano le aziende agricole di collina e di montagna, con i conseguenti problemi di dissesto idrogeologico, e stanno zitti!

Pertanto, come qualcuno vuole farci credere, non è vero che il nostro Paese potrebbe risparmiare 2,2 miliardi di euro, è la solita "mezza verità"! Purtroppo, ancora una volta, la verità è un’altra, poiché il nostro Paese, vuoi perché utilizza questo mais e questa soia come forma di pagamento di altri beni esportati, vuoi perché non ha le condizioni pedoclimatiche ottimali per la coltivazione di soia, vuoi perché l’agricoltura dei territori marginali di collina e di montagna non è più competitiva, per cui è stata abbandonata, ecc. non potrà mai azzerare questa spesa……….. che non è una vera e propria spesa, ma costituisce un unico mezzo di pagamento dei prodotti industriali esportati (“o mangiar questa minestra o saltar dalla finestra”). Se non accettassimo come pagamento questi prodotti agricoli offerti dai Paesi importatori delle nostre esportazioni, con ogni probabilità non esporteremmo tanti altri prodotti industriali.

Tanto per rendercene conto, di seguito saranno riportati alcuni dati relativi ai flussi di import-export da alcuni Paesi. Trattasi solo di esempi, e come tali devono essere considerati, e vogliono esclusivamente evidenziare che a fronte di una esportazione di prodotti meccanico/tecnologici/moda (prodotti industriali), il nostro Paese accetta in pagamento prodotti agricolo/alimentari (i dati sono ufficiali e sono del Ministero dello Sviluppo Economico e si riferiscono all'anno 2012).

ESPORTAZIONI ITALIANE (1.019 milioni di euro), principali prodotti esportati
-          Macchine per impiego speciale (90 milioni di euro)
-          Macchine per impiego generale (35 milioni di euro)
-          Medicinali (32 milioni di euro)
-          Parti di Autoveicoli, motori, ecc. (27 milioni di euro)

IMPORTAZIONI ITALIANE (1.025 milioni di euro), principali prodotti importati
-          Oli e grassi vegetali e animali (84 milioni di euro)
-          Prodotti di colture agricole permanenti (35 milioni di euro)
-          Carne lavorata e conservata e prodotti a base di carne (22 milioni di euro)
-          Prodotti di colture agricole non permanenti (19 milioni di euro)
-          Pesce, crostacei e molluschi lavorati e conservati (18 milioni di euro)

ESPORTAZIONI ITALIANE (4.994 milioni di euro), principali prodotti esportati
-          Parti di Autoveicoli, motori, ecc. (408 milioni di euro)
-          Macchine per impiego generale (737 milioni di euro)
-          Macchine per impiego speciale (365 milioni di euro)
-          Altre macchine (203 milioni di euro)

IMPORTAZIONI ITALIANE (3.402 milioni di euro), principali prodotti importati
-          Prodotti di colture agricole permanenti (268 milioni di euro)
-          Pasta-carta, carta e cartone (259 milioni di euro)
-          Prodotti di colture agricole non permanenti (155 milioni di euro)
-          Carne lavorata e conservata e prodotti a base di carne (127 milioni di euro)

Altri esempi:


                                                                                                                
Qualcuno vuole farci credere che con gli OGM questa situazione potrebbe essere modificata in meglio? Personalmente credo, invece, che la situazione potrebbe modificare in peggio, poiché fin tanto che i consumatori richiederanno alimenti “Non OGM” noi agricoltori italiani saremo in grado di produrli e di rifornirli. Quando, invece, alimenti “OGM” e alimenti “Non OGM” saranno considerati la stessa cosa (ma non sono la stessa cosa!), per noi gli spazi di manovra saranno finiti e compreremo ad un prezzo più basso tutto dall’estero. Devo dire che anche come consumatore non sarei molto contento.

Sacrificare l’agricoltura a favore dell’industria è un bene o un male? E’ una domanda importante, che richiede una risposta altrettanto importante, poiché l’agricoltura nel nostro Paese svolge funzioni che vanno al di là della semplice produzione di alimenti sani e di buona qualità. La nostra agricoltura è importante per il paesaggio, per l’assetto idro-geologico del territorio, per la tutela della flora e della fauna, per le attività indotte, ecc. Il nostro Paese potrà rinunciare alle esternalità prodotte dall’agricoltura? Il nostro Paese potrà rinunciare alle nostre produzioni alimentari di qualità? Il nostro Paese potrà rinunciare all’agricoltura? Non credo proprio.  


In definitiva, non è tutto così semplice. E’ vero che importiamo una parte (20%), non tutti, dei mangimi che utilizziamo, ma è anche vero che saremmo in grado di produrceli, ma ci sono altre motivazioni che ci impediscono di farlo, non certo la mancata adozione degli OGM.

venerdì 13 febbraio 2015

Coesistenza, uno studio tedesco individua in chilometri la distanza per evitare l'inquinamento ambientale di altri campi coltivati non OGM.

Deposizione di polline di mais in relazione alla distanza dalla sorgente di polline più vicina - risultati di 10 anni di monitoraggio (2001 al 2010)

Frieder Hofmann, Mathias Otto e Werner Wosniok

Pubblicato su Scienze Ambientali Europe 2014, 26:24 doi: 10,1186 / s12302-014-0024-3


Riassunto
Informazioni sulla dispersione del polline è essenziale per la valutazione del rischio e la gestione degli organismi geneticamente modificati (OGM) come il mais Bt. Sono stati analizzati i dati sulla dispersione di polline di mais in 216 siti in Germania, Svizzera e Belgio dal 2001 al 2010. Tutti i dati sono stati raccolti utilizzando lo stesso metodo di campionamento standardizzato. Le distanze tra sito di campionamento e il campo di mais vicino variavano all'interno del campo di 4,45 km.

Risultati
La deposizione di polline di mais è negativamente correlata con la distanza dalla fonte di polline più vicino. La più alta deposizione di polline è all'interno del campo, ma deposizioni di diverse migliaia di pollini per metro quadro sono stati registrati nel campo di chilometri. Un modello di funzione di potenza ha descritto più accuratamente la relazione tra il deposito e la distanza dalla fonte di polline più vicina, piuttosto che il modello esponenziale attualmente utilizzato nella valutazione del rischio nell'UE e di gestione, che sottovaluta l'esposizione per le distanze superiori a 10 m. L'analisi di regressione ha confermato l'alto significato del rapporto di potere. La grande variabilità nel polline di deposizione ad una data distanza riflette le influenze di direzione del vento e di altre condizioni meteorologiche e del sito. Variazioni plausibili dei valori singoli e del predetto media pollini ad una data distanza sono stati espressi da intervalli di confidenza.

Conclusioni

Il modello qui descritto permette stime di polline di deposizione in funzione della distanza dal campo più vicino; quindi, sarà prezioso per la valutazione del rischio e la gestione degli OGM. I nostri risultati indicano che zone cuscinetto dell’ordine del chilometro sono necessari per prevenire l'esposizione nociva di organismi non bersaglio agli OGM.

domenica 4 gennaio 2015

OGM e brevetto, una nuova forma di colonialismo alimentare?

Si vuole iniziare questo post con le parole di Padre Bartolome Sorge S.I.
“Personalmente insisterei maggiormente sulla necessità di un più vasto consenso popolare, se si vuole condurre una campagna efficace sull'uso corretto delle biotecnologie. Infatti, non si tratta solo di prevedere e prevenire le gravi minacce incombenti sulla salute dell'uomo, sull'equilibrio ecologico e a livello sociale, ma anche sul corretto funzionamento del sistema democratico. Si tratta, infatti, ribadendo il primato dell'etica sulla politica, d'impedire che si affermino meccanismi speculativi, soprattutto da parte delle multinazionali, che contraddicono alla logica e alla natura stessa della vita democratica. E' necessario denunciare con forza che non solo è antidemocratico, ma è immorale concedere a pochi privilegiati – attraverso il «brevetto» – il diritto di disporre delle biotecnologie, quasi che le scoperte  riguardanti la vita siano soggette a proprietà privata. Non è lecito legittimare forme di monopolio e di colonialismo, che sono la negazione stessa del bene comune e decretano la morte della democrazia. La vita non è una invenzione industriale. La vita non si fabbrica. La vita non si brevetta.”
In termini generali il Brevetto, rappresenta una sorta di  monopolio legale, seppur limitato territorialmente e temporalmente. Tale monopolio legale è giustificato dal fatto che il sistema brevettuale è basato su una forma di scambio: il titolare del brevetto riceve protezione per la propria invenzione (monopolio temporaneo) e in cambio è obbligato a svelare e a descrivere dettagliatamente l'invenzione.  Pertanto, durante il periodo di applicazione del Brevetto, colui che ne è detentore può sfruttare economicamente la protezione brevettuale, al fine di ottenere un ritorno economico, sia per le spese di ricerca e sviluppo sostenute, sia in termini di profitto.
Da un punto di vista etico, ed in relazione al fatto che stiamo parlando di cibo, bene essenziale per la vita, dobbiamo interrogarci su questa “deriva tecnologica”, al fine di verificare se essa potrà determinare un aumento della libertà per l’uomo, o se, invece, costituirà solo uno strumento per aumentare il profitto privato, a danno delle libertà essenziali della vita stessa e degli elementi che insieme concorrono a costituire i pilastri della pace sociale (verità, amore, giustizia e libertà). In particolare, utilizzando le parole del card. Turkson, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, “E’ azzardato – e in ultima analisi assurdo, anzi peccaminoso – impiegare le biotecnologie senza la guida di un’etica profondamente responsabile.” (Aggiornamenti Sociali, aprile 2014)
In relazione all’ampio dibattito in merito alla tutela brevettuale in ambito agricolo, dobbiamo essere convinti del fatto che l’introduzione di Organismi Transgenici (OT) in agricoltura è fortemente correlato, se non addirittura condizionato, dalla possibilità di brevettare il risultato della manipolazione genetica al fine di ottenerne un profitto; se non ci fosse il Brevetto, con ogni probabilità, non ci sarebbero nemmeno OT e oggigiorno, forse, non si parlerebbe di questo argomento. Relativamente alla tutela brevettale delle innovazioni tecnologiche in ambito genetico, ciò che lascia maggiormente perplessi è l’utilizzazione del Brevetto in ambito agricolo, soprattutto nel caso in cui riguardi piante o animali di fondamentale importanza per l’alimentazione umana. Nella fattispecie, non stiamo parlando di una funzione fisiologica della quale ognuno di noi, volendo, potrebbe farne a meno; stiamo parlando di alimentazione, un’azione che bene o male ognuno di noi deve compiere obbligatoriamente almeno tre volte al giorno. Sono queste considerazioni che differenziano sostanzialmente i brevetti su materiale elettronico o su capi di abbigliamento, da quelli su piante ed animali ad uso alimentare, in quanto essi potrebbero mettere in discussione anche la sovranità alimentare di un Paese. E di questo, ovviamente, si sono accorte le grandi multinazionali del seme, che stanno facendo di tutto per ottenere il monopolio nella produzione e nella distribuzione del seme, poiché non si tratta del solo seme, ma anche di tutto ciò che è possibile trovare a monte e a valle della produzione del seme, con particolare riferimento alla produzione di cibo. In particolare, in questi ultimi anni, a livello mondiale, il più evidente elemento di trasformazione del settore sementiero, è stato il massiccio ingresso in questa attività di grandi imprese multinazionali, che, già attive nel settore chimico e farmaceutico, hanno esteso il proprio campo di azione all’ingegneria genetica applicata alle piante e alla commercializzazioni dei prodotti biotecnologici. In particolare, secondo un rapporto di ETC Group (http://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/ETCCommCharityCartel_March2013_final.pdf), il 59,8% del mercato dei semi e il 76,1% dei prodotti agro-chimici venduti nel mondo sarebbe controllato da sei grandi imprese (Syngenta, Bayer, BASF, Dow, Monsanto e DuPont) che, dal 2007 al 2010, hanno speso 2.2 miliardi di dollari l’anno per la Ricerca e lo Sviluppo di varietà geneticamente modificate. La quota di mercato delle maggiori multinazionali sementiere (Monsanto, DuPont e Syngenta) è passata dal 22% nel 1996 al 53,4% nel 2011, mentre per il settore agro-chimico, dominato al 52% da Syngenta, Bayer e BASF, è cresciuta, nello stesso periodo, dal 33% al 52,5%. Questa situazione di mercato è il risultato di un intenso processo di fusioni e di acquisizioni attuate negli ultimi decenni: Syngenta è, ad esempio, il risultato della fusione parziale tra la britannica Zeneca e l'elvetica Novartis, la quale a sua volta era frutto della fusione tra Ciba Geigy e Sandoz; Monsanto si è ingrandita grazie a una serie numerosa di acquisizioni di compagnie quali Asgrow, Agracetus, Dekalb, Cargil, ecc.; Aventis nasce dalla fusione della francese Rhone Poulenc e della tedesca Hoest; Du Pont ha acquistato la Pioneer.
Come esito finale di tali processi, non soltanto si assiste ad una progressiva assimilazione dell’identità degli operatori presenti nel settore delle sementi e in quello degli agrofarmaci, ma anche ad un’analoga evoluzione delle dinamiche competitive, incentrate in misura crescente sullo sfruttamento e sulla difesa dei diritti di proprietà intellettuale, così come da anni avviene nel settore farmaceutico.
Le strategie di sviluppo attuate dalle multinazionali hanno sostanzialmente determinato due grandi fenomeni:
i) una crescente concentrazione dell’offerta di sementi e di agrofarmaci;
 ii) una crescente osmosi tra il settore delle sementi e quello degli agrofarmaci, nonché tra tali settori e quello farmaceutico.
I processi di concentrazione e di integrazione descritti, funzionali al perseguimento della massima efficienza tecnico-produttiva, pongono tuttavia il problema dei possibili comportamenti strategici dei grandi gruppi multinazionali, diretti a realizzare un maggior controllo dei mercati e a orientare le scelte degli utilizzatori. Da un lato, infatti, l’evoluzione tecnologica e la normativa dei settori in esame ha certamente generato la necessità di disporre di maggiori risorse economiche e dimensioni produttive/commerciali per affrontare gli ingenti costi legati allo sviluppo e alla registrazione delle nuove varietà di piante e delle nuove molecole di agrofarmaci; dall’altro, la concentrazione in poche mani delle risorse destinate alla ricerca e allo sviluppo delle varietà di sementi, nonché delle sostanze più idonee a garantirne la coltivazione e la crescita, consente di esercitare un forte potere di mercato nei confronti degli agricoltori, utilizzatori finali dei prodotti sementieri e fitofarmacologici, aumentandone di fatto il grado di dipendenza dall’industria di produzione degli input. Da rilevare che secondo il Dipartimento USA all’agricoltura, l’aumento dei prezzi dei semi negli ultimi dieci anni ha registrato i maggiori incrementi rispetto ad ogni altro tipo di input agricolo.
Al riguardo, è appena il caso di ricordare, ad esempio, come la diffusione di prodotti transgenici, tutelati dai diritti di protezione intellettuale, ostacoli l'utilizzazione delle sementi di seconda generazione per la semina successiva (anche semi della stessa annata agricola, per i quali è stata pagata una royalty, al fine di effettuare nella stessa annata agraria una seconda coltivazione e un secondo raccolto), decretando così l'impossibilità per gli agricoltori di appropriarsi del seme proveniente dal raccolto dell'anno precedente per seminarlo in una annata successiva, senza corrispondere i relativi diritti brevettuali all'azienda costitutrice (pertanto, non è vero che i semi OGM sono sterili, ma è vero che non si possono riseminare senza ripagare le relative royalty).
Soprattutto in ambito agroalimentare, alcune domande di ordine etico sullo sfruttamento del brevetto esigono una risposta prima di adottare piante ed animali transgenici in agricoltura. In particolare:
-         è lecito brevettare la variabilità genetica delle piante e degli animali destinata ad uso alimentare e attualmente presente sul Pianeta?
-         è eticamente accettabile brevettare gli alimenti?
-         il brevetto sugli alimenti aumenterà o diminuirà il benessere delle persone e della collettività?
-         gli OGM brevettati miglioreranno la condizione umana o sono semplicemente finalizzati ad un aumento dei profitti privati?
-         gli OGM brevettati  determineranno dei vantaggi o degli svantaggi per l’agricoltura del nostro Paese?
-         come potrà essere sfruttato il brevetto nei confronti dell’agricoltore?
-         esistono delle limitazioni allo sfruttamento economico del brevetto, oppure tutto sarà possibile? 
-         chi decide in merito alla qualità dell’alimento brevettato?
-         il detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento le caratteristiche intrinseche, con particolare riferimento a quelle nutrizionali, del prodotto alimentare ottenuto dalla semente transgenica?
-         come potranno essere modificate le caratteristiche nutrizionali?
-         il detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento il legame esistente tra qualità del prodotto e luogo di produzione?
-         da un punto di vista etico, sarà tutto consentito o vi saranno delle limitazioni?
In questa sede, come si è detto in precedenza, non si vuole affrontare la problematica, tutta ancora da chiarire, relativa alla liceità o meno dell’utilizzazione del brevetto per affermare un diritto privato di proprietà su piante ed animali, ma si vogliono esclusivamente evidenziare gli effetti che l’applicazione della tutela brevettuale potrebbe avere sul consumatore e sul settore agricolo nazionale.
Cosa significa "brevetto" per il settore agricolo italiano e, in particolare, quali effetti potrebbe avere sul reddito dell’agricoltore?
In primo luogo, il brevetto sulle piante e sugli animali contribuirà ad aumentare la dipendenza economica del settore agricolo nei confronti di quello industriale, in quanto l'agricoltore sarà costretto ad acquistare tutti gli anni la semente che intende coltivare o l’animale che intende allevare. Qualcuno potrebbe far rilevare che, di fatto, questo già accade per la gran parte delle sementi oggi coltivate (soprattutto per le sementi ibride). Nel caso degli OT, a parte la situazione di monopolio/oligopolio che si verrebbe a determinare, il brevetto significa qualcosa di più, in quanto l’agricoltore, oltre all’acquisto delle sementi, potrebbe essere “obbligato” ad acquistare anche la materia prima in grado di far produrre queste sementi (è il caso delle piante di soia, di colza e di mais resistenti ad uno specifico diserbante, prodotto e venduto anch’esso dalla stessa ditta che ha il monopolio del seme). In futuro il problema potrebbe essere amplificato dal fatto che le ditte che propongono questi nuovi organismi, per proteggersi dall’utilizzazione illecita di sementi brevettate, potrebbero inserire geni che consentono la germinazione del seme solo nel caso di contemporanea presenza di una sostanza particolare, che sarà venduta insieme alla semente (strategia volgarmente chiamata “Traitor”). Se sarà poi vero, come ovviamente si spera, che questi nuovi organismi non avranno alcun effetto sulla salute umana e sull’ambiente, occorrerà considerare che la loro completa accettazione da parte del mercato  (presenza di una sola filiera di distribuzione, assenza di etichettatura obbligatoria dei prodotti OGM, ecc.) determinerà un forte vantaggio competitivo per le ditte sementiere che ne detengono il brevetto, con creazione di un mercato in condizioni di monopolio o “quasi monopolio”. Si verrebbe a determinare ciò che, di fatto, è già avvenuto nei Paesi dove si registra un’accettazione incondizionata di questi nuovi alimenti e nei quali non c’è etichettatura degli alimenti OGM: la presenza di un’unica filiera di distribuzione (per esempio, per il mais un unico prezzo di mercato, sia esso transgenico o convenzionale), associata ad una diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti transgenici, ha determinato l’esplosione delle superfici coltivate con questi nuovi organismi. In pratica, cos’è accaduto? Il minor costo di produzione delle coltivazioni transgeniche ha determinato un abbassamento dei prezzi di mercato dei relativi prodotti, siano essi transgenici e non. Pertanto, anche gli agricoltori che in un primo momento non volevano coltivare transgenico sono stati costretti a farlo dal mercato, se volevano mantenere un certo grado di redditività dall’attività agricola (in assenza di prezzi diversi, agli agricoltori di questi Paesi non conviene certo produrre ai costi del convenzionale, più alti del transgenico, per poi vendere ai prezzi di mercato del transgenico, più bassi di quelli del convenzionale). Da rilevare che da un punto di vista sociale, la completa accettazione degli alimenti OGM (assenza di etichettatura) potrebbe portare ad un aumento del benessere del consumatore, in relazione alla diminuzione dei prezzi dei prodotti alimentari. Ma sarà vero benessere? O aumenterà l’angoscia per l’utilizzazione di un alimento del quale non si conoscono le reali caratteristiche nutrizionali e salutistiche? “Paradiso della Tecnica o angoscia del Paradiso della Tecnica?”

Da un punto di vista agricolo, il brevetto su una pianta potrebbe anche consentire ai Paesi che ne detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in località prossime ai mercati di collocamento, rendendo così competitive produzioni che attualmente sono penalizzate dagli elevati costi di commercializzazione, evitando nel contempo le problematiche ambientali che queste coltivazioni potrebbero comportare se fossero attuate sul loro territorio. Per alcune produzioni questo già avviene. Cos’è accaduto? Alcuni Paesi, vuoi perché non hanno condizioni pedoclimatiche favorevoli, vuoi perché non sarebbero concorrenziali sul nostro mercato a causa degli elevati costi di trasporto, stanno producendo sul nostro territorio su base contrattuale alcuni prodotti dei quali detengono il brevetto; tali prodotti, grazie a specifici “Contratti di coltivazione”, al momento della raccolta diverranno di loro proprietà. Ecco che in questo modo qualsiasi Paese, anche senza alcuna vocazionalità produttiva, e, al limite, senza disponibilità di territorio agricolo, di strutture e di competenze agricole specifiche, potrebbe divenire un protagonista nel mercato del cibo; la produzione di quel particolare alimento sarebbe attuata nel nostro Paese per conto terzi, ovvero per conto di colui che ha il brevetto del materiale di propagazione, che si approprierà del valore aggiunto di questa coltivazione.

In termini generali, quali strategie può attuare il detentore del brevetto sulle sementi transgeniche? Da un punto di vista della sfruttabilità economica, il detentore del brevetto potrebbe limitarsi a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, lasciando libertà di scelta all’agricoltore in merito alle diverse opportunità di vendita sul mercato del prodotto ottenuto da quella stessa semente. Tale somma di denaro potrebbe essere vista come il giusto compenso per colui che ha investito in ricerca e sviluppo ed è riuscito ad ottenere una pianta caratterizzata da un surplus di utilità per l’agricoltore e per il consumatore. Occorre comunque rilevare che, soprattutto nel caso in cui il mercato della semente  sia in condizioni di monopolio, a differenza di quanto precedentemente affermato, l’imposizione di una royalty sulla semente potrebbe limitare il processo di riduzione dei costi di produzione, in quanto il monopolista, con ogni probabilità, sarà portato ad aumentare il prezzo di vendita della semente di un’aliquota  prossima al maggior margine che essa sarà in grado di determinare al produttore agricolo, con annullamento dei potenziali vantaggi economici per il coltivatore e, conseguentemente, per il consumatore (in pratica, se la semente transgenica determina una diminuzione dei costi di 100 €/ha, il monopolista della semente potrebbe far pagare la semente 99 € in più ed accaparrarsi tutto il vantaggio). Pertanto, il brevetto potrebbe impedire l’attesa riduzione dei prezzi di mercato dei prodotti alimentari, annullando così anche l’auspicato ampliamento delle possibilità di acquisto di cibo da parte delle classi sociali economicamente più deboli (quelle classi sociali che in molti Paesi soffrono la fame perché non dispongono del reddito necessario per acquistare il cibo).
Rispetto alla situazione precedente, il detentore del brevetto potrebbe andare oltre. In particolare, oltre a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, potrebbe richiedere una royalty anche per ogni chilogrammo di prodotto ottenuto da quella stessa semente ed immesso sul mercato. Il brevetto in questo caso porterebbe grandi vantaggi a colui che ne detiene la proprietà  e trasformerebbe l’agricoltore in un “dipendente” della stessa ditta proprietaria del seme, in quanto più l’agricoltore produce e più questa ditta guadagna (da rilevare che queste forme contrattuali sono già adottate in agricoltura).
Rispetto alle situazioni descritte in precedenza, il detentore del brevetto potrebbe non accontentarsi  e potrebbe riservarsi anche la proprietà della produzione finale, attuando la produzione per conto proprio, sulla base di un rapporto contrattuale con l’agricoltore.  Trattasi di modalità di produzione che già avvengono in agricoltura e che sarebbero amplificate dalla presenza di un forte ricorso al brevetto. In particolare, colui che detiene il brevetto potrebbe non vendere la semente sul mercato e potrebbe sottoscrivere con l’agricoltore un “contratto di coltivazione”, nel quale saranno indicate le epoche di semina, le modalità di coltivazione e quant’altro serve per portare a termine il processo produttivo, riservandosi la proprietà del prodotto una volta giunto a maturazione. Ovviamente per l’attività prestata l’agricoltore riceverà un compenso, che sarà commisurato all’impegno richiesto in termini di apporto di fattori della produzione (terra, lavoro, capitale). In una situazione come quella evidenziata, l’agricoltore non avrebbe alcun potere contrattuale, per cui la presenza di un unico  “proprietario” della semente, associata al fatto che i coltivatori non sono in grado di manifestare un’unica controparte, li metterebbe tra loro in concorrenza per l’acquisizione della commessa di coltivazione.  E’ facilmente intuibile che in questa situazione si determinerebbe una tendenza verso il basso del compenso relativo allo svolgimento dell’attività agricola, in quanto, nel peggiore dei casi per la nostra agricoltura, colui che possiede il brevetto potrebbe trovare in altri Paesi migliori condizioni contrattuali per attuare il processo produttivo agricolo. Da rilevare, poi, che in questo modo la ditta proprietaria della semente brevettata otterrebbe anche il “monopolio di fatto” del cibo prodotto da quella stessa semente, con tutte le conseguenze del caso in termini di “potere di mercato” e di controllo dei prezzi di vendita del cibo.
Ma il grande salto di qualità per le ditte che detengono il brevetto della semente, potrà essere ottenuto allorquando la manipolazione genetica sulle piante consentirà di sfruttare l’”apomissia”, ovvero la possibilità di originare piante identiche alla madre anche nel caso di riproduzione sessuata di sementi ibride (l’apomissia consentirà di utilizzare come semente una parte del raccolto dell’annata precedente, senza incorrere negli inconvenienti determinati dalla presenza di seme ottenuto per autofecondazione). In particolare, lo sfruttamento dell’”apomissia” consentirà alle ditte sementiere  di  evitare la produzione e la successiva commercializzazione del seme, mantenendo comunque la possibilità di ricavare le royalty dal seme e dalla produzione di cibo; il “seme ibrido apomittico”, una volta distribuito, sarà annualmente prodotto autonomamente dall’azienda agricola, la quale, mediante un apposito contratto di sfruttamento della semente, sarà tenuta a pagare le royalty al detentore del brevetto, ogni qual volta utilizzerà le sementi apomittiche per una nuova semina. L’”apomissia” semplificherà notevolmente la vita al detentore del brevetto, che dovrà attuare un’unica operazione: distribuire una sola volta la semente apomittica e incassare le royalty ogni volta che il seme viene seminato ed il cibo viene prodotto. Qualcuno afferma che questo scenario è irrealizzabile, in quanto alle ditte sementiere non converrebbe mettere sul mercato una semente apomittica, poiché lieviterebbero le frodi e occorrerebbe mettere in atto un sistema di vigilanza decisamente costoso. Purtroppo queste affermazioni si scontrano con la realtà, in quanto le grandi multinazionali del seme stanno cercando di evitare questo inconveniente mediante la creazione di una “Apomissia inducibile chimicamente”. In pratica, che cosa accade? Accade che la semente apomittica germina ed origina una pianta identica alla madre solo in presenza di una sostanza chimica che sarà venduta, a parte, insieme alla semente e che dovrà essere distribuita nel campo coltivato, così come un qualsiasi trattamento chimico. Da rilevare che tutto questo non è fantascienza, in quanto il brevetto sull’”Apomissia inducibile chimicamente” è già stato richiesto (http://www.ptodirect.com/Results/Publications?query=IN/(Russinova-Eygeniya).

Gli esempi precedenti, costituiscono per la nostra Società un vantaggio o uno svantaggio? Si adattano a tutte le coltivazioni o solo a quelle brevettate? E le popolazioni svantaggiate otterranno dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre rispondere a queste domande prima di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi controproducenti per il benessere della nostra Società e per quello delle Future Generazioni. A questo proposito, interessanti sono le considerazioni del card. Turkson “Si promuovono le nuove tecnologie asserendo che aumenteranno il cibo a disposizione di ciascuno, ma questo è solo un pezzo della storia. In realtà, le innovazioni sono concepite e realizzate a beneficio di un numero circoscritto di persone già molto abbienti. Man mano che si procede, molti piccoli produttori saranno inevitabilmente esclusi e/o spostati dalle loro terre. Saranno “amputati” dalle loro occupazioni tradizionali e dal loro stile di vita. Lo sradicamento di singoli, famiglie e comunità non è soltanto una dolorosa separazione dalla terra, ma investe il loro intero ambiente esistenziale e spirituale, minacciando e talvolta sconvolgendo le poche certezze della loro vita. Non dovrebbe sorprenderci il fatto che alcune popolazioni rifiutino certe innovazioni, non perché siano cattive o percepite come tali, ma perché il modo in cui vengono diffuse comporta costi insostenibili per coloro che in teoria dovrebbero beneficiarne. Non sono loro che non capiscono; è chi si rifiuta di guardare il quadro dell’insicurezza alimentare nel suo complesso – le persone, la loro dignità e la loro vita, oltre alla produzione e alla distribuzione del cibo – a non cogliere il nocciolo della questione, ….”. 

A conclusione di quanto precedentemente esposto, è possibile affermare che il brevetto su piante ed animali transgenici sarà in grado di sconvolgere il modo di produrre in agricoltura. Lo scenario sarà quello di un settore in cui l’agricoltore avrà perso ogni potere decisionale; egli diverrà semplicemente un fornitore di mezzi di produzione a favore di colui che detiene il brevetto di quel prodotto, che diverrà anche proprietario del cibo. Cibo che potrà essere ottenuto in ogni parte del Globo, non importa con quale materiale genetico, non importa con quale tecnica di produzione, non importa con quali tutele sociali. Tutto questo comporterà la realizzazione di un grande mercato mondiale dei prodotti alimentari, un mercato dove l’imperativo sarà produrre di tutto ovunque, ai più bassi costi possibili, per poi vendere il prodotto laddove ci sono i mezzi economici per acquistarlo. In pratica, il brevetto sul cibo rischia di essere l’antitesi del “Cibo come Bene Comune” e potrebbe rappresentare una nuova forma di “colonialismo alimentare”.


domenica 19 ottobre 2014

Negli USA la Diabrotica del mais ha maturato resistenza genetica alla tossina prodotta dal mais Bt

Coltivazioni OGM per produrre tossine insetticide derivate dal batterio Bacillus thuringiensis (Bt) sono piantati su milioni di ettari l'anno, riducendo l'uso di insetticidi convenzionali e sopprimendo parassiti. Tuttavia, l'evoluzione della resistenza degli insetti potrebbe ridurre questi benefici. Un parassita primario del mais Bt negli Stati Uniti è la diabrotica del mais, Diabrotica virgifera (Coleoptera: Chrysomelidae).

Si segnala che i campi individuati dagli agricoltori come aventi gravi lesioni da diabrotica del mais Bt contenevano popolazioni di diabrotica del mais che mostravano la sopravvivenza significativamente più alta. Le interviste con gli agricoltori hanno indicato che il mais Cry3Bb1 era stato coltivato in quei campi per almeno tre anni consecutivi. C'era una correlazione positiva significativa tra il numero di anni Cry3Bb1 granoturco era stato coltivato in un campo e la sopravvivenza delle popolazioni alla diabrotica su mais Cry3Bb1 nei biotest.

Questo è il primo rapporto di resistenza di campo-evoluto per una tossina Bt dalla diabrotica del mais e da qualsiasi specie di Coleotteri. Piantagione insufficiente di rifugi e di successione non recessiva della resistenza può aver contribuito alla costituzione della resistenza. Questi risultati suggeriscono che i miglioramenti nella gestione della resistenza e un approccio più integrato per l'utilizzo di colture Bt possono essere necessari per evitare la comparsa di soggetti di diabrotica resistenti.

http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0022629o

venerdì 10 ottobre 2014

Vantaggi economici del mais Bt negli USA. Di che cosa stiamo parlando?

Molto spesso i sostenitori del mais Bt affermano che il reddito ottenibile dalla coltivazione di mais Bt sarebbe decisamente superiore a quello ottenibile dal mais convenzionale. Purtroppo, secondo specifiche indagini dell'Extension Service dell'Università del Minnesota, la realtà è un'altra, ovvero, considerato l'elevato costo della semente OGM, il vantaggio economico è limitato a pochi dollari per ettaro. In particolare, in uno studio pubblicato dalla "Extension Service" dell'Università del Minnesota si apprende che "L'analisi storica dei danni procurati dalla piralide in Minnesota durante il periodo 1988-1995 hanno dato questi risultati. Protezione del rendimento stimato per acro del mais Bt è stato di $ 5.61 e $ 11,63 per il controllo della prima e della seconda generazione di piralide, rispettivamente. I benefici previsti, per un totale di 17,24 dollari per acro, superano in modo significativo il premio di prezzo corrente per il mais Bt di $ 7 a $ 10 per acro."

 http://www.extension.umn.edu/agriculture/corn/pest-management/bt-corn-and-european-corn-borer/

 Allora, di che cosa stiamo parlando? Il prodotto "salvato" vale 17,24 dollari per acro, mentre il maggior costo della semente è mediamente pari a 8,5 dollari. Pertanto, stiamo parlando di un incremento di reddito di 8,74 dollari/acro. Considerato che 1 acro è pari a 4.047 mq, il maggior reddito derivante dall'adozione di mais Bt è pari a 21,60 dollari/ettaro, ovvero 16,61 euro/ettaro. Allora, in una situazione come quella europea in cui i consumatori chiedono l'etichettatura degli alimenti OGM, la domanda che sorge spontanea è la seguente............"riusciremo con questi 16,61 euro/ettaro a coprire i costi di separazione di filiera, ovvero di etichettatura, nonchè gli eventuali costi ambientali/sociali dovuti all'aumento di rischiosità che caratterizza tutte le innovazioni tecnologiche?"

Personalmente credo proprio che la risposta sia negativa, in quanto attualmente il costo di produzione di 1 ettaro di mais si aggira intorno ai 1.500 euro/ettaro, per cui questo incremento di redditività è pari a poco più dell'1%............una cifra a dir poco irrisoria.


Sempre secondo lo studio precedente dell'Università del Minnesota, occorre aggiungere che........ "Popolazioni di piralide europee fluttuano nel corso degli anni, da un campo coltivato a quello successivo. Allo stesso modo, le rese del mais e i relativi prezzi di mercato spesso sono volatili. Questa variabilità solleva preoccupazioni circa le fluttuazioni dei benefici economici annuali del mais Bt. Per illustrare questo punto, il rischio di investire nel mais Bt è stato esaminato per il Sud del Minnesota su un periodo di otto anni 1988-1995. Questo periodo ha incluso tre focolai annui (alto) per piralide e cinque endemiche (bassi). Il beneficio medio per questo periodo, 17,24 dollari per acro, era molto vicino alla stima nazionale, ma il ritorno economico varia considerevolmente tra gli anni di infestazioni endemiche e quelli di epidemia. Nel corso degli anni con infestazioni endemiche, la protezione del rendimento offerto dal mais Bt a malapena copriva il premio di prezzo per le sementi, attualmente variabile tra $ 7 a $ 10 per acro. Durante gli anni di epidemia, il risparmio di rendimento erano 4-5 volte il costo delle sementi aggiunto ($ 28 a $ 50 per acro). La linea di fondo: non aspettatevi un ritorno economico ogni anno o in ogni campo. Come con qualsiasi tipo di resistenza naturale, mais Bt offre solo un beneficio economico in caso di focolai di piralide."

C'è anche questo studio interessante della Iowa State University, dove addirittura per la soia si guadagnerebbe di più con la soia convenzionale, rispetto a quella OGM.

 http://www.leopold.iastate.edu/news/leopold-letter/1999/fall/does-planting-gmo-seed-boost-farmers-profits 

PERTANTO, IL VANTAGGIO ECONOMICO PER GLI AGRICOLTORI E' LIMITATO E FINO A QUANDO I CONSUMATORI RICHIEDERANNO L'ETICHETTATURA DEGLI ALIMENTI OGM, NON CI SARA' ALCUN VANTAGGIO ECONOMICO PER NESSUNO......... TRANNE, OVVIAMENTE, CHE PER I PRODUTTORI DELLE SEMENTI OGM!