L'AFFERMAZIONE "la scienza ha
sempre ragione" non è scientifica. È ideologica. Lo è tanto quanto il
pregiudizio reazionario per il quale ogni mutamento del modo di
produrre, consumare, nutrirsi, avviene nel nome di interessi
inconfessabili, e a scapito della salute della collettività umana.
L'acceso dibattito sugli ogm (vedi gli interventi su Repubblica di Vandana Shiva, Elena Cattaneo, Carlo Petrini, Umberto Veronesi)
fatica a mondarsi di queste opposte rigidità. E fa specie che nel campo
"pro", che annovera valenti ricercatori e scienziati, pesi ancora come
un macigno l'idea che il fronte degli oppositori sia un'accolita di
mestatori che, in odio al progresso umano e alla libertà di ricerca,
alimentano dicerie malevole e speculano sulla paura e l'emotività
dell'opinione pubblica. Una volta esposte le ottime ragioni della
ricerca scientifica e della sua necessaria libertà d'azione, perché
evocare, tra i soggetti "antiscientifici" in qualche modo assimilabili
agli oppositori degli ogm, anche i fattucchieri di Stamina? Allo stesso
identico modo le frange più eccitabili del fronte anti-ogm possono
immaginare che la ricerca genetica sulle piante sia nelle mani di
squilibrati megalomani (alla dottor Frankenstein) o di avidi mercenari.
Le
forzature polemiche fanno parte del gioco, ma non aiutano a mettere
meglio a fuoco gli argomenti. La più autorevole istituzione mondiale in
tema di agricoltura e alimentazione, la Fao,
mette a disposizione di competenti e incompetenti (come me) una sintesi
esauriente e comprensibile delle potenziali ricadute positive e
negative delle coltivazioni ogm, con una breve analisi della loro
verificabilità.
Lo spazio di un articolo non permette di
elencare tutti i punti (rimando i lettori al sito della Fao). Mi limito a
dire che i "capi di accusa" sono divisi in tre gruppi: ricadute
sull'ambiente agricolo e l'ecosistema; ricadute sulla salute umana;
ricadute sull'assetto economico e sociale. Mi sembra interessante e
molto rilevante che la Fao, sulla quasi totalità di questi punti
critici, non esprima certezze. Non dice, cioè: questa critica è campata
in aria oppure questa critica è corretta. Esprime dubbio. In larga parte
dovuto alla tempistica medio-lunga che una verifica attendibile
(scientifica!) richiederebbe.
Il principio di cautela - che non
vuol dire condanna né assoluzione: vuol dire umiltà di giudizio -
dovrebbe e potrebbe dunque essere uno dei punti di partenza di una
corretta discussione comune, ammesso che mai ci si arrivi. Certo
confligge, questo principio di cautela, con la comprensibile fretta con
la quale i finanziatori della ricerca, in grande parte nutrita con fondi
privati, vorrebbero mettere a profitto le loro scoperte e i loro
prodotti. È esattamente per questo che Vandana Shiva mette in guardia
contro la coincidenza di ruolo tra ricerca e commercializzazione. Sono
campi di interesse entrambi utili e legittimi: ma la loro ibridazione -
per dirla con una battuta transgenica - può generare mostri.
Una
volta detto che la questione è molto complicata, coinvolge competenze
scientifiche le più varie e non è archiviabile con un "sì" né con un
"no", colpisce assai che di questi "rischi" il più sottaciuto sia quello
che, al contrario, è il più nevralgico e coinvolgente: la ricaduta
socio-economica. È anche questo, in fondo, un portato della crisi della
politica: la rinuncia ormai quasi pregiudiziale a mettere in
discussione, o anche solo a cogliere, le scelte strutturali, quelle che
determinano gli assetti futuri.
Quasi inutilmente, in tutti
questi anni, Carlo Petrini e il vasto movimento mondiale che si rifà a
Slow Food e a Terra Madre hanno rivendicato la natura squisitamente
politica del loro lavoro e della loro battaglia. Chi oggi rivendica la
"sovranità alimentare" delle comunità produttive (e dei consumatori)
compie la stessa operazione politico-culturale dei nostri avi socialisti
quando dicevano "la terra a chi la lavora". Si rivendica, né più né
meno, l'autodeterminazione dei produttori, affidando ad essa la difesa
delle biodiversità, della varietà delle colture, delle culture, delle
identità locali.
Ovviamente è del tutto lecito sostenere che
l'agroindustria, con la sua potentissima opera di selezione delle specie
(tutte brevettate) e di inevitabile omologazione della produzione
agricola mondiale, è perfettamente compatibile con la biodiversità e con
le piccole coltivazioni; o addirittura che è giusto e utile rimpiazzare
del tutto le produzioni tradizionali con la produzione agroindustriale.
Ma non è lecito fare finta che non sia questo (il modo di produzione,
la struttura stessa delle società future) il punto nodale. Non sono in
ballo solo il potenziale allergenico di un pomodoro, o il chilo di
pesticida per ettaro in più o in meno. L'ordine del giorno non è solo
"gli ogm fanno bene, gli ogm fanno male".
È in discussione la
vita stessa delle società rurali nel mondo (più della metà dei viventi),
la ripartizione del potere, del reddito, delle conoscenze tra una rete
infinita di piccole comunità e pochi, immensi e quasi sempre anonimi
centri decisionali. Sono in discussione gli 87 milioni di ettari di
suolo africano acquistati dal 2007 a oggi dalle multinazionali americane
e cinesi e da fondi di investimento opachi e onnipotenti: è una
superficie grande quasi come Italia e Francia messe insieme, e a nessuno
può sfuggire che coltivare pezzi così ingenti di pianeta a soia ogm per
produrre biocarburante oppure incrementare le produzioni locali (più
della metà dell'agricoltura africana è vocata all'autosostentamento) è
una scelta tanto importante, tanto strutturale quanto lo è, nel bene e
nel male, ogni grande rivoluzione tecnologico-scientifica, industriale,
sociale.
E se l'Africa vi sembra lontana e comunque fuori
portata, come può chi vive in Francia o in Italia non percepire che la
straordinaria varietà delle colture, il legame strettissimo tra i luoghi
e ciò che si coltiva, si mangia e si beve, insomma l'agricoltura
plurale, "calda" e identitaria per la quale si battono i Petrini e si
battevano i Veronelli, i Mario Soldati e i Gianni Brera, non è una
frontiera del passato, è un caposaldo della nostra trama sociale,
economica, culturale? Dunque è futuro allo stato puro? O dobbiamo dire
"Italian style" solo parlando di borsette?
La libertà della
ricerca scientifica è preziosa e va difesa: specie in campo medico, le
biotecnologie possono dare frutti vitali, e Cattaneo e Veronesi fanno
benissimo a tenere fermo il punto. Ma non è solo di questo che si parla,
quando si parla di ogm. E i critici degli ogm possono ben dire di avere
sbagliato qualcosa di sostanziale, in termini di comunicazione, se
ancora oggi ci si scanna sul ravanello transgenico (faccio per dire) e
non si capisce che non è di lui, è di quasi quattro miliardi di
contadini che si sta parlando, del loro e del nostro futuro, e della
loro libertà
di scelta che è degna e importante quanto quella dei benemeriti
ricercatori scientifici. Non è vero che "quando c'è la salute c'è
tutto". Conta la libertà. Conta la dignità. Conta che il potere sia in
pochissime mani o nelle mani di molti.