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martedì 2 ottobre 2012

Rigenerazione dell'agricoltura e Dottrina Sociale della Chiesa


LA RIGENERAZIONE DELL’AGRICOLTURA E LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
+ Mario Toso SDB

Premessa: agricoltura e la Dottrina sociale della Chiesa
Bisogna riconoscere che, in questi ultimi anni, la dottrina sociale della Chiesa (=DSC), specie mediante il Compendio, l’enciclica Caritas in veritate (=CIV) di Benedetto XVI, i Messaggi per la Giornata mondiale della pace come quello intitolato Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato (1 gennaio 2010), ma anche mediante i suoi soggetti, singoli e collettivi – persone, comunità ecclesiali, organismi pastorali, istituti culturali, associazioni, movimenti ed organizzazioni laicali cattolici o di ispirazione cristiana, non esclusa la Coldiretti -, con tutte le loro iniziative culturali e le buone pratiche, ha contribuito a tenere viva una percezione positiva ed alta del ruolo dell’agricoltura rispetto al bene comune delle Nazioni e della famiglia umana.
Una tale percezione è stata proposta e declinata entro il quadro di uno sviluppo integrale, sostenibile, inclusivo, aperto alla Trascendenza. Lo sguardo teologico, antropologico ed etico della DSC, concretizzandosi in un’interpretazione personalista, relazionale e fraterna dell’esistenza umana nel mondo, ha sollecitato:
a)     a vedere l’agricoltura come un bene comunitario, un bene comune, perché bene fondamentale e imprescindibile per l’umanità dal punto di vista dell’alimentazione, della custodia dell’ambiente (sebbene spesso possa danneggiarlo), della prosperità dei popoli, del bene comune mondiale;
b)    a promuovere il passaggio dal concetto di territorio agricolo e di suolo avente una destinazione d’uso riconoscibile a quello di «ambiente di vita» della comunità, in cui le connessioni dello svolgimento delle attività agricole e la presenza stessa di insediamenti rurali divengono inseparabili dai fenomeni biologici e naturali e, tutti insieme, concorrono a formare un contesto umanitario ed identificabile. La CIV, allorché parla della natura la configura come «ambiente di vita dell’umanità»: «ambiente» perché è talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire più una variabile indipendente. La desertificazione e l’impoverimento produttivo di alcune aree, si legge nella CIV, sono anche frutto dell’impoverimento delle popolazioni che le abitano e della loro arretratezza. Incentivando lo sviluppo economico e culturale di quelle popolazioni, si tutela anche la natura (cf CIV n. 51). Lo stesso può essere ripetuto per l’agricoltura;
c)     a ricercare un nuovo modello di sviluppo dell’agricoltura che attualmente la Coldiretti, assieme ad altre istituzioni, sta coniugando in termini di qualità, di tipicità, di multifunzionalità, di presidio e di manutenzione del territorio, di sicurezza alimentare (bene collettivo).
In questo contesto merita che si fermi a considerare l’agricoltura quale attività economica «verde», un concetto che si sta sempre più affermando, sebbene sia ancora in cerca di una definizione chiara (che probabilmente non ci verrà offerta dalla Conferenza di Rio+20). Una tale prospettiva assume un senso più completo se l’agricoltura viene vissuta, come suggerisce la CIV, con modalità che, mentre consentono di produrre ricchezza, preservano e, possibilmente, rafforzano le potenzialità dell’ambiente per consentire alle generazioni future la libertà di scelta fra uso e non uso del patrimonio naturale tra diversi livelli di benessere naturale e di qualità dell’ambiente. Detto diversamente, l’agricoltura in quanto «economia verde» dovrebbe essere praticata come settore volto alla realizzazione di un’autentica solidarietà a dimensione locale e mondiale, intergenerazionale.
Si inserisce sicuramente qui l’impegno della Coldiretti a contrastare i meccanismi perversi di industrializzazioni e di finanziarizzazioni esasperate dell’agricoltura, improntate a modelli produttivistici e consumistici che ignorano l’importanza della sicurezza ambientale ed alimentare, del rispetto/benessere degli animali, della produzione locale, anteponendo la ricerca del profitto a quella della qualità e della genuinità.

1.     L’approccio «olistico» della Dottrina sociale della Chiesa: agricoltura e bene comune

La lettura in termini personalisti, comunitari, relazionali e fraterni dell’agricoltura e del settore ittico da parte della DSC li rappresenta come settori che fanno parte di un tutto umano socio-economico-ambientale e culturale, retto dai principi del bene comune, della destinazione universale dei beni, della giustizia sociale, della solidarietà e della sussidiarietà. Un tale approccio getta una luce particolare sulla considerazione dei vari settori economici e sui loro rapporti.
I diversi settori economici – poiché hanno come soggetti persone o gruppi di persone, popoli liberi e responsabili e poiché sono fondamentali in ordine allo sviluppo umano integrale – vanno pensati ed organizzati in modo da non essere disarticolati, sperequati, sottodimensionati. Come ha insegnato la Mater et magistra, della quale si è celebrato l’anno scorso il cinquantesimo anniversario di promulgazione, i diversi settori produttivi vanno promossi simultaneamente, gradualmente e proporzionatamente, di modo che tutti quelli che vi lavorano possano essere responsabili e protagonisti della loro evoluzione economica e della realizzazione del bene comune.
Un simile approccio evidenzia, con l’essenzialità dei vari settori dal punto di vista dell’economia nazionale e mondiale, anche la loro valenza antropologica e civile. I molteplici settori economici hanno una valenza e una funzione intrinseche indisgiungibili da una funzione umana e sociale. L’unità e l’interdipendenza tra i settori economici sono date sì dalla moltiplicazione delle interconnessioni e delle comunicazioni proprie della globalizzazione ma soprattutto dall’unità e dall’intrinseca solidarietà degli esseri umani, dei gruppi e dei popoli, che lavorano insieme nelle comunità locali e nella comunità mondiale perché siano assicurate le condizioni in cui possa svilupparsi pienamente la loro vita.
Il vero sviluppo economico sostenibile è sviluppo solidale, inclusivo. È sviluppo di tutti. La ricchezza di un popolo non si misura tanto dall’abbondanza complessiva dei beni, ma anche e più ancora dalla loro qualità e dalla loro reale ed efficace ridistribuzione secondo giustizia, a garanzia dello sviluppo personale di tutti, fine ultimo delle economie nazionali e dell’economia mondiale.
L’approccio olistico dei settori economici, che li vede correlati e subordinati al bene comune, comanda politiche economico-sociali-ambientali all’insegna della giustizia sociale e dell’equità, ossia di una giustizia non astratta o avulsa dal vissuto, bensì commisurata alle persone, ai gruppi e ai popoli concreti, situati all’interno di rapporti sociali particolari, propri di Paesi aventi cultura, grado di sviluppo e redditi diversi. Il quadro valoriale e criteriologico offerto dal suddetto approccio olistico non tollera che vi siano squilibri tra i settori economici. Coloro che vivono in un settore sperequato non devono subire ingiustizie a livello di istruzione, di remunerazione e di sicurezza sociale, di partecipazione alla gestione della cosa pubblica.
Non si può, allora, assistere indifferenti al paradosso odierno, e cioè che la crescita della ricchezza mondiale in termini assoluti non corrisponda allo sviluppo di tutti, inclusi gli agricoltori e i pescatori. Se il fenomeno della globalizzazione ha contribuito in parte a ridurre la povertà estrema ha, tuttavia, favorito la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. A questo proposito basti pensare che la popolazione mondiale più ricca ha un reddito mediamente nove volte maggiore di quello delle popolazioni più povere. E in alcuni Paesi, in particolare dell’America Latina, anche ventisette volte superiore. Simili divari sono particolarmente evidenti sul piano dei salari. I compensi dei top manager, in molti casi, sono incomparabilmente più alti rispetto a quelli dei comuni lavoratori dell’industria o della terra o di coloro che, pur lavorando tutta la giornata, senza sosta, percepiscono un salario insufficiente per la loro famiglia e per un’esistenza dignitosa.
Secondo l’approccio olistico della DSC, l’agricoltura non può essere considerata un settore perennemente depresso e nemmeno assistenzializzato. Così, assieme al settore ittico non può essere considerato settore marginale o periferico di un’economia nazionale e men che meno una variabile dipendente del capitalismo finanziario sregolato, a proiezione globale. Settore agricolo e settore ittico vanno, invece, promossi quali settori sostenibili, che svolgono funzioni fondamentali per il bene-essere dell’umanità, sebbene in alcune zone geografiche, per molteplici ragioni, diminuisca il numero degli addetti ed anche il loro contributo al PIL. Perché, però, l’agricoltura e la pesca possano essere settori sostenibili, dal punto di vista ambientale e sociale, c’è bisogno di una migliore armonizzazione delle politiche sul piano nazionale e sovranazionale, nonché della creazione di istituzioni globali, capaci di affrontare e risolvere questioni altrettanto globali come l’inquinamento, il surriscaldamento del pianeta, la ridistribuzione delle risorse energetiche, la povertà, la fame, la mancanza di accesso all’acqua potabile per tutti, la sicurezza alimentare, la pace, la disponibilità di acqua per le coltivazioni, la diffusione di nuove piante commestibili, la proprietà del terreno.

2.     I pericolosi virus del mercantilismo, del capitalismo finanziario deregolato
La DSC di questi ultimi anni si è impegnata a mostrare la pericolosità delle nuove ideologie dell’ecocentrismo e del biocentrismo nei confronti del rapporto dell’uomo con l’ambiente. Essa, però, ha anche sottolineato la pericolosità del mercantilismo, del capitalismo finanziario deregolato, della tecnocrazia.
Si tratta di ideologie negative che, con le loro sfasature dei parametri antropologici ed etici, sono anche all’origine della crisi ecologica contemporanea e di non pochi problemi che investono il settore agricolo.
Qui ci si ferma, in particolare, a considerare le conseguenze deleterie di un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia reale, che finisce per essere strumentalizzata e destrutturata dall’assolutizzazione del profitto a breve termine. Come è ben noto, oggi si verificano fenomeni di speculazione finanziaria anche con riferimento alla terra, all’acqua, alle derrate alimentari, che contribuiscono ad impoverire ancor di più coloro che vivono in situazioni di precarietà. L’ascesa dei prezzi alimentari conduce milioni di persone alla fame, ponendo le premesse di forti tensioni sociali, mentre i grandi gruppi alimentari e le nuove potenze economiche registrano una costante crescita di fatturati e di utili. Analogamente, l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche primarie, con la conseguente spasmodica e non controllata ricerca di energie alternative, finiscono per avere conseguenze negative sull’ambiente e sulla biodiversità, nonché sull’uomo stesso.
Qui, in Italia, numerose piccolissime o piccole e medie imprese agricole, organizzate anche come cooperative, stanno chiudendo i battenti non solo perché manca da anni una vera e propria politica industriale, non solo perché non c’è sufficiente ricambio generazionale a causa del calo demografico, non solo perché vengono puntualmente penalizzate da politiche di sviluppo che privilegiano le imprese più forti e «virtuose», non solo perché non si coltiva un fecondo rapporto fra scuola e mondo del lavoro, ma anche perché non possono godere del supporto adeguato di un sistema finanziario e monetario libero, stabile, trasparente, democratico (non oligarchico), funzionale all’economia reale, alle imprese, alle comunità locali. Attualmente ciò avviene perché le banche, anche a seguito della recente crisi finanziaria ed economica, sono poco propense a concedere credito a quelle entità imprenditoriali che non possono garantire un profitto a breve. Peraltro le banche etiche, il microcredito, i fondi di solidarietà istituiti da diocesi e da altre istituzioni, appaiono impari rispetto alle crescenti richieste di finanziamento.
Si verificano, poi, casi in cui gli istituti intermediari appaiono maggiormente interessati e solerti, più che a supportare i loro clienti, ad avvantaggiarsi del loro fallimento. Appena i piccoli e medi imprenditori non riescono più a pagare il mutuo, i contributi all’Inps o l’Irpef, entrano in scena vari soggetti che spolpano gli sventurati. In seguito al tracollo, alla mancanza dei pagamenti e, quindi, alla registrazione nell’elenco degli insolventi, le banche procedono alla vendita all’asta delle aziende e dei terreni, con l’immediato arrivo di multinazionali o di grossi produttori alimentari pronti al loro acquisto.
A fronte di situazioni di difficoltà economiche, molte delle quali, specie in concomitanza alla crisi finanziaria, non sono create per demerito dei titolari delle aziende – si rammenti che molte imprese sono entrate in crisi perché, ad esempio, non hanno ricevuto il pagamento di lavori eseguiti per conto della pubblica amministrazione, perché non hanno trovato sufficiente credito dalle banche e perché talora non hanno ricevuto tempestivamente da queste i propri stessi risparmi depositati presso i loro sportelli -; a fronte dell’urgenza di creare nuove aree di operosità c’è bisogno di un credito “amico”, che non assecondi, ovviamente, passività o assistenzialismi. Ma una finanza “amica”, specie a motivo del primato accordato al profitto a breve termine che è il “vangelo” delle banche dedite alla speculazione, appare sempre meno disponibile. Ciò rende problematica l’esistenza di molte piccole e medie imprese, non solo quelle che vivono nel settore agricolo ed ittico, ma anche di quelle che, svolgendo attività a forte valenza sociale, hanno attinenza con il welfare societario o, meglio, con il bene-essere della società, con i beni collettivi quali l’ambiente, la sicurezza alimentare, l’acqua.
Non paia, allora, strano se la CIV ha raccomandato che il motivo per l’impiego delle risorse finanziarie non sia solo speculativo e non ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve termine, ma sia, invece, anche la sostenibilità delle imprese a lungo termine, il suo puntuale servizio all’economia reale (cf CIV n. 40). Non paia, allora, un’invadenza di campo se il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, con le sue riflessioni Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale, proponga, in linea con la CIV, una più pertinente regolazione del suddetto sistema sul piano mondiale, mediante la riforma delle istituzioni esistenti, ma anche creandone di nuove sul piano regionale (ad es. la BCE con corrispettiva unificazione politica), varando politiche fiscali o industriali che, mentre contrastano la speculazione finanziaria finalizzata al profitto a breve, incentivino le banche commerciali ad erogare il credito ad imprese, famiglie e comunità locali.

3.     L’ideologia della tecnocrazia e gli OGM
La DSC mette anche in guardia rispetto all’ideologia della tecnocrazia. La tecnica, fatto profondamente umano, che consente di migliorare le condizioni di vita, può divenire un assoluto che strumentalizza l’uomo e il creato, riducendoli a meri oggetti da produrre e da manipolare senza limiti (cf CIV nn. 68-70).
Da tempo la Coldiretti, alla luce del principio della creazione, nonché dei principi di precauzione e di responsabilità, ma in particolare anche del principio della destinazione universale dei beni, ha optato per una scelta chiaramente contraria alle produzioni transgeniche. Questo, però, non è significato opposizione assoluta ad ogni uso delle tecnologie progredite e nemmeno preclusione alla ricerca e alla sperimentazione. Né è significato un disinteresse per questo tema complesso. Anzi - in un contesto di legislazioni plurali rispetto alle produzioni transgeniche, a fronte dei problemi concreti delle imprese che finiscono per utilizzare prodotti contenenti percentuali di elementi transgenici – la Coldiretti si è fatta promotrice a livello legislativo di politiche di trasparenza dei processi produttivi e di certificazione della storia, della qualità e dell’origine dei prodotti agroalimentari, agricoli ed ittici, a tutela del diritto all’informazione e alla scelta consapevole del consumatore rispetto alla percentuale di presenza di prodotti transgenici nelle derrate alimentari.
Rispetto all’impiego delle tecnologie avanzate la CIV esprime una posizione prudente, senza chiusure preconcette, che è bene avere presente.
«All’uomo è lecito esercitare – si legge nella CIV – un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate in modo che essa possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione che la abita» (CIV n. 50).
Secondo la CIV, l’economia non può svolgere la sua giusta funzione, e così contribuire a debellare le piaghe della fame e della miseria, non tanto perché non vi siano risorse materiali, quanto piuttosto perché, in diverse parti del mondo, essa manca di istituzioni in grado sia di garantire un accesso alla terra, al cibo e all’acqua regolare e adeguato dal punto di vista nutrizionale, sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le emergenze di vere e proprie crisi alimentari, provocate da cause naturali o dall’irresponsabilità politica nazionale ed internazionale.
In particolare, per la CIV, l’economia relativa allo sviluppo agricolo, nelle varie comunità locali, che sono le prime responsabili delle scelte e delle decisioni relative all’uso della terra coltivabile, dovrebbe poter usufruire di investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale, in modo da garantire una loro sostenibilità anche nel lungo periodo.
Nel contesto di questo discorso la CIV accenna ad una criteriologia importante circa l’impiego corretto delle nuove tecniche di produzione agricola. In vista di uno sviluppo sostenibile nell’agricoltura «potrebbe risultare utile considerare – si legge nella CIV – le nuove frontiere che vengono aperte da un corretto impiego delle tecniche di produzione agricola tradizionali e di quelle innovative, supposto che esse siano state dopo adeguata verifica riconosciute opportune, rispettose dell’ambiente e attente alle popolazioni più svantaggiate» (CIV n. 27).
In altre parole, a proposito dell’impiego delle nuove tecnologie, la posizione della Chiesa non è per un orientamento univoco o per una risposta tranciante, non appare schierata aprioristicamente per un «sì» o per un «no» incondizionati e radicali. Essa non è totalmente chiusa alle tecniche innovative, ma nemmeno è aperta ad esse in maniera indiscriminata. Essa richiede un discernimento attento che, peraltro, si estende anche a quelle tradizionali. Con riferimento ad interventi sul creato invita, dunque, ad un atteggiamento prudenziale, offrendo le coordinate etiche essenziali con cui affrontare ed inquadrare i problemi che si pongono. Il sì o il no all’uso, ad esempio, delle tecniche biologiche e biogenetiche va espresso tenendo conto di molteplici fattori in gioco.
Sottesi alle sintetiche affermazioni della CIV stanno alcuni principi morali che è bene esplicitare:
a) gli interventi dell’uomo sulla natura, ivi compresi gli altri esseri viventi, devono contribuire alla salvaguardia e alla crescita delle risorse del creato a vantaggio non solo delle generazioni presenti ma anche di quelle future: in sostanza, si deve tener conto anche dei principi della solidarietà e della giustizia intergenerazionali e, inoltre, si deve «avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle nuove generazioni in uno stato tale che anch’esse possano degnamente abitarla e ulteriormente coltivarla» (CIV n. 50);
b) non tutto ciò che è tecnicamente e scientificamente possibile è moralmente lecito. La liceità dell’uso delle tecniche biologiche e biogenetiche non esaurisce tutta la problematica etica: come per ogni comportamento umano, è necessario valutare accuratamente la loro reale utilità nonché le possibili conseguenze anche in termini di rischi. Nell’ambito degli interventi tecnico-scientifici di forte ed ampia incisività sugli organismi viventi, con la possibilità di notevoli ripercussioni a lungo termine, non si può agire con leggerezza ed irresponsabilità. Il processo di verifica e di sperimentazione delle nuove tecnologie deve prendere in considerazione sia il loro impatto sociale-economico-ambientale a livello locale, senza trascurare le interconnessioni a livello regionale ed internazionale, sia la sostenibilità e l’opportunità di tale impatto nel tempo;
c) l’introduzione di una nuova tecnica agricola non deve in nessun modo rendere maggiormente difficile, dipendente e vulnerabile la vita dei più poveri. Sovente si pubblicizzano gli OGM come resistenti a parassiti e a siccità. Ma non si considera adeguatamente che varietà di semi locali resistono da 40 mila anni, e che le monocolture OGM non solo contribuiscono a diminuire la biodiversità, ma possono rendere i contadini che le praticano dipendenti dalle multinazionali, dalle quali devono comprare ogni anno le granaglie nel caso in cui queste siano di tipo sterile.
Tenendo conto della gerarchia dei valori che la Chiesa riconosce nel rapporto uomo ed ambiente, sembra si debba concludere che la criteriologia da essa offerta per la promozione di nuove tecniche di produzione agricola debba essere impiegata in maniera da non separarne le parti che la articolano e da assegnare la preminenza ai bisogni dei Paesi più poveri, in linea con le esigenze del Vangelo e il principio della destinazione universale dei beni.

4.     Disoccupazione ed agricoltura

In alcune regioni d’Europa, come in Italia, l’agricoltura è settore depresso, parzialmente assistenzializzato, non sufficientemente valorizzato rispetto alle sue potenzialità, nel quadro dell’economia nazionale e del servizio al bene comune. Se fosse adeguatamente sostenuto ed incrementato, esso costituirebbe non solo un pilastro fondamentale nella realizzazione di uno sviluppo sostenibile ma anche nel superamento della piaga della disoccupazione, specie giovanile. Quest’ultima, in alcune regioni, si attesta al 30%.
Nonostante l’insana e l’improvvida emarginazione del lavoro, praticata da un capitalismo finanziario deregolato che lo sottodimensiona, esso è e rimane fattore indispensabile nella personalizzazione e socializzazione delle persone, nella formazione e nel mantenimento della famiglia, nella realizzazione del bene comune e della pace. Proprio per questo, per la DSC è sempre prioritario l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti (cf CIV n. 32).
Sulla base di un simile «imperativo categorico» diviene cogente la considerazione del settore agricolo quale area di possibile impiego. Si tenga presente che oggigiorno, benché ridotte, anche per la progressiva meccanizzazione, sussistono in esso varie opportunità di lavoro collegate anche all’esigenza di nuove professionalità. Infatti, congiuntamente alla realizzazione di un’agricoltura biologica, sono richieste professionalità come quelle di: ispettore di certificazione, consulente per aziende che vogliono certificarsi come azienda Bio, esperti per lotta guidata o integrata (insetti killer e prodotti naturali per proteggere le colture), esperti per piogge artificiali (radaristi, chimici, meteorologi e piloti per provocare precipitazioni mediante irrorazione di sostanze chimiche nelle nuvole), divulgatori agrobiologici (sui modi migliori per trattare suolo e piante senza avvelenare uomini e ambiente), agronici (informatica applicata all’agricoltura intensiva, serre, vivai), esperti di acquacoltura, soprattutto marina, allevatori di insetti per lotta guidata.
Evidentemente, il settore agricolo potrà contribuire al meglio nella soluzione della piaga della disoccupazione quando venga inserito in un quadro di politiche coordinate e programmate relativamente ai molteplici settori economici, al rapporto tra scuola e mondo agricolo, al fisco, al credito, all’innovazione, alla sicurezza sociale. Le politiche relative all’agricoltura debbono essere improntate alla giustizia sociale, senza fare degli agricoltori degli assistiti, bensì imprenditori valenti, al servizio delle comunità, di uno sviluppo sostenibile, inclusivo, aperto alla Trascendenza, in un contesto socio-economico globalizzato.
Da questo punto di vista, appaiono strategici, specie rispetto a pratiche che tendono a mercantilizzare il mondo agricolo, a destrutturarlo e a privarlo di adeguati investimenti:
a)    Il ritorno ad un rinnovato spirito di mutualità e di cooperazione per meglio far fronte alla crescente richiesta di beni e di servizi più qualitativi da parte dei lavoratori della terra. L’organizzazione dei contadini rimane un’esigenza imprescindibile sia per una maggior unità tra di loro, sia per interagire con più efficacia con altri settori e con le istituzioni pubbliche, sia per meglio competere in un mercato globale;
b)    La valorizzazione dell’azienda famigliare. In un contesto in cui l’agricoltura ha sempre più bisogno del supporto di un’«ecologia umana» appare vitale e imprescindibile il suo nesso stretto con la famiglia, quale prima e fondamentale struttura della suddetta ecologia (cf Centesimus annus n. 39). L’ONU ha stabilito che il 2014 sarà l’anno internazionale dedicato all’agricoltura famigliare. Ebbene, la tradizione del pensiero sociale cattolico potrà aiutare a dare all’espressione «agricoltura famigliare» tutto quello spessore semantico e valoriale che è vissuto da quell’unità relazionale che è il «noi» famigliare, in cui i soggetti si amano reciprocamente, in un mutuo potenziamento del loro essere. Che cosa meglio di una simile relazionalità e convivialità famigliare può essere humus fecondo e modello comportamentale per un’agricoltura biologica o «verde», ossia per un’agricoltura che trasmette valori e che deve vivere un rapporto costante di alleanza tra l’uomo e la natura?;
c)     La crescita del settore agricolo dal punto di vista economico, sociale ed ecologico, quale condizione della realizzazione di una democrazia sostanziale e partecipativa. Non sembri un’esagerazione. Ma l’arretratezza del settore agricolo all’interno delle economie nazionali e dell’economia mondiale significherebbe di fatto l’emarginazione sociale e politica dei lavoratori della terra dalla democrazia. Un settore agricolo depresso costituirebbe una lacerazione nella continuità del tessuto democratico. Una reale crescita, anche del settore agricolo, implica uno sviluppo non solo del settore tecnologico, non solo dal punto di vista del fatturato, ma anche dal punto di vista sociale rispetto alla partecipazione nella realizzazione responsabile del bene comune.

Conclusione
Nell’attuale contesto della globalizzazione contrassegnato da aspetti positivi e negativi, da ideologie negative, quali mercantilismo e la tecnocrazie, la DSC sollecita ad essere protagonisti di una nuova evangelizzazione. Dal suo grembo aperto alla trascendenza possono derivare per l’agricoltura incentivi a vivere la sua alta vocazione di custode e di stimolo nello sviluppo delle virtualità del Creato, apprendendone la «grammatica» e concorrendo a renderlo sempre più ciò che deve essere, ossia una casa comune per tutti