Si vuole iniziare questo post
con le parole di Padre Bartolome Sorge S.I.
“Personalmente insisterei maggiormente sulla
necessità di un più vasto consenso popolare, se si vuole condurre una campagna
efficace sull'uso corretto delle biotecnologie. Infatti, non si tratta solo di
prevedere e prevenire le gravi minacce incombenti sulla salute dell'uomo,
sull'equilibrio ecologico e a livello sociale, ma anche sul corretto
funzionamento del sistema democratico. Si tratta, infatti, ribadendo il primato
dell'etica sulla politica, d'impedire che si affermino meccanismi speculativi,
soprattutto da parte delle multinazionali, che contraddicono alla logica e alla
natura stessa della vita democratica. E' necessario denunciare con forza che
non solo è antidemocratico, ma è immorale concedere a pochi privilegiati –
attraverso il «brevetto» – il diritto di disporre delle biotecnologie, quasi
che le scoperte riguardanti la vita
siano soggette a proprietà privata. Non è lecito legittimare forme di monopolio
e di colonialismo, che sono la negazione stessa del bene comune e decretano la
morte della democrazia. La vita non è una invenzione industriale. La vita non
si fabbrica. La vita non si brevetta.”
In termini
generali il Brevetto, rappresenta
una sorta di monopolio legale, seppur
limitato territorialmente e temporalmente. Tale monopolio legale è giustificato
dal fatto che il sistema brevettuale è basato su una forma di scambio: il
titolare del brevetto riceve protezione per la propria invenzione (monopolio
temporaneo) e in cambio è obbligato a svelare e a descrivere dettagliatamente l'invenzione. Pertanto, durante il periodo di applicazione
del Brevetto, colui che ne è detentore può sfruttare economicamente la
protezione brevettuale, al fine di ottenere un ritorno economico, sia per le
spese di ricerca e sviluppo sostenute, sia in termini di profitto.
Da un punto di vista etico, ed in
relazione al fatto che stiamo parlando di cibo, bene essenziale per la vita,
dobbiamo interrogarci su questa “deriva tecnologica”, al fine di verificare se
essa potrà determinare un aumento della libertà per l’uomo, o se, invece,
costituirà solo uno strumento per aumentare il profitto privato, a danno delle
libertà essenziali della vita stessa e degli elementi che insieme concorrono a
costituire i pilastri della pace sociale (verità, amore, giustizia e libertà).
In particolare, utilizzando le parole del card. Turkson, Presidente del
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, “E’ azzardato – e in ultima analisi assurdo, anzi peccaminoso –
impiegare le biotecnologie senza la guida di un’etica profondamente
responsabile.” (Aggiornamenti Sociali, aprile 2014)
In relazione all’ampio dibattito in
merito alla tutela brevettuale in ambito agricolo, dobbiamo essere convinti del
fatto che l’introduzione di Organismi Transgenici (OT) in agricoltura è
fortemente correlato, se non addirittura condizionato, dalla possibilità di
brevettare il risultato della manipolazione genetica al fine di ottenerne un
profitto; se non ci fosse il Brevetto, con ogni probabilità, non ci sarebbero
nemmeno OT e oggigiorno, forse, non si parlerebbe di questo argomento.
Relativamente alla tutela brevettale delle innovazioni tecnologiche in ambito
genetico, ciò che lascia maggiormente perplessi è l’utilizzazione del Brevetto
in ambito agricolo, soprattutto nel caso in cui riguardi piante o animali di
fondamentale importanza per l’alimentazione umana. Nella fattispecie, non
stiamo parlando di una funzione fisiologica della quale ognuno di noi, volendo,
potrebbe farne a meno; stiamo parlando di alimentazione, un’azione che bene o
male ognuno di noi deve compiere obbligatoriamente almeno tre volte al giorno.
Sono queste considerazioni che differenziano sostanzialmente i brevetti su
materiale elettronico o su capi di abbigliamento, da quelli su piante ed
animali ad uso alimentare, in quanto essi potrebbero mettere in discussione
anche la sovranità alimentare di un Paese. E di questo, ovviamente, si sono
accorte le grandi multinazionali del seme, che stanno facendo di tutto per
ottenere il monopolio nella produzione e nella distribuzione del seme, poiché
non si tratta del solo seme, ma anche di tutto ciò che è possibile trovare a
monte e a valle della produzione del seme, con particolare riferimento alla
produzione di cibo. In particolare, in questi ultimi anni, a livello mondiale, il
più evidente elemento di trasformazione del settore sementiero, è stato il
massiccio ingresso in questa attività di grandi imprese multinazionali, che,
già attive nel settore chimico e farmaceutico, hanno esteso il proprio campo di
azione all’ingegneria genetica applicata alle piante e alla commercializzazioni
dei prodotti biotecnologici. In particolare, secondo un rapporto di ETC Group (http://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/ETCCommCharityCartel_March2013_final.pdf),
il 59,8% del mercato dei semi e
il 76,1% dei prodotti agro-chimici venduti nel mondo sarebbe controllato da sei
grandi imprese (Syngenta, Bayer, BASF, Dow, Monsanto e DuPont) che, dal 2007 al
2010, hanno speso 2.2 miliardi di dollari l’anno per la Ricerca e lo Sviluppo
di varietà geneticamente modificate. La quota di mercato delle maggiori
multinazionali sementiere (Monsanto, DuPont e Syngenta) è passata dal 22% nel
1996 al 53,4% nel 2011, mentre per il settore agro-chimico, dominato al 52% da
Syngenta, Bayer e BASF, è cresciuta, nello stesso periodo, dal 33% al 52,5%. Questa
situazione di mercato è il risultato di un intenso processo di fusioni e di
acquisizioni attuate negli ultimi decenni: Syngenta è, ad esempio, il risultato
della fusione parziale tra la britannica Zeneca e l'elvetica Novartis, la quale
a sua volta era frutto della fusione tra Ciba Geigy e Sandoz; Monsanto si è
ingrandita grazie a una serie numerosa di acquisizioni di compagnie quali
Asgrow, Agracetus, Dekalb, Cargil, ecc.; Aventis nasce dalla fusione della
francese Rhone Poulenc e della tedesca Hoest; Du Pont ha acquistato la Pioneer.
Come esito finale di tali processi,
non soltanto si assiste ad una progressiva assimilazione dell’identità degli
operatori presenti nel settore delle sementi e in quello degli agrofarmaci, ma
anche ad un’analoga evoluzione delle dinamiche competitive, incentrate in
misura crescente sullo sfruttamento e sulla difesa dei diritti di proprietà
intellettuale, così come da anni avviene nel settore farmaceutico.
Le strategie di sviluppo attuate
dalle multinazionali hanno sostanzialmente determinato due grandi fenomeni:
i) una crescente concentrazione
dell’offerta di sementi e di agrofarmaci;
ii) una crescente osmosi tra il settore delle
sementi e quello degli agrofarmaci, nonché tra tali settori e quello
farmaceutico.
I processi di concentrazione e di integrazione
descritti, funzionali al perseguimento della massima efficienza
tecnico-produttiva, pongono tuttavia il problema dei possibili comportamenti
strategici dei grandi gruppi multinazionali, diretti a realizzare un maggior
controllo dei mercati e a orientare le scelte degli utilizzatori. Da un lato,
infatti, l’evoluzione tecnologica e la normativa dei settori in esame ha
certamente generato la necessità di disporre di maggiori risorse economiche e
dimensioni produttive/commerciali per affrontare gli ingenti costi legati allo
sviluppo e alla registrazione delle nuove varietà di piante e delle nuove
molecole di agrofarmaci; dall’altro, la concentrazione in poche mani delle
risorse destinate alla ricerca e allo sviluppo delle varietà di sementi, nonché
delle sostanze più idonee a garantirne la coltivazione e la crescita, consente
di esercitare un forte potere di mercato nei confronti degli agricoltori,
utilizzatori finali dei prodotti sementieri e fitofarmacologici, aumentandone
di fatto il grado di dipendenza dall’industria di produzione degli input. Da
rilevare che secondo il Dipartimento USA all’agricoltura, l’aumento dei prezzi
dei semi negli ultimi dieci anni ha registrato i maggiori incrementi rispetto
ad ogni altro tipo di input agricolo.
Al riguardo, è appena il caso di
ricordare, ad esempio, come la diffusione di prodotti transgenici, tutelati dai
diritti di protezione intellettuale, ostacoli l'utilizzazione delle sementi di
seconda generazione per la semina successiva (anche semi della stessa annata
agricola, per i quali è stata pagata una royalty, al fine di effettuare nella
stessa annata agraria una seconda coltivazione e un secondo raccolto), decretando
così l'impossibilità per gli agricoltori di appropriarsi del seme proveniente
dal raccolto dell'anno precedente per seminarlo in una annata successiva, senza
corrispondere i relativi diritti brevettuali all'azienda costitutrice
(pertanto, non è vero che i semi OGM sono sterili, ma è vero che non si possono
riseminare senza ripagare le relative royalty).
Soprattutto in ambito agroalimentare,
alcune domande di ordine etico sullo sfruttamento del brevetto esigono una
risposta prima di adottare piante ed animali transgenici in agricoltura. In
particolare:
-
è
lecito brevettare la variabilità genetica delle piante e degli animali destinata
ad uso alimentare e attualmente presente sul Pianeta?
-
è
eticamente accettabile brevettare gli alimenti?
-
il
brevetto sugli alimenti aumenterà o diminuirà il benessere delle persone e
della collettività?
-
gli
OGM brevettati miglioreranno la condizione umana o sono semplicemente
finalizzati ad un aumento dei profitti privati?
-
gli
OGM brevettati determineranno dei
vantaggi o degli svantaggi per l’agricoltura del nostro Paese?
-
come
potrà essere sfruttato il brevetto nei confronti dell’agricoltore?
-
esistono
delle limitazioni allo sfruttamento economico del brevetto, oppure tutto sarà
possibile?
-
chi
decide in merito alla qualità dell’alimento brevettato?
-
il
detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento le caratteristiche intrinseche,
con particolare riferimento a quelle nutrizionali, del prodotto alimentare
ottenuto dalla semente transgenica?
-
come
potranno essere modificate le caratteristiche nutrizionali?
-
il
detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento il legame esistente
tra qualità del prodotto e luogo di produzione?
-
da
un punto di vista etico, sarà tutto consentito o vi saranno delle limitazioni?
In questa
sede, come si è detto in precedenza, non si vuole affrontare la problematica,
tutta ancora da chiarire, relativa alla liceità o meno dell’utilizzazione del
brevetto per affermare un diritto privato di proprietà su piante ed animali, ma
si vogliono esclusivamente evidenziare gli effetti che l’applicazione della
tutela brevettuale potrebbe avere sul consumatore e sul settore agricolo
nazionale.
Cosa
significa "brevetto" per il settore agricolo italiano e, in
particolare, quali effetti potrebbe avere sul reddito dell’agricoltore?
In primo
luogo, il brevetto sulle piante e sugli animali contribuirà ad aumentare la
dipendenza economica del settore agricolo nei confronti di quello industriale,
in quanto l'agricoltore sarà costretto ad acquistare tutti gli anni la semente
che intende coltivare o l’animale che intende allevare. Qualcuno potrebbe far
rilevare che, di fatto, questo già accade per la gran parte delle sementi oggi coltivate
(soprattutto per le sementi ibride). Nel caso degli OT, a parte la situazione
di monopolio/oligopolio che si verrebbe a determinare, il brevetto significa
qualcosa di più, in quanto l’agricoltore, oltre all’acquisto delle sementi,
potrebbe essere “obbligato” ad acquistare anche la materia prima in grado di
far produrre queste sementi (è il caso delle piante di soia, di colza e di mais
resistenti ad uno specifico diserbante, prodotto e venduto anch’esso dalla
stessa ditta che ha il monopolio del seme). In futuro il problema potrebbe
essere amplificato dal fatto che le ditte che propongono questi nuovi
organismi, per proteggersi dall’utilizzazione illecita di sementi brevettate,
potrebbero inserire geni che consentono la germinazione del seme solo nel caso
di contemporanea presenza di una sostanza particolare, che sarà venduta insieme
alla semente (strategia volgarmente chiamata “Traitor”). Se sarà poi vero, come
ovviamente si spera, che questi nuovi organismi non avranno alcun effetto sulla
salute umana e sull’ambiente, occorrerà considerare che la loro completa
accettazione da parte del mercato
(presenza di una sola filiera di distribuzione, assenza di etichettatura
obbligatoria dei prodotti OGM, ecc.) determinerà un forte vantaggio competitivo
per le ditte sementiere che ne detengono il brevetto, con creazione di un
mercato in condizioni di monopolio o “quasi monopolio”. Si verrebbe a
determinare ciò che, di fatto, è già avvenuto nei Paesi dove si registra
un’accettazione incondizionata di questi nuovi alimenti e nei quali non c’è
etichettatura degli alimenti OGM: la presenza di un’unica filiera di
distribuzione (per esempio, per il mais un unico prezzo di mercato, sia esso
transgenico o convenzionale), associata ad una diminuzione dei prezzi di
mercato dei prodotti transgenici, ha determinato l’esplosione delle superfici
coltivate con questi nuovi organismi. In pratica, cos’è accaduto? Il minor
costo di produzione delle coltivazioni transgeniche ha determinato un
abbassamento dei prezzi di mercato dei relativi prodotti, siano essi
transgenici e non. Pertanto, anche gli agricoltori che in un primo momento non
volevano coltivare transgenico sono stati costretti a farlo dal mercato, se
volevano mantenere un certo grado di redditività dall’attività agricola (in
assenza di prezzi diversi, agli agricoltori di questi Paesi non conviene certo
produrre ai costi del convenzionale, più alti del transgenico, per poi vendere
ai prezzi di mercato del transgenico, più bassi di quelli del convenzionale). Da
rilevare che da un punto di vista sociale, la completa accettazione degli
alimenti OGM (assenza di etichettatura) potrebbe portare ad un aumento del
benessere del consumatore, in relazione alla diminuzione dei prezzi dei
prodotti alimentari. Ma sarà vero benessere? O aumenterà l’angoscia per
l’utilizzazione di un alimento del quale non si conoscono le reali
caratteristiche nutrizionali e salutistiche? “Paradiso della Tecnica o angoscia
del Paradiso della Tecnica?”
Da un punto di vista
agricolo, il brevetto su una pianta potrebbe anche consentire ai Paesi che ne
detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in località prossime ai
mercati di collocamento, rendendo così competitive produzioni che attualmente
sono penalizzate dagli elevati costi di commercializzazione, evitando nel
contempo le problematiche ambientali che queste coltivazioni potrebbero
comportare se fossero attuate sul loro territorio. Per alcune produzioni questo
già avviene. Cos’è accaduto? Alcuni Paesi, vuoi perché non hanno condizioni
pedoclimatiche favorevoli, vuoi perché non sarebbero concorrenziali sul nostro
mercato a causa degli elevati costi di trasporto, stanno producendo sul nostro
territorio su base contrattuale alcuni prodotti dei quali detengono il
brevetto; tali prodotti, grazie a specifici “Contratti di coltivazione”, al
momento della raccolta diverranno di loro proprietà. Ecco che in questo modo
qualsiasi Paese, anche senza alcuna vocazionalità produttiva, e, al limite,
senza disponibilità di territorio agricolo, di strutture e di competenze
agricole specifiche, potrebbe divenire un protagonista nel mercato del cibo; la
produzione di quel particolare alimento sarebbe attuata nel nostro Paese per
conto terzi, ovvero per conto di colui che ha il brevetto del materiale di
propagazione, che si approprierà del valore aggiunto di questa coltivazione.
In termini
generali, quali strategie può attuare il detentore del brevetto sulle sementi
transgeniche? Da un punto di vista della sfruttabilità economica, il detentore
del brevetto potrebbe limitarsi a richiedere il pagamento di una royalty per
ogni chilogrammo di semente venduta, lasciando libertà di scelta
all’agricoltore in merito alle diverse opportunità di vendita sul mercato del
prodotto ottenuto da quella stessa semente. Tale somma di denaro potrebbe
essere vista come il giusto compenso per colui che ha investito in ricerca e
sviluppo ed è riuscito ad ottenere una pianta caratterizzata da un surplus di
utilità per l’agricoltore e per il consumatore. Occorre comunque rilevare che,
soprattutto nel caso in cui il mercato della semente sia in condizioni di monopolio, a differenza
di quanto precedentemente affermato, l’imposizione di una royalty sulla semente
potrebbe limitare il processo di riduzione dei costi di produzione, in quanto
il monopolista, con ogni probabilità, sarà portato ad aumentare il prezzo di
vendita della semente di un’aliquota
prossima al maggior margine che essa sarà in grado di determinare al
produttore agricolo, con annullamento dei potenziali vantaggi economici per il
coltivatore e, conseguentemente, per il consumatore (in pratica, se la semente
transgenica determina una diminuzione dei costi di 100 €/ha, il monopolista
della semente potrebbe far pagare la semente 99 € in più ed accaparrarsi tutto
il vantaggio). Pertanto, il brevetto potrebbe impedire l’attesa riduzione dei
prezzi di mercato dei prodotti alimentari, annullando così anche l’auspicato
ampliamento delle possibilità di acquisto di cibo da parte delle classi sociali
economicamente più deboli (quelle classi sociali che in molti Paesi soffrono la
fame perché non dispongono del reddito necessario per acquistare il cibo).
Rispetto
alla situazione precedente, il detentore del brevetto potrebbe andare oltre. In
particolare, oltre a richiedere il pagamento di una royalty per ogni
chilogrammo di semente venduta, potrebbe richiedere una royalty anche per ogni
chilogrammo di prodotto ottenuto da quella stessa semente ed immesso sul
mercato. Il brevetto in questo caso porterebbe grandi vantaggi a colui che ne
detiene la proprietà e trasformerebbe
l’agricoltore in un “dipendente” della stessa ditta proprietaria del seme, in
quanto più l’agricoltore produce e più questa ditta guadagna (da rilevare che
queste forme contrattuali sono già adottate in agricoltura).
Rispetto
alle situazioni descritte in precedenza, il detentore del brevetto potrebbe non
accontentarsi e potrebbe riservarsi
anche la proprietà della produzione finale, attuando la produzione per conto
proprio, sulla base di un rapporto contrattuale con l’agricoltore. Trattasi di modalità di produzione che già
avvengono in agricoltura e che sarebbero amplificate dalla presenza di un forte
ricorso al brevetto. In particolare, colui che detiene il brevetto potrebbe non
vendere la semente sul mercato e potrebbe sottoscrivere con l’agricoltore un
“contratto di coltivazione”, nel quale saranno indicate le epoche di semina, le
modalità di coltivazione e quant’altro serve per portare a termine il processo
produttivo, riservandosi la proprietà del prodotto una volta giunto a
maturazione. Ovviamente per l’attività prestata l’agricoltore riceverà un
compenso, che sarà commisurato all’impegno richiesto in termini di apporto di
fattori della produzione (terra, lavoro, capitale). In una situazione come
quella evidenziata, l’agricoltore non avrebbe alcun potere contrattuale, per
cui la presenza di un unico “proprietario”
della semente, associata al fatto che i coltivatori non sono in grado di
manifestare un’unica controparte, li metterebbe tra loro in concorrenza per
l’acquisizione della commessa di coltivazione.
E’ facilmente intuibile che in questa situazione si determinerebbe una
tendenza verso il basso del compenso relativo allo svolgimento dell’attività
agricola, in quanto, nel peggiore dei casi per la nostra agricoltura, colui che
possiede il brevetto potrebbe trovare in altri Paesi migliori condizioni
contrattuali per attuare il processo produttivo agricolo. Da rilevare, poi, che
in questo modo la ditta proprietaria della semente brevettata otterrebbe anche
il “monopolio di fatto” del cibo prodotto da quella stessa semente, con tutte
le conseguenze del caso in termini di “potere di mercato” e di controllo dei
prezzi di vendita del cibo.
Ma il grande salto di
qualità per le ditte che detengono il brevetto della semente, potrà essere
ottenuto allorquando la manipolazione genetica sulle piante consentirà di
sfruttare l’”apomissia”, ovvero la
possibilità di originare piante identiche alla madre anche nel caso di
riproduzione sessuata di sementi ibride (l’apomissia consentirà di utilizzare
come semente una parte del raccolto dell’annata precedente, senza incorrere
negli inconvenienti determinati dalla presenza di seme ottenuto per
autofecondazione). In particolare, lo sfruttamento dell’”apomissia” consentirà
alle ditte sementiere di evitare la produzione e la successiva
commercializzazione del seme, mantenendo comunque la possibilità di ricavare le
royalty dal seme e dalla produzione di cibo; il “seme ibrido apomittico”, una
volta distribuito, sarà annualmente prodotto autonomamente dall’azienda
agricola, la quale, mediante un apposito contratto di sfruttamento della
semente, sarà tenuta a pagare le royalty al detentore del brevetto, ogni qual
volta utilizzerà le sementi apomittiche per una nuova semina. L’”apomissia”
semplificherà notevolmente la vita al detentore del brevetto, che dovrà attuare
un’unica operazione: distribuire una sola volta la semente apomittica e incassare
le royalty ogni volta che il seme viene seminato ed il cibo viene prodotto.
Qualcuno afferma che questo scenario è irrealizzabile, in quanto alle ditte
sementiere non converrebbe mettere sul mercato una semente apomittica, poiché
lieviterebbero le frodi e occorrerebbe mettere in atto un sistema di vigilanza
decisamente costoso. Purtroppo queste affermazioni si scontrano con la realtà,
in quanto le grandi multinazionali del seme stanno cercando di evitare questo
inconveniente mediante la creazione di una “Apomissia inducibile chimicamente”. In pratica, che cosa accade?
Accade che la semente apomittica germina ed origina una pianta identica alla
madre solo in presenza di una sostanza chimica che sarà venduta, a parte,
insieme alla semente e che dovrà essere distribuita nel campo coltivato, così
come un qualsiasi trattamento chimico. Da rilevare che tutto questo non è
fantascienza, in quanto il brevetto sull’”Apomissia inducibile chimicamente” è
già stato richiesto (http://www.ptodirect.com/Results/Publications?query=IN/(Russinova-Eygeniya).
Gli esempi precedenti,
costituiscono per la nostra Società un vantaggio o uno svantaggio? Si adattano
a tutte le coltivazioni o solo a quelle brevettate? E le popolazioni
svantaggiate otterranno dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre rispondere a
queste domande prima di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi
controproducenti per il benessere della nostra Società e per quello delle
Future Generazioni. A questo proposito, interessanti sono le considerazioni del
card. Turkson “Si promuovono le nuove
tecnologie asserendo che aumenteranno il cibo a disposizione di ciascuno, ma
questo è solo un pezzo della storia. In realtà, le innovazioni sono concepite e
realizzate a beneficio di un numero circoscritto di persone già molto abbienti. Man
mano che si procede, molti piccoli produttori saranno inevitabilmente esclusi
e/o spostati dalle loro terre. Saranno “amputati” dalle loro occupazioni
tradizionali e dal loro stile di vita. Lo sradicamento di singoli, famiglie e
comunità non è soltanto una dolorosa separazione dalla terra, ma investe il
loro intero ambiente esistenziale e spirituale, minacciando e talvolta
sconvolgendo le poche certezze della loro vita. Non dovrebbe sorprenderci il
fatto che alcune popolazioni rifiutino certe innovazioni, non perché siano
cattive o percepite come tali, ma perché il modo in cui vengono diffuse
comporta costi insostenibili per coloro che in teoria dovrebbero beneficiarne.
Non sono loro che non capiscono; è chi si rifiuta di guardare il quadro
dell’insicurezza alimentare nel suo complesso – le persone, la loro dignità e la
loro vita, oltre alla produzione e alla distribuzione del cibo – a non cogliere
il nocciolo della questione, ….”.
A
conclusione di quanto precedentemente esposto, è possibile affermare che il
brevetto su piante ed animali transgenici sarà in grado di sconvolgere il modo
di produrre in agricoltura. Lo scenario sarà quello di un settore in cui
l’agricoltore avrà perso ogni potere decisionale; egli diverrà semplicemente un
fornitore di mezzi di produzione a favore di colui che detiene il brevetto di
quel prodotto, che diverrà anche proprietario del cibo. Cibo che potrà essere
ottenuto in ogni parte del Globo, non importa con quale materiale genetico, non
importa con quale tecnica di produzione, non importa con quali tutele sociali.
Tutto questo comporterà la realizzazione di un grande mercato mondiale dei
prodotti alimentari, un mercato dove l’imperativo sarà produrre di tutto
ovunque, ai più bassi costi possibili, per poi vendere il prodotto laddove ci
sono i mezzi economici per acquistarlo. In pratica, il brevetto sul cibo
rischia di essere l’antitesi del “Cibo come Bene Comune” e potrebbe
rappresentare una nuova forma di “colonialismo alimentare”.