La ricerca scientifica sta lavorando per creare "piante OGM arricchite", ovvero piante che dovrebbero dar origine ad "alimenti funzionali", "alimenti potenziati", aventi particolari caratteristiche, alimenti a metà strada tra un nutrimento e un "farmaco". Parliamo di alimenti arricchiti di vitamine e di quant'altro possa servire al "benessere" (sarà vero benessere?) dell'uomo. Cerchiamo di rispondere a questa domanda, con particolare riferimento alle problematiche sociali che l'introduzione di questi nuovi alimenti può avere per la nostra Società.
1. – Introduzione agli OGM per scopi alimentari
Per il momento gli Organismi Geneticamente Modificati
(OGM) o Organismi Transgenici (OT), oggetto di
coltivazione, di ricerca e/o di sperimentazione, possono essere suddivisi in
tre principali categorie:
-
quelli di prima generazione (piante
resistenti agli insetti e piante resistenti ad uno specifico diserbante ad
azione totale);
-
quelli di seconda generazione (con più
vitamine, con meno grassi, a maturazione ritardata, con più antiossidanti,
ecc.);
-
quelli di terza generazione, che saranno
sviluppati allo scopo di far produrre alle piante vaccini e/o medicinali, che
sarebbero altrimenti prodotti mediante sintesi chimica.
Per quanto attiene a quelli di prima generazione, e con
particolare riferimento alla situazione europea, dobbiamo rilevare che per il
momento essi non sono stati accettati dal consumatore (secondo le ultime
indagini di mercato i tre quarti dei consumatori avrebbero manifestato
l’intenzione di non voler acquistare
alimenti transgenici), in quanto presentano dei rischi per la salute umana e
per l’ambiente (la comunità scientifica è ancora divisa su questi argomenti).
Dobbiamo inoltre rilevare che a distanza di dieci anni dall’introduzione sul
mercato della prima pianta transgenica, purtroppo, le promesse non sono state
per la gran parte mantenute. In particolare, taluni studi effettuati da
ricercatori di Università americane, sulla base delle esperienze acquisite
dagli agricoltori che hanno coltivato piante transgeniche, avrebbero rilevato
che [7]:
- l’aumento
produttivo non sempre si è verificato. Soprattutto per la soia, i
dati di produttività media per ettaro avrebbero consentito di verificare una
diminuzione del 6% circa dei raccolti, mentre per il mais l’aumento produttivo
sarebbe limitato al 2,6%. Pertanto, l’auspicato aumento della produttività media
per ettaro, così come affermato dai sostenitori di questa tipologia di piante,
non si sarebbe verificato e, con ogni probabilità, è ancora lontano dal
verificarsi. Interessanti a questo proposito sono le affermazioni di alcuni
noti genetisti agrari italiani: “Le piante transgeniche attualmente
commercializzate non alzano il tetto di produzione potenziale. A questo scopo,
sarebbe necessario rimaneggiare la pianta ex novo, non limitandosi ad
introdurre singoli geni ma modificando processi fisiologici che rappresentano
il collo di bottiglia dell’aumento di produzione.” [Gavazzi, 2004]. “(omissis)
….. è ancora da dimostrare la superiore potenzialità produttiva delle varietà
GM rispetto alle varietà locali adattate in sistemi agricoli sfavoriti da
condizioni climatiche ….. o edafiche avverse. In questo caso il miglioramento
genetico mediante la classica ibridazione intra e interspecifica seguita da
selezione, ha sempre offerto e continuerà ad offrire risultati sorprendenti ed
a costi relativamente bassi.” [Scarascia
Mugnozza, 2001];
-
l’uso di diserbanti non sarebbe diminuito, a causa di numerosi fattori, tra i quali sono da segnalare
la massiccia diffusione delle piante infestanti geneticamente resistenti alla
molecola diserbante, l’acquisizione da parte di piante parentali selvatiche del
gene di resistenza al diserbante, la presenza nei campi coltivati con piante
transgeniche di infestazioni di altre piante transgeniche coltivate in annate
precedenti e che sono esse stesse resistenti al diserbante (secondo le esperienze
riportate da alcuni agricoltori canadesi, la colza RR è divenuta una delle
principali piante infestanti della soia RR e, più in generale, delle altre coltivazioni transgeniche e/o
convenzionali). Anche questa problematica era stata a suo tempo segnalata da
alcuni genetisti italiani favorevoli alla diffusione di piante transgeniche. “Un’altra
preoccupazione molto sentita riguarda la diffusione del polline e dei semi
nell’ambiente. In effetti molte piante in natura sono sessualmente compatibili
con piante transgeniche e vi è quindi la possibilità che il loro polline possa
fecondarle trasferendovi il gene esogeno. Ciò sarebbe deleterio nel caso dei
geni terminator, che causano sterilità o di geni resistenti agli erbicidi.
Quest’ultimo è un evento già verificatosi negli Stati Uniti dove è stato
necessario ricorrere alla sostituzione dell’erbicida a causa della comparsa di
erbe infestanti resistenti a esso.” [Sala, 2000];
- l’utilizzazione
di insetticidi non sarebbe diminuita, o, perlomeno, non sarebbe diminuita
nella quantità auspicata, a causa della naturale selezione di generazioni di
insetti resistenti alla molecola insetticida prodotta autonomamente dalla
pianta transgenica. Anche in questo caso, ricercatori italiani avevano a suo
tempo fatto presente che ”Limitazioni
all’impiego di resistenze genetiche derivano dalle continue modificazioni cui
va incontro il patogeno che, come già riportato, sviluppando nuovi geni di
virulenza, è in grado di superare rapidamente le resistenze presenti
nell’ospite.” [Scarascia Mugnozza, 2001];
le piante transgeniche
disponibili presentano dei geni di resistenza gli antibiotici, che possono determinare problemi salutistici all’organismo
umano. Questo problema è stato evidenziato anche da taluni sostenitori degli OT.
In particolare, “Le
biotecnologie avanzate ….. permettono anche il trasferimento di geni tra specie
tassonomicamente lontane, superando le barriere naturali; ciò apre prospettive
rivoluzionarie dal punto di vista dei benefici potenziali, ma pone anche una
serie di problemi di sicurezza, etici, di scelta del consumatore e di impatto
ambientale. Uno dei problemi deriva dall’esigenza di utilizzare per la
trasformazione costrutti che, oltre al gene da trasferire, portano anche un
gene che conferisce la resistenza ad un agente selettivo, in molti casi un
antibiotico.” [Scarascia Mugnozza, 2001];
-
- la
presenza sul territorio di coltivazioni transgeniche non consentirebbe la
coesistenza con altre forme di agricoltura (convenzionale o
biologica), in relazione al fatto che queste piante presentano tutte transgeni
di tipo costitutivo, con conseguente presenza di “inquinamento genetico”
provocato dal polline transgenico. In particolare, il polline transgenico può
fecondare sia piante della stessa specie coltivate, sia piante infestanti
parentali, le quali in una annata successiva potrebbero originare piante
infestanti transgeniche, che potrebbero diffondere polline transgenico
nell’ambiente, con tutte le conseguenze del caso;
- le piante
transgeniche non avrebbero consentito l’auspicato incremento di reddito per
l’agricoltore, anzi, a volte, avrebbero determinato un abbassamento
dei prezzi di mercato dei relativi prodotti, in relazione alla difficoltà di
collocamento delle produzioni ottenute, alla diffidenza dei consumatori nei
confronti di questi nuovi alimenti ed alla necessità di mantenere separate le
filiere di distribuzione (segregazione fisica della produzione, analisi
genetiche, etichettatura, ecc.), che avrebbe determinato una lievitazione dei
costi di filiera.
Per il momento, gli OT di prima generazione sono gli
unici che sono stati introdotti e proposti per la coltivazione in pieno campo.
Relativamente alla loro diffusione dobbiamo rilevare che, soprattutto in alcuni
Paesi (U.S.A., Canada, Argentina) dove vige il concetto si “sostanziale
equivalenza” tra l’alimento transgenico e quello convenzionale (non c’è
separazione di filiera produttiva e, quindi, non c’è etichettatura dei due
alimenti ed esiste un unico prezzo per la stessa tipologia di prodotto, sia esso
convenzionale o transgenico), essi sono stati adottati massicciamente dagli
agricoltori. Tale situazione, che potrebbe essere erroneamente accreditata
esclusivamente ad un elevato gradimento di queste sementi da parte degli
agricoltori, è determinata anche
dal fatto che in questi Paesi è presente
un’unica filiera di distribuzione per il medesimo prodotto, sia esso
transgenico o non transgenico. In
presenza di un’unica filiera, e con prezzi flettenti dei prodotti, così come si
è verificato per la soia e per il mais transgenici, è ovvio che se
l’agricoltore vuole conservare un certo margine di redditività dall’attività di
coltivazione, sarà “costretto”, anche suo malgrado, a seminare le cultivar
caratterizzate dal minor costo di produzione (ovvero quelle transgeniche). Ecco
allora che l’incremento delle superfici coltivate è dovuto, non tanto, ed
esclusivamente, ad un gradimento dell’agricoltore nei confronti di queste
piante, così come alcuni tendono a far credere, ma alla necessità da parte
dello stesso di mantenere un certo margine di redditività dall’attività
agricola (è ovvio che se non c’è distinzione di prodotto, ed il prezzo del mais
transgenico è uguale a quello del mais convenzionale, egli coltiverà quello
caratterizzato dal minor costo di produzione, ovvero quello transgenico).
Gli OT di
seconda e di terza generazione per il momento non esistono o,
quantomeno, la loro presenza è limitata ai laboratori di ricerca e non sono
ancora disponibili per la coltivazione in pieno campo e, quindi, non sono ancora
disponibili per l’utilizzazione come alimenti. Le promesse sono entusiasmanti,
piante alimentari che produrranno vitamine di ogni tipo e che salveranno dalla
cecità milioni di bambini, frutti che potranno rimanere sugli scaffali dei
negozi di vendita per settimane senza marcire, alimenti ricchi di licopene che
impediranno la formazione di qualsiasi tipo di cancro, alimenti ricchi di
“Omega 3” che impediranno l’invecchiamento delle nostre cellule e ci allungheranno la vita, “frutti
particolari” che impediranno la diffusione di malattie fortemente invalidanti,
alimenti “ipocalorici” in grado di banalizzare ogni dieta alimentare e l’elenco
potrebbe continuare ancora e stupirci ancor di più.
2. – Quali opportunità per
l’agricoltore italiano?
Da un punto di vista dell’agricoltura italiana, l’introduzione di nuove
produzioni agricole, come possono essere considerati gli “alimenti funzionali”
o “nutraceutici”, potrebbe rispondere alle nuove esigenze della politica
agraria comunitaria. Esigenze che possono essere così individuate:
-
mantenimento del tessuto
socio-economico delle aree rurali, con particolare riferimento a quelle
marginali;
-
protezione dell’ambiente, mediante
l’introduzione di incentivi per le aziende che adottano misure agro-ambientali;
-
impostazione di processi
produttivi relativi a materie prime non eccedentarie, come possono essere
considerati gli “alimenti funzionali”.
La produzione di “alimenti funzionali
transgenici” potrebbe rispondere sicuramente a questa terza esigenza, in quanto
trattasi di nuove produzioni, caratterizzate da un mercato ben definito, che potrebbero
determinare nuove opportunità di reddito per il produttore agricolo. Il
condizionale è d’obbligo, in quanto tali
opportunità di guadagno si potranno verificare solo se il mercato di quel
prodotto sarà "libero", poiché, nel caso, molto più realistico, in
cui la coltivazione fosse attuata "su contratto", i maggiori guadagni
sarebbero quasi esclusivamente a favore di colui che detiene il brevetto della
pianta transgenica in grado di produrre l’”alimento funzionale”. In
particolare, il proprietario del brevetto, al fine di massimizzare i suoi
profitti, con ogni probabilità, “appalterà” la coltivazione agricola (con un
contratto simile a quello di soccida adottato per l’allevamento avicolo o
suinicolo) e pagherà l’agricoltore sulla base delle operazioni colturali e dei
fattori della produzione necessari per portare a termine il ciclo produttivo.
Tale situazione non è certo favorevole all’agricoltore, in quanto introdurre in
agricoltura la coltivazione di “alimenti funzionali” che potrebbero sostituire
quelli convenzionali, significa rivedere le norme relative alla brevettabilità
di questi “nuovi alimenti”. In particolare, colui che possiede il brevetto,
potrebbe acquisire il “monopolio di fatto” su quella pianta, impedendone, così,
la libera coltivazione. Occorrerà, pertanto, considerare la diminuzione
di potere contrattuale dell'agricoltore, in relazione alle possibili
strategie economico-commerciali che si prospettano per colui che è "proprietario"
della semente transgenica in grado di produrre “alimenti funzionali”. Il
detentore del brevetto:
-
potrebbe
limitarsi a richiedere all’agricoltore il
pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, lasciandogli
libertà di scelta in merito alle diverse opportunità di vendita sul mercato del
prodotto ottenuto (è quello che avviene oggigiorno per la gran parte delle
sementi, la ditta sementiera produce ricerca e sviluppo e l’agricoltore paga le
royalty per i servizi che riceve). Trattasi di una situazione che potremmo
definire “normale”, una situazione in cui tutti i soggetti che partecipano a
questo progetto produttivo apportano le proprie competenze ed acquisiscono i
relativi redditi;
-
il detentore del brevetto della pianta che produce
l’”alimento funzionale”, potrebbe andare oltre e richiedere il pagamento di una
royalty, oltre che per ogni chilogrammo di semente, anche per ogni chilogrammo
di prodotto ottenuto da quella semente
e immesso sul mercato (avviene già per talune coltivazioni ottenute
attraverso miglioramento genetico convenzionale). In questo caso l’agricoltore
diverrebbe, in parte, un “dipendente” della ditta che possiede il brevetto di
quella pianta, in quanto la sua attività imprenditoriale andrebbe a premiare
anche altri soggetti, che non hanno assunto nessun rischio di carattere
gestionale nella conduzione dell’attività agricola;
-
il detentore del brevetto potrebbe non accontentarsi
ancora e potrebbe riservarsi la proprietà della produzione finale
dell’”alimento arricchito”, attuando la produzione per conto proprio, sulla
base di un rapporto contrattuale con l’agricoltore. Nel contratto di coltivazione saranno stabilite le operazioni meccaniche
da effettuare, il costo delle stesse, nonché le modalità di conferimento del
prodotto finale ottenuto (avviene
già per talune coltivazioni e allevamenti ed è forse la situazione più
realistica per la produzione di “alimenti funzionali”). E' ovvio che in una situazione
come questa l'agricoltore diverrebbe esclusivamente un prestatore di
manodopera, con conseguente perdita delle sue prerogative imprenditoriali. Da
rilevare poi che con una strategia di questo tipo il monopolista otterrebbe due
grandi vantaggi. In primo luogo egli metterebbe in concorrenza tra loro gli
agricoltori per accaparrarsi la commessa di coltivazione, con conseguente
abbassamento del costo del contratto di coltivazione. In secondo luogo egli
diverrebbe monopolista di quell’alimento, con tutte le conseguenze del caso
(regolazione del mercato attraverso adeguate politiche dei prezzi o politiche
delle quantità). Chi otterrà vantaggi da
questa situazione? L’agricoltore? Il consumatore? In detentore del brevetto?
Sicuramente quest’ultimo, in quanto potrà trasferire il processo produttivo
laddove ha un costo di produzione inferiore (non importa in quale Paese o in
quale area del Globo) e vendere il prodotto ottenuto laddove i consumatori sono
disposti a pagarlo di più.
Per il
produttore agricolo vi è poi il pericolo che questi nuovi alimenti, ottenuti
sulla base di una tutela brevettale,
possano sostituire
alimenti convenzionali, in quanto da un punto di vista alimentare essi saranno tra loro
sempre più surrogabili. In particolare, attualmente, ogni alimento ha proprie
specificità che lo rendono accettabile o meno da parte del consumatore. Così,
per esempio, il consumatore è consapevole del fatto che mangiando arance o
actinidia ingerisce un alimento ricco di vitamina C, mangiando zucca o carote
arricchisce la sua dieta di vitamina A, ecc. In questa situazione si creano
opportunità di reddito per l’agricoltore, che, in funzione delle sue capacità
professionali e delle opportunità connesse alla localizzazione della sua
azienda agricola, produrrà arance, zucche, carote o quant’altro. Quando ci
sarà un “alimento funzionale” che sarà contemporaneamente ricco di vitamina C e
A o di quant’altro cosa accadrà? Per assurdo, forse, non ci sarà più
bisogno della zucca o dell’arancia (forse sarà una patata). E le opportunità di
reddito per l’agricoltore? Saranno limitate alla scelta di coltivare questo
unico prodotto, che con ogni probabilità sarà brevettato e potrà essere
seminato solo sulla base di un rapporto contrattuale con il proprietario del
brevetto.
Conseguenza
diretta della situazione precedente è che l’introduzione di un “nuovo alimento”
in grado di surrogare altri alimenti, sia esso transgenico o meno, determinerà
una diminuzione della domanda dei tradizionali alimenti
convenzionali, con
successiva diminuzione del loro prezzo di mercato, diminuzione delle
opportunità di reddito per l’agricoltore e conseguente diminuzione delle
possibilità di scelta di coltivazione per il nostro agricoltore. Qualcuno
potrebbe pensare che, tutto sommato, per l’agricoltore la situazione non
cambia, in quanto egli sposterà la coltivazione sul “nuovo alimento”. Questa
affermazione è sicuramente vera, occorre però considerare che questo “nuovo
alimento” sarà sicuramente brevettato, per cui si ripropone una situazione
produttiva come quella descritta in precedenza (contratti di coltivazione).
Un’evoluzione
in questo senso è ancor più accentuata nel caso delle produzioni
agricolo/alimentari destinate alla trasformazione industriale. In particolare,
da questo punto di vista occorre essere consapevoli del fatto che, la
"possibilità recentemente
offerta dalle biotecnologie avanzate di
intervenire sulla base organica del
processo produttivo agricolo,
manipolandola e
controllandola, consente per la prima
volta di rimuovere l'ostacolo che
ha finora impedito la
completa industrializzazione del processo
produttivo agricolo e la produzione
industriale di materia organica,
in tal modo permettendo
l'unificazione delle varie fasi di produzione di prodotti alimentari in un unico processo produttivo di tipo industriale." [C.
Salvioni, 1991]. Questa
opportunità è resa possibile dallo
sviluppo di organismi
transgenici fortemente specializzati
nella produzione di materie
prime di base (vitamine,
carboidrati, grassi, ecc.).
Tali sostanze potranno poi
essere estratte dai prodotti agricoli ed utilizzate dall'industria per
produrre beni alimentari e non. Al
limite, si potrebbe pensare ad una situazione in cui le “vitamine naturali”
aggiunte ai succhi di frutta, possano derivare da una specifica coltivazione
transgenica di mais, di patata o di soia[2]. Non v’è alcun dubbio
sul fatto che il consumo di questi succhi di frutta potrebbe essere considerato
un succedaneo del consumo di frutta fresca. Anche in questo caso la produzione
agricola di alimenti convenzionali ne risulterebbe svantaggiata su due fronti:
-
da
un lato le vitamine contenute in questi succhi di frutta potrebbero determinare
una diminuzione del consumo di frutta fresca in quanto l’apporto vitaminico dei
succhi vitaminizzati potrebbe essere considerato sufficiente dal consumatore
che non è in grado di comprendere il diverso apporto nutrizionale dei succhi di
frutta nei confronti della frutta fresca;
-
dall’altro
lato il settore agricolo pur di fornire le vitamine da addizionare ai succhi di
frutta, potrebbe essere “costretto” a sostituire una coltivazione ad alto
valore aggiunto (quella di frutta), con una produzione a basso valore aggiunto
(mais e/o patata transgenici o quant’altro, che sono stati geneticamente
modificati per produrre vitamine). Trattasi di una strategia di
“sostituzionismo”, da sempre messa in atto dall’industria nei confronti
dell’agricoltura, una strategia mediante la quale l’industria tende a
sostituire prodotti di origine agricola con altri prodotti di origine
industriale.
Per il nostro Paese, il fatto che talune piante
transgeniche migliorate possano sostituire altre piante convenzionali, potrebbe determinare situazioni non certo favorevoli
per l’economia agricola di determinati territori.
Pensiamo, per esempio, alla possibilità prospettata da alcuni ricercatori, di
far produrre alle piante erbacee annuali sostanze normalmente prodotte da
piante arboree poliannuali. E’ il caso, per esempio, dell’olio di oliva, che
potrebbe essere ottenuto dalla coltivazione di una colza transgenica arricchita
di acido oleico, simile a quello ottenuto dalla spremitura delle olive. Anche
in questo caso lo scenario che si potrebbe determinare per il nostro Paese è
sotto certi punti di vista devastante, in quanto la coltivazione dell’olivo,
oltre ad essere l’unica economicamente
attuabile in taluni territori marginali,
ha effetti di un certo rilievo sul paesaggio e sull’assetto
idrogeologico del territorio.
Per
l’agricoltore qualche opportunità economica dall’introduzione di “alimenti
funzionali” potrebbe derivare dalla produzione
di piante con un elevato contenuto di “sostanze funzionali”,
che sarebbero poi destinate alla trasformazione industriale per la produzione
di farmaci. In questo caso l’agricoltore sarebbe chiamato a svolgere una
funzione normalmente fornita dall’industria, appropriandosi così dei relativi
redditi. E’ ovvio che i vantaggi per il settore agricolo saranno commisurati
alla possibilità di produrre e vendere autonomamente la pianta in grado di
fornire le sostanze farmaceutiche, in
quanto, nel caso di brevetto, con ogni probabilità, il valore aggiunto
ritraibile da questa attività sarebbe, ancora una volta, appannaggio del
detentore del brevetto.
Da un punto
di vista agronomico, occorrerà considerare poi che queste piante destinate a
produrre “alimenti funzionali transgenici” possono presentare caratteristiche
fisiologiche e metaboliche diverse da quelle convenzionali, tanto da poter
rendere necessari trattamenti antiparassitari e tecniche di coltivazione
diverse da quelle normalmente utilizzate (per esempio potrebbero essere più
sensibili ad alcune malattie fungine). A questo punto le domande sono diverse:
-
le tecniche
di coltivazione saranno le stesse, oppure occorrerà modificarle?
-
la
dotazione di macchine ed attrezzature sarà la stessa?
-
le piante
transgeniche riusciranno ad utilizzare nello stesso modo i fattori produttivi
impiegati nelle coltivazioni convenzionali (concimi, soprattutto)?
-
saranno
necessari altri interventi antiparassitari?
-
queste
operazioni colturali aumenteranno i costi di produzione?
I
precedenti scenari costituiscono per l’agricoltura del nostro Paese un
vantaggio o uno svantaggio? Si verificheranno per tutte le coltivazioni di
“alimenti funzionali” o solo per quelle brevettate? E nel caso in cui le
coltivazioni di “alimenti funzionali” possano sostituire da un punto di vista
nutrizionale alimenti tradizionali del nostro territorio, la nostra agricoltura
otterrà dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre rispondere a queste domande
prima di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi irreversibilmente
controproducenti per l’agricoltura del nostro Paese.
3. – Sintesi conclusiva
Gli
alimenti funzionali di origine transgenica, proprio in relazione alle loro
potenzialità, possono rappresentare un
vero e proprio stravolgimento delle abitudini alimentari della nostra società.
Essi, però, prima di essere utilizzati per la coltivazione in pieno campo
dovranno rispondere a requisiti minimi essenziali di sicurezza alimentare ed
ambientale, sui quali è impossibile derogare. Tali requisiti possono essere
così individuati in ordine di importanza:
-
da
un punto di vista nutrizionale essi non dovrebbero avere controindicazioni di
alcun tipo, in quanto quello della “sicurezza alimentare del cibo” è un
prerequisito del quale non si dovrebbe nemmeno parlare; il cibo, per sua natura e in quanto tale, non
deve nuocere alla salute. A questo riguardo siamo consapevoli del
fatto che esistono dei nutrimenti convenzionali che assunti in quantità elevata
sono nocivi alla salute (noce moscata, prezzemolo, ecc.), ma non per questo
possiamo giustificare un ampliamento generalizzato di alimenti di questo tipo,
in quanto aumenterebbe la frequenza di eventi dannosi alla salute umana. In
particolare, prima di introdurli per il quotidiano uso alimentare, occorrerà
valutare attentamente la probabilità che l’assunzione inconsapevole di questa
tipologia di alimenti possa determinare effetti negativi alla salute;
-
essi
dovranno avere una comprovata azione preventiva, che non dovrà essere inferiore
a quella normalmente ottenuta dai consueti farmaci;
-
essi
dovranno essere privi di qualsiasi gene di resistenza agli antibiotici;
-
essi,
al di là della presenza dell’elemento nutrizionale che conferisce la
funzionalità, dovranno mantenere inalterate le altre caratteristiche
nutrizionali dell’alimento, al fine di non aumentare ulteriormente le
incertezze nutrizionali del consumatore. L’eventualità che vi possa essere
anche una modesta modificazione delle altre caratteristiche nutrizionali,
potrebbe determinare il rifiuto di questi alimenti da parte del consumatore, in
quanto “ciò che è funzionale per alcuni potrebbe non esserlo per altri e ciò
che non è funzionale per alcuni potrebbe esserlo per altri”;
-
l’alimento
funzionale dovrà svolgere la sua attività nell’ambito della normale dieta
giornaliera e non dovrà essere oggetto di specifica somministrazione come nel
caso dei farmaci. Esemplare a questo riguardo è il caso dello iodio nel sale.
L’azione preventiva viene svolta in modo inconsapevole, in quanto l’assunzione del
sale iodato non modifica le abitudini alimentari del consumatore;
-
da
un punto di vista della produzione agricola, essi dovranno manifestare assoluta
compatibilità ambientale ed assenza di fenomeni di “inquinamento genetico” nei
confronti di altre piante parentali selvatiche, che potrebbero poi originare
piante selvatiche caratterizzate anch’esse dalla medesima funzionalità;
-
da
un punto di vista della produzione agricola vi dovrà essere comprovata
possibilità di coesistenza con altre forme di agricoltura convenzionale e/o
biologica, in quanto, proprio al fine di garantire un acquisto consapevole da
parte del consumatore, non è ipotizzabile anche un livello minimo di
inquinamento genetico della filiera produttiva di un determinato alimento
convenzionale destinato alla nutrizione umana;
-
vi
dovrà essere separazione netta della filiera distributiva di questi “prodotti
arricchiti” da quelli convenzionali (specifica etichettatura);
-
vi
dovrà essere possibilità di ricorrere a tecniche di produzione già adottate per
altre piante, al fine di semplificare la coltivazione in pieno campo;
-
essi
dovranno essere caratterizzati da favorevole grado di redditività per
l’agricoltore, a prescindere dalla presenza di contratti di coltivazione;
-
vi
dovrà essere una reale accettazione da parte dell’utilizzatore, sia esso
privato o industria di trasformazione;
-
non
dovranno agevolare comportamenti di consumo parossistici, sia da un punto di
vista della sostituzione di altri alimenti convenzionali, sia da un punto di
vista della loro utilizzazione per prevenire situazioni patologiche
inesistenti. Relativamente a
quest’ultimo aspetto, significativo può essere l’esempio di quanto sta
avvenendo in Israele, dove le locali autorità avrebbero pensato di somministrare
apporti anche notevoli di iodio alle persone che vivono nelle vicinanze di
impianti nucleari, al fine di diminuire la possibilità di contrarre malattie
nel caso di fughe radioattive.
Pertanto, le problematiche relative all'introduzione di coltivazioni transgeniche
di seconda generazione, così come per quelle di prima generazione, sono
notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. In particolare, la loro adozione dovrà avvenire
solo dopo una attenta e precisa verifica delle controindicazioni, sia da un
punto di vista degli effetti biologici che si potranno determinare (sulla
salute umana, sugli ecosistemi, sulla biodiversità, ecc.), sia da un punto di
vista degli effetti economici che la loro applicazione può avere su sistemi
produttivi agricoli sensibili come quelli presenti nel nostro Paese.
Occorrerà poi
valutare attentamente se questi "alimenti funzionali" rispondono ad
una reale esigenza dei consumatori. Tra questi ultimi ne esiste una certa
aliquota che potrà sicuramente beneficiare dall’introduzione di “alimenti
funzionali transgenici” (soggetti allergici ad alcuni alimenti, soggetti che
soffrono di intolleranza alimentare, soggetti che si trovano in particolari
condizioni psico-fisiche perché troppo grassi o troppo magri, soggetti che
desiderano una dieta ricca di particolari sostanze, ecc.). Per questi soggetti
la presenza sul mercato di “alimenti funzionali alle loro esigenze”, non
potrà che rappresentare un aumento del loro benessere.
Il discorso è
diverso per la gran parte della popolazione, che non si trova nelle precedenti
condizioni e per la quale l’introduzione di “alimenti funzionali transgenici”
potrebbe modificare una situazione che, dal suo punto di vista, è
sostanzialmente accettabile, nella quale potrebbe aumentare il rischio di
originare comportamenti nutrizionali errati, a causa della presenza di alimenti
che presentano un contenuto nutrizionale diverso da quello a cui era abituata.
Trattasi di un pericolo reale che non deve essere sottovalutato. Per questo
motivo, al di là dei requisiti minimi di sicurezza che dovranno presentare
questi nuovi alimenti e dei quali si è discusso in precedenza, soprattutto
durante la vendita al dettaglio, occorrerà prevedere modalità di vendita dei
“nutraceutici transgenici” che impediscano in tutti i modi possibili acquisti
non consapevoli.
[1] Nel seguito sarà preferita la definizione
di Organismi
Transgenici (OT), al fine di non
confondere questi nuovi organismi ottenuti con tecniche di ingegneria genetica,
con quelli modificati con altre tecniche di selezione genetica.
[2] Ovviamente questo non è che
un esempio, in quanto non necessariamente le vitamine introdotte negli alimenti
devono essere di origine naturale; esse potrebbero anche essere sintetizzate
chimicamente.