+ Mario Toso SDB
Premessa:
agricoltura e la Dottrina
sociale della Chiesa
Bisogna riconoscere
che, in questi ultimi anni, la dottrina sociale della Chiesa (=DSC), specie
mediante il Compendio, l’enciclica Caritas in veritate (=CIV) di Benedetto
XVI, i Messaggi per la
Giornata mondiale della pace come quello intitolato Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato (1 gennaio 2010), ma anche
mediante i suoi soggetti, singoli e collettivi – persone, comunità ecclesiali,
organismi pastorali, istituti culturali, associazioni, movimenti ed
organizzazioni laicali cattolici o di ispirazione cristiana, non esclusa la Coldiretti -, con tutte
le loro iniziative culturali e le buone pratiche, ha contribuito a tenere viva
una percezione positiva ed alta del
ruolo dell’agricoltura rispetto al bene comune delle Nazioni e della famiglia
umana.
Una tale percezione è
stata proposta e declinata entro il quadro di uno sviluppo integrale,
sostenibile, inclusivo, aperto alla Trascendenza. Lo sguardo teologico,
antropologico ed etico della DSC, concretizzandosi in un’interpretazione
personalista, relazionale e fraterna dell’esistenza umana nel mondo, ha
sollecitato:
a)
a vedere l’agricoltura come un bene comunitario, un bene comune, perché bene fondamentale e
imprescindibile per l’umanità dal punto di vista dell’alimentazione, della
custodia dell’ambiente (sebbene spesso possa danneggiarlo), della prosperità
dei popoli, del bene comune mondiale;
b)
a
promuovere il passaggio dal concetto di territorio agricolo e di suolo avente
una destinazione d’uso riconoscibile a quello di «ambiente di vita» della
comunità, in cui le connessioni dello svolgimento delle attività agricole e la
presenza stessa di insediamenti rurali divengono inseparabili dai fenomeni
biologici e naturali e, tutti insieme, concorrono a formare un contesto
umanitario ed identificabile. La
CIV , allorché parla della natura
la configura come «ambiente di vita dell’umanità»: «ambiente» perché è
talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire più
una variabile indipendente. La desertificazione e l’impoverimento produttivo di
alcune aree, si legge nella CIV, sono anche frutto dell’impoverimento delle
popolazioni che le abitano e della loro arretratezza. Incentivando lo sviluppo
economico e culturale di quelle popolazioni, si tutela anche la natura (cf CIV
n. 51). Lo stesso può essere ripetuto per l’agricoltura;
c)
a
ricercare un nuovo modello di sviluppo
dell’agricoltura che attualmente la Coldiretti , assieme ad altre istituzioni, sta
coniugando in termini di qualità, di tipicità, di multifunzionalità, di
presidio e di manutenzione del territorio, di sicurezza alimentare (bene
collettivo).
In questo contesto
merita che si fermi a considerare l’agricoltura quale attività economica
«verde», un concetto che si sta sempre più affermando, sebbene sia ancora in
cerca di una definizione chiara (che probabilmente non ci verrà offerta dalla
Conferenza di Rio+20). Una tale prospettiva assume un senso più completo se
l’agricoltura viene vissuta, come suggerisce la CIV , con modalità che, mentre consentono di
produrre ricchezza, preservano e, possibilmente, rafforzano le potenzialità
dell’ambiente per consentire alle generazioni future la libertà di scelta fra
uso e non uso del patrimonio naturale tra diversi livelli di benessere naturale
e di qualità dell’ambiente. Detto diversamente, l’agricoltura in quanto
«economia verde» dovrebbe essere praticata come settore volto alla
realizzazione di un’autentica solidarietà a dimensione locale e mondiale,
intergenerazionale.
Si inserisce
sicuramente qui l’impegno della Coldiretti a contrastare i meccanismi perversi
di industrializzazioni e di finanziarizzazioni esasperate dell’agricoltura,
improntate a modelli produttivistici e consumistici che ignorano l’importanza
della sicurezza ambientale ed alimentare, del rispetto/benessere degli animali,
della produzione locale, anteponendo la ricerca del profitto a quella della
qualità e della genuinità.
1. L’approccio
«olistico» della Dottrina sociale della Chiesa: agricoltura e bene comune
La lettura in termini
personalisti, comunitari, relazionali e fraterni dell’agricoltura e del settore
ittico da parte della DSC li rappresenta come settori che fanno parte di un
tutto umano socio-economico-ambientale e culturale, retto dai principi del bene
comune, della destinazione universale dei beni, della giustizia sociale, della
solidarietà e della sussidiarietà. Un tale approccio getta una luce particolare
sulla considerazione dei vari settori economici e sui loro rapporti.
I diversi settori
economici – poiché hanno come soggetti
persone o gruppi di persone, popoli liberi e responsabili e poiché sono fondamentali in ordine allo sviluppo
umano integrale – vanno pensati ed organizzati in modo da non essere
disarticolati, sperequati, sottodimensionati. Come ha insegnato la Mater et magistra, della quale si è celebrato
l’anno scorso il cinquantesimo anniversario di promulgazione, i diversi settori
produttivi vanno promossi simultaneamente, gradualmente e proporzionatamente,
di modo che tutti quelli che vi lavorano possano essere responsabili e
protagonisti della loro evoluzione economica e della realizzazione del bene
comune.
Un simile approccio
evidenzia, con l’essenzialità dei vari settori dal punto di vista dell’economia
nazionale e mondiale, anche la loro valenza antropologica e civile. I
molteplici settori economici hanno una valenza e una funzione intrinseche
indisgiungibili da una funzione umana e sociale. L’unità e l’interdipendenza tra
i settori economici sono date sì dalla moltiplicazione delle interconnessioni e
delle comunicazioni proprie della globalizzazione ma soprattutto dall’unità e
dall’intrinseca solidarietà degli esseri umani, dei gruppi e dei popoli, che
lavorano insieme nelle comunità locali e nella comunità mondiale perché siano
assicurate le condizioni in cui possa svilupparsi pienamente la loro vita.
Il vero sviluppo
economico sostenibile è sviluppo solidale, inclusivo. È sviluppo di tutti. La
ricchezza di un popolo non si misura tanto dall’abbondanza complessiva dei
beni, ma anche e più ancora dalla loro qualità
e dalla loro reale ed efficace ridistribuzione secondo giustizia, a garanzia
dello sviluppo personale di tutti, fine ultimo delle economie nazionali e
dell’economia mondiale.
L’approccio olistico
dei settori economici, che li vede correlati e subordinati al bene comune,
comanda politiche economico-sociali-ambientali all’insegna della giustizia
sociale e dell’equità, ossia di una giustizia non astratta o avulsa dal
vissuto, bensì commisurata alle persone, ai gruppi e ai popoli concreti,
situati all’interno di rapporti sociali particolari, propri di Paesi aventi
cultura, grado di sviluppo e redditi diversi. Il quadro valoriale e
criteriologico offerto dal suddetto approccio olistico non tollera che vi siano
squilibri tra i settori economici. Coloro che vivono in un settore sperequato
non devono subire ingiustizie a livello di istruzione, di remunerazione e di
sicurezza sociale, di partecipazione alla gestione della cosa pubblica.
Non si può, allora,
assistere indifferenti al paradosso odierno, e cioè che la crescita della
ricchezza mondiale in termini assoluti non corrisponda allo sviluppo di tutti,
inclusi gli agricoltori e i pescatori. Se il fenomeno della globalizzazione ha
contribuito in parte a ridurre la povertà estrema ha, tuttavia, favorito la
concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. A questo proposito basti
pensare che la popolazione mondiale più ricca ha un reddito mediamente nove
volte maggiore di quello delle popolazioni più povere. E in alcuni Paesi, in
particolare dell’America Latina, anche ventisette volte superiore. Simili
divari sono particolarmente evidenti sul piano dei salari. I compensi dei top manager, in molti casi, sono
incomparabilmente più alti rispetto a quelli dei comuni lavoratori
dell’industria o della terra o di coloro che, pur lavorando tutta la giornata,
senza sosta, percepiscono un salario insufficiente per la loro famiglia e per
un’esistenza dignitosa.
Secondo l’approccio olistico
della DSC, l’agricoltura non può essere considerata un settore perennemente
depresso e nemmeno assistenzializzato. Così, assieme al settore ittico non può
essere considerato settore marginale o periferico di un’economia nazionale e
men che meno una variabile dipendente del capitalismo finanziario sregolato, a
proiezione globale. Settore agricolo e settore ittico vanno, invece, promossi
quali settori sostenibili, che svolgono funzioni fondamentali per il
bene-essere dell’umanità, sebbene in alcune zone geografiche, per molteplici
ragioni, diminuisca il numero degli addetti ed anche il loro contributo al PIL.
Perché, però, l’agricoltura e la pesca possano essere settori sostenibili, dal
punto di vista ambientale e sociale, c’è bisogno di una migliore armonizzazione
delle politiche sul piano nazionale e sovranazionale, nonché della creazione di
istituzioni globali, capaci di affrontare e risolvere questioni altrettanto globali
come l’inquinamento, il surriscaldamento del pianeta, la ridistribuzione delle
risorse energetiche, la povertà, la fame, la mancanza di accesso all’acqua
potabile per tutti, la sicurezza alimentare, la pace, la disponibilità di acqua
per le coltivazioni, la diffusione di nuove piante commestibili, la proprietà
del terreno.
2.
I pericolosi virus del
mercantilismo, del capitalismo finanziario deregolato
La DSC di questi ultimi
anni si è impegnata a mostrare la pericolosità delle nuove ideologie
dell’ecocentrismo e del biocentrismo nei confronti del rapporto dell’uomo con
l’ambiente. Essa, però, ha anche sottolineato la pericolosità del
mercantilismo, del capitalismo finanziario deregolato, della tecnocrazia.
Si tratta di ideologie
negative che, con le loro sfasature dei parametri antropologici ed etici, sono
anche all’origine della crisi ecologica contemporanea e di non pochi problemi
che investono il settore agricolo.
Qui ci si ferma, in
particolare, a considerare le conseguenze deleterie di un’eccessiva
finanziarizzazione dell’economia reale, che finisce per essere strumentalizzata
e destrutturata dall’assolutizzazione del profitto a breve termine. Come è ben
noto, oggi si verificano fenomeni di speculazione finanziaria anche con
riferimento alla terra, all’acqua, alle derrate alimentari, che contribuiscono
ad impoverire ancor di più coloro che vivono in situazioni di precarietà.
L’ascesa dei prezzi alimentari conduce milioni di persone alla fame, ponendo le
premesse di forti tensioni sociali, mentre i grandi gruppi alimentari e le
nuove potenze economiche registrano una costante crescita di fatturati e di
utili. Analogamente, l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche primarie,
con la conseguente spasmodica e non controllata ricerca di energie alternative,
finiscono per avere conseguenze negative sull’ambiente e sulla biodiversità, nonché
sull’uomo stesso.
Qui, in Italia, numerose
piccolissime o piccole e medie imprese agricole, organizzate anche come
cooperative, stanno chiudendo i battenti non solo perché manca da anni una vera
e propria politica industriale, non solo perché non c’è sufficiente ricambio
generazionale a causa del calo demografico, non solo perché vengono
puntualmente penalizzate da politiche di sviluppo che privilegiano le imprese
più forti e «virtuose», non solo perché non si coltiva un fecondo rapporto fra
scuola e mondo del lavoro, ma anche perché non possono godere del supporto
adeguato di un sistema finanziario e monetario libero, stabile, trasparente,
democratico (non oligarchico), funzionale all’economia reale, alle imprese,
alle comunità locali. Attualmente ciò avviene perché le banche, anche a seguito
della recente crisi finanziaria ed economica, sono poco propense a concedere
credito a quelle entità imprenditoriali che non possono garantire un profitto a
breve. Peraltro le banche etiche, il microcredito, i fondi di solidarietà
istituiti da diocesi e da altre istituzioni, appaiono impari rispetto alle
crescenti richieste di finanziamento.
Si verificano, poi, casi in cui gli
istituti intermediari appaiono maggiormente interessati e solerti, più che a
supportare i loro clienti, ad avvantaggiarsi del loro fallimento. Appena i
piccoli e medi imprenditori non riescono più a pagare il mutuo, i contributi
all’Inps o l’Irpef, entrano in scena vari soggetti che spolpano gli sventurati.
In seguito al tracollo, alla mancanza dei pagamenti e, quindi, alla
registrazione nell’elenco degli insolventi, le banche procedono alla vendita
all’asta delle aziende e dei terreni, con l’immediato arrivo di multinazionali
o di grossi produttori alimentari pronti al loro acquisto.
A fronte di situazioni di
difficoltà economiche, molte delle quali, specie in concomitanza alla crisi
finanziaria, non sono create per demerito dei titolari delle aziende – si
rammenti che molte imprese sono entrate in crisi perché, ad esempio, non hanno
ricevuto il pagamento di lavori eseguiti per conto della pubblica
amministrazione, perché non hanno trovato sufficiente credito dalle banche e
perché talora non hanno ricevuto tempestivamente da queste i propri stessi
risparmi depositati presso i loro sportelli -; a fronte dell’urgenza di creare
nuove aree di operosità c’è bisogno di un credito “amico”, che non assecondi,
ovviamente, passività o assistenzialismi. Ma una finanza “amica”, specie a
motivo del primato accordato al profitto a breve termine che è il “vangelo”
delle banche dedite alla speculazione, appare sempre meno disponibile. Ciò
rende problematica l’esistenza di molte piccole e medie imprese, non solo
quelle che vivono nel settore agricolo ed ittico, ma anche di quelle che,
svolgendo attività a forte valenza sociale, hanno attinenza con il welfare societario o, meglio, con il
bene-essere della società, con i beni collettivi quali l’ambiente, la sicurezza
alimentare, l’acqua.
Non paia, allora, strano se la CIV
ha raccomandato che il motivo per l’impiego delle risorse finanziarie non sia
solo speculativo e non ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve
termine, ma sia, invece, anche la sostenibilità delle imprese a lungo termine,
il suo puntuale servizio all’economia reale (cf CIV n. 40). Non paia, allora,
un’invadenza di campo se il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace,
con le sue riflessioni Per una riforma
del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di
un’autorità pubblica a competenza universale, proponga, in linea con la
CIV, una più pertinente regolazione del suddetto sistema sul piano mondiale,
mediante la riforma delle istituzioni esistenti, ma anche creandone di nuove
sul piano regionale (ad es. la BCE con corrispettiva unificazione politica),
varando politiche fiscali o industriali che, mentre contrastano la speculazione
finanziaria finalizzata al profitto a breve, incentivino le banche commerciali
ad erogare il credito ad imprese, famiglie e comunità locali.
3.
L’ideologia della tecnocrazia e gli
OGM
La DSC mette anche in
guardia rispetto all’ideologia della tecnocrazia. La tecnica, fatto
profondamente umano, che consente di migliorare le condizioni di vita, può
divenire un assoluto che strumentalizza l’uomo e il creato, riducendoli a meri
oggetti da produrre e da manipolare senza limiti (cf CIV nn. 68-70).
Da tempo la Coldiretti,
alla luce del principio della creazione, nonché dei principi di precauzione e
di responsabilità, ma in particolare anche del principio della destinazione
universale dei beni, ha optato per una scelta chiaramente contraria alle
produzioni transgeniche. Questo, però, non è significato opposizione assoluta
ad ogni uso delle tecnologie progredite e nemmeno preclusione alla ricerca e
alla sperimentazione. Né è significato un disinteresse per questo tema
complesso. Anzi - in un contesto di legislazioni plurali rispetto alle
produzioni transgeniche, a fronte dei problemi concreti delle imprese che finiscono
per utilizzare prodotti contenenti percentuali di elementi transgenici – la
Coldiretti si è fatta promotrice a livello legislativo di politiche di
trasparenza dei processi produttivi e di certificazione della storia, della
qualità e dell’origine dei prodotti agroalimentari, agricoli ed ittici, a
tutela del diritto all’informazione e alla scelta consapevole del consumatore
rispetto alla percentuale di presenza di prodotti transgenici nelle derrate
alimentari.
Rispetto all’impiego
delle tecnologie avanzate la CIV esprime una posizione prudente, senza chiusure
preconcette, che è bene avere presente.
«All’uomo è lecito
esercitare – si legge nella CIV – un governo responsabile sulla natura per
custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con
tecnologie avanzate in modo che essa possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione
che la abita» (CIV n. 50).
Secondo la CIV , l’economia non può
svolgere la sua giusta funzione, e
così contribuire a debellare le piaghe della fame e della miseria, non tanto
perché non vi siano risorse materiali, quanto piuttosto perché, in diverse
parti del mondo, essa manca di
istituzioni in grado sia di garantire un accesso alla terra, al cibo e
all’acqua regolare e adeguato dal punto di vista nutrizionale, sia di
fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le emergenze di
vere e proprie crisi alimentari, provocate da cause naturali o
dall’irresponsabilità politica nazionale ed internazionale.
In particolare,
per la CIV ,
l’economia relativa allo sviluppo agricolo, nelle varie comunità locali, che
sono le prime responsabili delle scelte e delle decisioni relative all’uso
della terra coltivabile, dovrebbe poter usufruire di investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione,
in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di
tecniche appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane,
naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale, in modo
da garantire una loro sostenibilità anche nel lungo periodo.
Nel contesto di
questo discorso la CIV
accenna ad una criteriologia
importante circa l’impiego corretto delle nuove tecniche di produzione
agricola. In vista di uno sviluppo sostenibile nell’agricoltura «potrebbe
risultare utile considerare – si legge nella CIV – le nuove frontiere che
vengono aperte da un corretto impiego delle tecniche di produzione agricola
tradizionali e di quelle innovative, supposto che esse siano state dopo adeguata
verifica riconosciute
opportune, rispettose dell’ambiente e attente alle popolazioni più svantaggiate» (CIV n. 27).
In altre parole, a
proposito dell’impiego delle nuove tecnologie, la posizione della Chiesa non è
per un orientamento univoco o per una risposta tranciante, non appare schierata
aprioristicamente per un «sì» o per un «no» incondizionati e radicali. Essa non
è totalmente chiusa alle tecniche innovative, ma nemmeno è aperta ad esse in
maniera indiscriminata. Essa richiede un discernimento
attento che, peraltro, si estende anche a quelle tradizionali. Con riferimento
ad interventi sul creato invita, dunque, ad un atteggiamento prudenziale, offrendo le coordinate etiche essenziali con cui affrontare ed inquadrare i
problemi che si pongono. Il sì o il no all’uso, ad esempio, delle tecniche
biologiche e biogenetiche va espresso tenendo conto di molteplici fattori in
gioco.
Sottesi alle
sintetiche affermazioni della CIV stanno alcuni principi morali che è bene
esplicitare:
a) gli interventi dell’uomo sulla natura, ivi
compresi gli altri esseri viventi, devono contribuire alla salvaguardia e alla
crescita delle risorse del creato a vantaggio non solo delle generazioni
presenti ma anche di quelle future: in sostanza, si deve tener conto anche
dei principi della solidarietà e della giustizia intergenerazionali e, inoltre,
si deve «avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle
nuove generazioni in uno stato tale che anch’esse possano degnamente abitarla e
ulteriormente coltivarla» (CIV n. 50);
b) non tutto ciò che è tecnicamente e
scientificamente possibile è moralmente lecito. La liceità dell’uso delle
tecniche biologiche e biogenetiche non esaurisce tutta la problematica etica:
come per ogni comportamento umano, è necessario valutare accuratamente la loro
reale utilità nonché le possibili conseguenze anche in termini di rischi.
Nell’ambito degli interventi tecnico-scientifici di forte ed ampia incisività
sugli organismi viventi, con la possibilità di notevoli ripercussioni a lungo
termine, non si può agire con leggerezza ed irresponsabilità. Il processo di
verifica e di sperimentazione delle nuove tecnologie deve prendere in
considerazione sia il loro impatto sociale-economico-ambientale a livello
locale, senza trascurare le interconnessioni a livello regionale ed
internazionale, sia la sostenibilità e l’opportunità di tale impatto nel tempo;
c) l’introduzione di una nuova tecnica agricola
non deve in nessun modo rendere maggiormente difficile, dipendente e
vulnerabile la vita dei più poveri. Sovente si pubblicizzano gli OGM come
resistenti a parassiti e a siccità. Ma non si considera adeguatamente che varietà
di semi locali resistono da 40 mila anni, e che le monocolture OGM non solo
contribuiscono a diminuire la biodiversità, ma possono rendere i contadini che
le praticano dipendenti dalle multinazionali, dalle quali devono comprare ogni
anno le granaglie nel caso in cui queste siano di tipo sterile.
Tenendo conto
della gerarchia dei valori che la
Chiesa riconosce nel rapporto uomo ed ambiente, sembra si
debba concludere che la criteriologia da essa offerta per la promozione di
nuove tecniche di produzione agricola debba essere impiegata in maniera da non
separarne le parti che la articolano e da assegnare la preminenza ai bisogni
dei Paesi più poveri, in linea con le esigenze del Vangelo e il principio della
destinazione universale dei beni.
4.
Disoccupazione ed agricoltura
In alcune regioni
d’Europa, come in Italia, l’agricoltura è settore depresso, parzialmente
assistenzializzato, non sufficientemente valorizzato rispetto alle sue
potenzialità, nel quadro dell’economia nazionale e del servizio al bene comune.
Se fosse adeguatamente sostenuto ed incrementato, esso costituirebbe non solo
un pilastro fondamentale nella realizzazione di uno sviluppo sostenibile ma
anche nel superamento della piaga della disoccupazione, specie giovanile.
Quest’ultima, in alcune regioni, si attesta al 30%.
Nonostante
l’insana e l’improvvida emarginazione del lavoro, praticata da un capitalismo
finanziario deregolato che lo sottodimensiona, esso è e rimane fattore
indispensabile nella personalizzazione e socializzazione delle persone, nella
formazione e nel mantenimento della famiglia, nella realizzazione del bene
comune e della pace. Proprio per questo, per la DSC è sempre prioritario
l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti (cf CIV n. 32).
Sulla base di un
simile «imperativo categorico» diviene cogente la considerazione del settore
agricolo quale area di possibile impiego. Si tenga presente che oggigiorno,
benché ridotte, anche per la progressiva meccanizzazione, sussistono in esso varie
opportunità di lavoro collegate anche all’esigenza di nuove professionalità.
Infatti, congiuntamente alla realizzazione di un’agricoltura biologica, sono
richieste professionalità come quelle di: ispettore di certificazione,
consulente per aziende che vogliono certificarsi come azienda Bio, esperti per
lotta guidata o integrata (insetti killer e prodotti naturali per proteggere le
colture), esperti per piogge artificiali (radaristi, chimici, meteorologi e
piloti per provocare precipitazioni mediante irrorazione di sostanze chimiche
nelle nuvole), divulgatori agrobiologici (sui modi migliori per trattare suolo
e piante senza avvelenare uomini e ambiente), agronici (informatica applicata
all’agricoltura intensiva, serre, vivai), esperti di acquacoltura, soprattutto
marina, allevatori di insetti per lotta guidata.
Evidentemente, il
settore agricolo potrà contribuire al meglio nella soluzione della piaga della
disoccupazione quando venga inserito in un quadro di politiche coordinate e
programmate relativamente ai molteplici settori economici, al rapporto tra
scuola e mondo agricolo, al fisco, al credito, all’innovazione, alla sicurezza
sociale. Le politiche relative all’agricoltura debbono essere improntate alla
giustizia sociale, senza fare degli agricoltori degli assistiti, bensì
imprenditori valenti, al servizio delle comunità, di uno sviluppo sostenibile,
inclusivo, aperto alla Trascendenza, in un contesto socio-economico
globalizzato.
Da questo punto di
vista, appaiono strategici, specie rispetto a pratiche che tendono a
mercantilizzare il mondo agricolo, a destrutturarlo e a privarlo di adeguati
investimenti:
a) Il ritorno ad un rinnovato spirito di mutualità e di cooperazione per meglio far fronte alla crescente richiesta di beni
e di servizi più qualitativi da parte dei lavoratori della terra. L’organizzazione
dei contadini rimane un’esigenza imprescindibile sia per una maggior unità tra
di loro, sia per interagire con più efficacia con altri settori e con le
istituzioni pubbliche, sia per meglio competere in un mercato globale;
b) La valorizzazione dell’azienda famigliare. In un contesto in cui l’agricoltura ha sempre
più bisogno del supporto di un’«ecologia umana» appare vitale e imprescindibile
il suo nesso stretto con la famiglia, quale prima e fondamentale struttura della
suddetta ecologia (cf Centesimus annus
n. 39). L’ONU ha stabilito che il 2014 sarà l’anno internazionale dedicato
all’agricoltura famigliare. Ebbene, la tradizione del pensiero sociale
cattolico potrà aiutare a dare all’espressione «agricoltura famigliare» tutto
quello spessore semantico e valoriale che è vissuto da quell’unità relazionale
che è il «noi» famigliare, in cui i soggetti si amano reciprocamente, in un
mutuo potenziamento del loro essere. Che cosa meglio di una simile
relazionalità e convivialità famigliare può essere humus fecondo e modello comportamentale per un’agricoltura
biologica o «verde», ossia per un’agricoltura che trasmette valori e che deve
vivere un rapporto costante di alleanza
tra l’uomo e la natura?;
c) La crescita del settore agricolo dal punto di vista
economico, sociale ed ecologico, quale condizione della realizzazione di una democrazia sostanziale e partecipativa. Non
sembri un’esagerazione. Ma l’arretratezza del settore agricolo all’interno
delle economie nazionali e dell’economia mondiale significherebbe di fatto
l’emarginazione sociale e politica dei lavoratori della terra dalla democrazia.
Un settore agricolo depresso costituirebbe una lacerazione nella continuità del
tessuto democratico. Una reale crescita, anche del settore agricolo, implica
uno sviluppo non solo del settore tecnologico, non solo dal punto di vista del
fatturato, ma anche dal punto di vista sociale rispetto alla partecipazione
nella realizzazione responsabile del bene comune.
Nell’attuale contesto
della globalizzazione contrassegnato da aspetti positivi e negativi, da
ideologie negative, quali mercantilismo e la tecnocrazie, la DSC sollecita ad
essere protagonisti di una nuova evangelizzazione. Dal suo grembo aperto alla
trascendenza possono derivare per l’agricoltura incentivi a vivere la sua alta
vocazione di custode e di stimolo nello sviluppo delle virtualità del Creato,
apprendendone la «grammatica» e concorrendo a renderlo sempre più ciò che deve
essere, ossia una casa comune per tutti.