1.
Introduzione
Scopo del
presente contributo è quello di verificare se le moderne biotecnologie agrarie,
con particolare riferimento a quelle transgeniche, rispondono ad obiettivi di
sviluppo sostenibile per il territorio rurale e se contribuiscono o meno al
mantenimento dell’attività agricole in aree meno dotate da un punto di vista
delle capacità produttive dei terreni (aree marginali di collina e di montagna).
Trattasi di una problematica di estrema importanza,
in quanto da sempre l’agricoltura svolge un ruolo di rilievo per la nostra
società. Da un lato essa è fonte rinnovabile di beni di consumo, siano essi
alimentari e non, dall'altro costituisce l'unica attività che consente di
"presidiare" costantemente il territorio, impedendo fenomeni di
dissesto idrogeologico e fenomeni legati al degrado dell'ambiente antropizzato.
In particolare, in un'ottica di sviluppo sostenibile le principali attività che
l'agricoltura, e l'agricoltore, deve assicurare alla collettività possono
essere riassunte nelle seguenti:
-
produzione di derrate agricole;
-
fornitura di materie prime per
altri settori economici;
-
presidio del territorio;
-
manutenzione del territorio;
-
tutela della flora e della fauna;
-
conservazione della biodiversità;
-
riciclo degli effetti ambientali
negativi prodotti da altre attività produttive o di consumo sul territorio
(assestamento del territorio, immobilizzazione dell'anidride carbonica, ecc.);
-
conservazione del paesaggio e del
territorio rurale;
-
conservazione di elementi
culturali tradizionali;
-
conservazione di tecniche di
trasformazione e di pratiche gastronomiche tradizionali.
Pertanto, la nostra Società ha bisogno della presenza
dell’agricoltura e dell’agricoltore sul territorio rurale e dovrà adottare
politiche agrarie in grado di proteggere il suo reddito, al fine di consentire
la permanenza di questa attività anche in aree marginali (di collina, di
montagna), che non possono certo competere sulla base dei bassi costi di
produzione, ma che possono essere competitive solo sulla base di presupposti di
qualità dei prodotti che offrono sul mercato. In particolare, secondo i dati
dell’ultimo censimento (2010), l’agricoltura nazionale è attuata su una
superficie complessiva di 30.132.858 ettari, dei quali 12.543.385 ubicati in
collina (41,6%), 10.611.208 in montagna (35,2%) e 6.978.265 in pianura (23,2%).
Pertanto, se escludiamo talune aree particolarmente vocate per la viticoltura o
per la frutticoltura, gran parte del territorio nazionale è caratterizzato
dalla presenza di una agricoltura, che potremmo definire di sussistenza,
attuata in aree marginali, che non possono certo competere per produttività con
quelle fertili di pianura.
Interessante, al fine di acquisire una
consapevolezza dell’evoluzione in corso, è l’analisi relativa all’evoluzione
del numero delle aziende agricole per zone altimetriche, secondo i dati
scaturiti dai censimenti dell’agricoltura del 1982 e del 2010. Dal loro
confronto si evince che complessivamente le aziende agricole sono passate nel
corso di un trentennio da 3.133.118 a 1.620.884, con una diminuzione del
(48,3%). In particolare, quelle di pianura sono calate del 42,2%, quelle di
collina del 46,7% e quelle di montagna del 59,7%. Tale evoluzione è un segno
inequivocabile della deruralizzazione del territorio rurale delle aree
marginali del nostro Paese, con tutto ciò che ne può conseguire da un punto di vista
della conservazione del territorio. E’
indubbio che questa deruralizzazione sia in relazione con le difficoltà
reddituali delle aziende agricole delle aree marginali, accentuate dalla
concorrenza esercitata dalle produzioni di pianura e dalle importazioni
provenienti da Paesi che hanno costi di produzione inferiori ai nostri.
Dalle suddette considerazioni si evince che
l'aspetto economico rappresenta un elemento di estrema importanza per il
mantenimento dell’attività agricola sul territorio rurale, per cui occorrerà
verificare l'impatto che le moderne biotecnologie transgeniche potranno avere
sul reddito dell’azienda agricola. In particolare, alcuni dubbi sorgono in
merito al mantenimento della sua competitività sul mercato internazionale.
L'agricoltura italiana si caratterizza per la presenza di aziende agricole di
modeste dimensioni, che non possono certo permettersi l'acquisto di macchinari
specifici per una determinata coltura, per un costo dei fattori produttivi molto
elevato (terra e manodopera soprattutto) e per limitazioni di carattere
ambientale in merito all'utilizzazione di determinati fattori della produzione
(concimi, antiparassitari, ecc.). Come potrà competere la nostra agricoltura,
anche se saranno introdotte le piante transgeniche, con l'agricoltura americana
o argentina, dove aziende agricole di migliaia di ettari sono alla continua
ricerca dell'automazione del processo produttivo (e le piante transgeniche
costituiscono il primo passo per ottenerla)? Come potrà farlo, se consideriamo
che il processo produttivo sarà controllato dai satelliti e dove l'intervento
dell'uomo sarà quasi nullo? Trattasi di un problema reale che potrebbe
contribuire alla scomparsa dell'agricoltura dai territori marginali, alimentando
fortemente tutte quelle problematiche connesse alla conservazione ed alla
tutela del territorio. E' senza dubbio un argomento che rappresenta una delle
frontiere più interessanti e nello stesso tempo più inquietanti della vita
contemporanea, uno dei campi in cui scienza, ricerca, tecnologia ed etica si
intrecciano, dando vita a problematiche, spesso sconosciute, che con ogni
probabilità si ripercuoteranno a lungo sullo sviluppo della nostra società e su
quello delle generazioni future.
2.
I prodotti agroalimentari
transgenici: le ripercussioni tecniche
In questa sede ci si limiterà a ricordare che i
prodotti transgenici sono quelli che contengono nel loro patrimonio genetico un
gene (transgene), che non avrebbero mai potuto avere senza l'intervento
dell'uomo. Da rilevare che il transgene immesso in queste piante può essere di
origine vegetale (di specie affine o meno), di origine animale o, addirittura,
sintetizzato dall’uomo. La sua presenza in un particolare organismo viene
sfruttata per la sintesi proteica di cui è promotore (al momento conferimento
di resistenza a diserbanti specifici o a particolari parassiti).
Come si può facilmente intuire si tratta di una
tecnologia fortemente innovativa, che rende le piante simili a laboratori in
grado di produrre di tutto ovunque. Con le moderne biotecnologie sarà
finalmente possibile indurre nelle piante la resistenza al freddo, in modo tale
da poter coltivare piante tipicamente mediterranee (agrumi, olivo, vite, ecc.)
in ogni parte del pianeta; sarà possibile introdurre resistenza a fattori
pedoclimatici avversi (acidità, contenuto di calcare, contenuto di sodio, ecc.)
rendendo possibile l'ampliamento delle aree di produzione di qualsiasi pianta;
sarà possibile "generare" piante che per fiorire hanno un ridotto
fabbisogno di freddo invernale, per cui sarà possibile produrre mele e pere
tipiche delle aree settentrionali anche nelle regioni meridionali della
penisola; sarà possibile far produrre a piante erbacee annuali le sostanze che
attualmente otteniamo dopo anni di allevamento da piante arboree (per esempio
sembra che sia possibile ottenere olio di colza uguale a quello ottenuto dalla
spremitura delle olive), e gli esempi potrebbero continuare ancora. E' fuori da
ogni dubbio il fatto che le potenzialità di questa nuova tecnologia siano
enormi e di portata tale da poter affermare che difficilmente sarà possibile
operare una obiettiva e rispondente previsione degli effetti che essa potrà
avere sul settore agricolo (con particolare riferimento all'azienda agricola)
e, conseguentemente, sul territorio rurale, del quale l'azienda agricola è
sicuramente soggetto predominante.
La possibilità di ottenere "nuovi
individui" appositamente progettati e realizzati per poter resistere a
condizioni pedoclimatiche avverse pone poi il problema dell'eventuale
spostamento delle produzioni da quelle che attualmente sono le tradizionali
aree di coltivazione e/o di allevamento, con conseguente aggravamento delle
problematiche legate alla conservazione del territorio rurale. Tale nuova
localizzazione potrebbe avvenire sia allo scopo, più che legittimo, di
aumentare il grado di autoapprovvigionamento alimentare di una determinata
regione, sia, meno legittimamente, per incentivare la produzione in aree dove è
possibile reperire a più basso costo i fattori produttivi necessari ad
ottenerla. In quest'ultimo caso, oltre ai problemi legati alla disoccupazione e
all'esodo rurale che si verificherebbe nei territori in cui quella particolare
attività viene abbandonata, inevitabilmente, un aumento dell'impatto ambientale
provocato dalle operazioni di condizionamento, trasporto e ridistribuzione,
necessarie per far giungere i prodotti dai luoghi di produzione ai mercati di
collocamento. In questa situazione verrebbero meno anche gli elementi legati
alla "tipicità" delle produzioni agricole, intendendo con questo
termine il legame esistente tra tipologia del materiale di propagazione,
tecnica di produzione e luogo di produzione. In particolare, con l'introduzione
di organismi geneticamente modificati sarà possibile superare il limite
naturale che ostacola la diffusione di determinate produzioni in ambiti a loro
ostili (è il caso per esempio di gran parte delle produzioni ortofrutticole
mediterranee), poichè mediante l'"ingegneria genetica" sarà possibile
introdurre geni in grado di conferire alla pianta una specifica resistenza a
fattori pedoclimatici avversi. E' in via di sperimentazione il conferimento
della resistenza al freddo per alcune piante (per esempio nella fragola è stata
ottenuta mediante l’utilizzazione di un transgene di platessa di mare) e
probabilmente lo si potrà fare anche per gli agrumi, per la vite o per l'olivo.
Queste ultime affermazioni pongono problematiche decisamente rilevanti per i
Paesi che si affacciano sul mediterraneo:
- cosa ne
sarà degli agricoltori che attualmente ricavano un reddito da queste
coltivazioni, una volta che sarà possibile ottenerle anche in altre aree del
pianeta?
- cosa ne
sarà del paesaggio rurale tipico di determinati territori, allorchè la diminuita
domanda di questi prodotti determinerà il loro abbandono da parte degli
agricoltori?
- cosa ne sarà degli elementi di cultura
tradizionali legati a determinate produzioni tipiche?
- cosa ne sarà delle tradizionali filiere legate
alle produzioni agricole localizzate nell’area mediterranea (trasformazione e
commercializzazione in primis)?
- quali interventi occorrerà mettere in atto per
contrastare l'abbandono di queste coltivazioni, in relazione alla funzione
paesaggistica e di contenimento del dissesto idrogeologico da esse determinato?
Un dato
abbastanza preoccupante è che a distanza
di pochi anni dall’introduzione sul mercato della prima pianta transgenica,
purtroppo, le promesse non sono state per la gran parte mantenute. In
particolare, taluni studi indipendenti effettuati da ricercatori indipendenti
di Università americane sulla base delle esperienze acquisite dagli agricoltori
dopo anni di coltivazione, hanno dimostrato che (AA.VV, 2003):
-
l’aumento produttivo non sempre si è verificato. Soprattutto per la
soia vi sarebbe stata una diminuzione media del 6% circa, mentre per il mais
l’aumento produttivo sarebbe limitato al 2,6%. (Benbrock, 2001; Elmore et al,
2001; Ma & Subedi, 2005). Interessanti a questo proposito sono anche le
affermazioni di alcuni noti genetisti agrari italiani: “Le piante transgeniche
attualmente commercializzate non alzano il tetto di produzione potenziale. A
questo scopo, sarebbe necessario rimaneggiare la pianta ex novo, non
limitandosi ad introdurre singoli geni ma modificando processi fisiologici che
rappresentano il collo di bottiglia dell’aumento di produzione.” (Gavazzi, 2004) “(omissis) ….. è ancora da
dimostrare la superiore potenzialità produttiva delle varietà GM rispetto alle
varietà locali adattate in sistemi agricoli sfavoriti da condizioni climatiche
….. o edafiche avverse. In questo caso il miglioramento genetico mediante la
classica ibridazione intra e interspecifica seguita da selezione, ha sempre
offerto e continuerà ad offrire risultati sorprendenti ed a costi relativamente
bassi.” (Scarascia Mugnozza, 2001);
-
l’uso di
diserbanti non sarebbe diminuito a causa di numerosi fattori, tra i quali sono
da segnalare la massiccia diffusione delle piante infestanti geneticamente
resistenti alla molecola diserbante, l’acquisizione da parte di piante
parentali selvatiche del gene di resistenza al diserbante, la presenza nei
campi coltivati con piante transgeniche di infestazioni di altre piante
transgeniche coltivate nell’annata precedente e che sono esse stesse resistenti
al diserbante (la colza RR è divenuta infestante della soia RR);
-
l’utilizzazione
di insetticidi non sarebbe diminuita a causa della naturale selezione di
generazioni di insetti resistenti alla molecola insetticida prodotta
autonomamente dalla pianta transgenica e per il fatto che altri insetti vanno
ad occupare la nicchia ecologica lasciata libera dalla Piralide del mais (Diabrotica
virginifera, Helicoverpa zea, ecc.);
-
la diffusione
delle coltivazioni transgeniche non consente la coesistenza con altre forme di
agricoltura a causa del diffuso “inquinamento genetico” provocato dal polline
transgenico;
3.
I prodotti agroalimentari
transgenici: le ripercussioni economiche
Da un punto
di vista economico, occorre rilevare che la temuta diminuzione dei prezzi, in
relazione ad un abbattimento dei costi di produzione generati dagli individui
biotecnologici, è inevitabile in agricoltura. Infatti, in questo settore
economico, al contrario di quanto avviene in quello industriale che opera per
la gran parte in condizioni di oligopolio, si è in presenza di un'offerta
decisamente atomistica. In questa situazione l'agricoltore non è in grado di
controllare il prezzo dei suoi prodotti. Allo stesso tempo, inserendo nel
riparto colturale processi produttivi che consentono di abbassare i costi di
produzione e quindi in grado di determinare un abbassamento dei prezzi di
vendita, egli favorisce, quasi inconsapevolmente, una diminuzione del suo
reddito reale. Tale eventualità è ancor più amplificata in agricoltura, in
relazione alla lenta trasferibilità delle innovazioni tecnologiche. Secondo le
opinioni dei promotori delle piante transgeniche, la loro introduzione dovrebbe
proprio consentire una diminuzione
dei costi di produzione, in relazione all'aumento di
produttività ed alla diminuzione delle
spese per le operazioni colturali, lasciando intendere che vi
potrebbe essere un conseguente aumento dei margini di profitto. Essi però dimenticano di considerare che la
politica commerciale dei
"costitutori" delle piante transgeniche è per lo più di tipo
monopolistica. Conseguenza ne è che essi potrebbero spingere il
prezzo di vendita del materiale
di propagazione, nonché quello delle
materie prime necessarie per farlo produrre (diserbante o quant’altro), ad un livello molto prossimo all’incremento di produttività marginale che è in grado di
determinare, con conseguente annullamento dei vantaggi economici per il produttore agricolo. Essi, ancora,
dimenticano che all’agricoltore non interessa “spendere di meno”, ma interessa
“guadagnare di più”. A questo proposito, occorre rilevare che, purtroppo, gli
attuali OT non sono in grado di
determinare un maggior reddito al produttore agricolo. Infatti,
l’agricoltore non è in grado di controllare il prezzo dei prodotti che vende sul
mercato, per cui, se è vero che gli OT determineranno una diminuzione dei
costi, è altrettanto vero che nel lungo periodo si avrà una diminuzione dei
prezzi dei prodotti, con annullamento dei profitti (dalla teoria economica si
desume che nel lungo periodo costo unitario medio, costo marginale e prezzo di
mercato tendono all’uguaglianza). Come ci fa notare Galizzi "da un lato l'agricoltura ……… non ha alcuna
facoltà di controllo del prezzo dei suoi prodotti, e……… dall'altro lato il
progresso tecnico determina una riduzione dei costi unitari di produzione………. A
causa di ciò i prezzi dei prodotti agricoli seguono i costi nella loro
diminuzione……… cosicché viene meno il profitto che poteva essere atteso;
talvolta anzi, per la lenta trasferibilità di taluni fattori produttivi
impiegati dall'agricoltore, la discesa dei prezzi può continuare al di sotto
del livello capace di assicurare la precedente remunerazione agli stessi
fattori" (Galizzi, 1960). E’ accaduto per il “Kiwi”, per talune cv. di
melo e di pesco, ma gli esempi potrebbero essere numerosi. Pertanto si può
concludere che l'effetto di abbassamento dei costi di produzione e, quindi, dei
prezzi di vendita dei prodotti agricoli in relazione all'introduzione di
organismi transgenici, non è in grado di originare benefici durevoli al settore
agricolo, anzi, il settore agricolo verrebbe a perdere di importanza nei
confronti degli altri settori economici. Vi sono evidenze empiriche che
dimostrano come le piante transgeniche
non determinano l’auspicato incremento di reddito per l’agricoltore, anzi, a
volte, favoriscono un aumento dei costi ed una difficoltà di collocamento delle
produzioni ottenute, a causa della diffidenza dei consumatori nei confronti
di questi nuovi alimenti. Uno studio
condotto in Georgia (Usa) ha precisamente verificato come la possibilità di
ottenere un maggior reddito per l’agricoltore non sia legato all’utilizzo di
sementi Ogm, quanto piuttosto alla selezione delle cultivar a più alta resa
(Jost et al, 2008). L’inevitabile contrazione dei prezzi indotta dall’utilizzazione di OT
può determinare una diminuzione
del reddito reale dell’agricoltore,
in quanto i prezzi dei prodotti non agricoli che egli acquista sul mercato
rimarranno, nella migliore delle ipotesi, costanti (se il prezzo del grano
diminuisce, occorrono più quintali di grano per acquistare un’automobile, un
televisore, un abito, ecc.). Addirittura, per la legge di Engel, vi è la
possibilità che, in relazione ad un aumento del reddito reale del consumatore,
favorito dalla diminuzione del prezzo dei prodotti agricolo-alimentari (se
diminuisce il prezzo degli alimenti, a parità di reddito il consumatore può
acquistare una maggior quantità di altri beni), si verifichi un aumento della
domanda di beni non agricoli, con conseguente aumento del loro prezzo e
conseguente ulteriore diminuzione del reddito reale dell'agricoltore. Ecco,
allora, che in questa situazione l’agricoltore si sentirà “più povero”, in
quanto sarà costretto a produrre di più (anche attraverso un maggior
sfruttamento delle risorse naturali) per poter mantenere il precedente livello
di benessere, in pratica, per mantenere lo stesso livello di potere d’acquisto.
Del resto le moderne biotecnologie in agricoltura
”, incrementando la produttività e, soprattutto, la
produzione agricola, tende a ridurre
i prezzi e
a mettere in
moto un processo
di "macina tecnologica" che
porta, tra l'altro, all'espulsione dal
mercato di una parte di agricoltori
che, nel caso in cui le
condizioni del mercato del lavoro
extra-agricolo lo rendano possibile,
si spostano su occupazioni
extra-agricole a più alta
remunerazione." (Buttel F.H., 1992).
Ecco
allora che possono venir meno le condizioni che attualmente consentono la
permanenza delle aziende agricole anche in territori marginali, dove a fatica
l’agricoltore riesce ancora a ricavare un certo reddito dall’attività di
coltivazione delle piante e di allevamento degli animali. Cosa ne sarà dell’agricoltura attuata in territori
marginali che vedranno diminuire i prezzi dei prodotti agricoli, prezzi che già
ora, in molti casi, non sono in grado di fornire un pieno reddito
all’agricoltore? La risposta è semplice: con ogni probabilità questi territori
saranno abbandonati, con amplificazione dei problemi connessi all’esodo rurale
delle famiglie contadine ed al dissesto idrogeologico del territorio. La stessa
domanda si può porre in altri termni con conclusioni non dissimili: che cosa ne sarà
dei fattori della produzione liberati dall'adozione degli individui biotecnologici? Essi,
con ogni probabilità, potranno
avere due destinazioni:
- potranno essere impiegati in
altri settori economici (industriale o terziario) nel caso in cui ve ne sia la
necessità;
- potranno continuare ad
essere impiegati nell'azienda agricola,
nel caso in cui, al contrario della situazione precedente, non vi sia
richiesta di tali fattori in altri settori economici.
Nel primo caso si avrebbe un aumento dell'esodo
rurale, con aumento quindi delle problematiche relative al presidio ed alla manutenzione
del territorio. Nel secondo caso si assisterebbe ad un
aumento dell'offerta di questi fattori della produzione, con conseguente abbassamento delle relative
remunerazioni e creazione di aziende agricole extramarginali; aziende
che con
la loro attività non
sono più in
grado di remunerare adeguatamente i fattori della
produzione (in esubero) impiegati. Pertanto, come si è potuto osservare, una
diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli non giova certo al settore
agricolo, che vedrebbe diminuire il suo peso economico a favore di altri
settori economici.
Qualcuno potrebbe
affermare che il precedente scenario economico è in contrasto con quello che è
accaduto in alcuni Paesi (U.S.A., Canada, Argentina), nei quali, a “testimonianza
del gradimento degli agricoltori”, si è avuto un forte incremento delle
superfici destinate alla coltivazione di piante transgeniche. A tal riguardo
occorre osservare che l’incremento delle superfici si è avuto solo nei Paesi in
cui si è in presenza di un’unica filiera di distribuzione per il medesimo
prodotto, sia esso transgenico o non
transgenico. In presenza di un’unica filiera, e con prezzi flettenti dei
prodotti così come si è verificato per la soia e per il mais transgenici, è
ovvio che se l’agricoltore vuole conservare un certo margine di redditività
dall’attività di coltivazione, sarà “costretto”, anche suo malgrado, a seminare
le cultivar caratterizzate dal minor costo di produzione (ovvero quelle
transgeniche). Ecco allora che l’incremento delle superfici coltivate è dovuto,
non tanto ad un gradimento dell’agricoltore nei confronti di queste piante, ma
alla necessità da parte dello stesso di mantenere un certo margine di
redditività dall’attività agricola (è ovvio che se il prezzo del mais transgenico
è uguale a quello del mais convenzionale, egli coltiverà quello caratterizzato
dal minor costo di produzione, ovvero quello transgenico).
Il
minor reddito per il produttore
agricolo è anche conseguenza del fatto che gli OT sono sostanzialmente
disattivanti nei confronti dei fattori della produzione che egli apporta
direttamente (manodopera soprattutto) e richiedono, nello stesso tempo, un
maggior apporto di fattori esterni all’azienda agricola, fattori produttivi di
origine industriale (sementi che offrono dei vantaggi ma che costano di più e
fattori produttivi in grado di far produrre le stesse sementi), che
l’agricoltore è costretto ad acquistare sul mercato. A questo riguardo Vellante
ci fa notare che "…cambiano a
seconda delle tecnologie utilizzate anche i rapporti di scambio tra settore
primario e resto dell'economia accelerando o attenuando i rapporti di
subordinazione dell'agricoltura. In generale lo sviluppo di un progresso
tecnico labour-saving tende a redistribuire l'incremento del reddito conseguito
con l'aumento della produttività del lavoro, in favore dei detentori del
capitale fisso di esercizio. Rispetto ai rapporti di scambio con il settore
industriale l'adozione di queste innovazioni rende dipendente e subordinata
l'agricoltura non solo per la necessità di ottenere i mezzi tecnici
indispensabili per l'attivazione del processo produttivo, ma anche per il fatto
che l'industria manifatturiera commercializza i propri beni in condizioni di
oligopolio realizzando dei superprofitti a spese del settore primario."
(Vellante S., 1983). Questa situazione è particolarmente dannosa per le aziende agricole di
modeste dimensioni come quelle italiane, nelle quali il lavoro manuale
rappresenta ancora una componente importante del reddito netto derivante dall’attività
agricola. Una politica di
questo tipo, operata soprattutto dall'industria
produttrice dei mezzi tecnici per
l'agricoltura, è nota come
politica di "appropriazionismo",
mediante la quale viene perseguita
"una
strategia che mira ad aumentare il grado
di industrializzazione del
processo produttivo agricolo
tramite l'espropriazione di attività tradizionalmente svolte
all'interno dell'azienda agricola e la
loro sostituzione con input di origine
industriale." (C. Salvioni, 1991).
Anche in questo caso si assisterebbe ad una perdita di importanza del settore
agricolo, che vedrebbe diminuire il
fabbisogno di manodopera, per lo
più di tipo familiare, necessario per portare a termine le produzioni, con
conseguente aumento delle
problematiche relative all'esodo rurale ed al
presidio ed alla conservazione
del territorio. A questo proposito
possiamo affermare che, soprattutto per le coltivazioni erbacee annuali, la
semente biotecnologica potrebbe rappresentare il primo passo per consentire la
completa automazione del processo produttivo agricolo (piante autosufficienti,
resistenti a tutti i tipi di malattie e che crescono ovunque), un processo
produttivo che sarà controllato dai satelliti,
che non avrà più bisogno dell’agricoltore o, per lo meno, ne avrà
bisogno in modo molto limitato. E’ in questo contesto, ovvero in un contesto in
cui il reddito da capitale prevarrà sul reddito fornito dagli altri fattori
produttivi (terra e lavoro che molto spesso sono di proprietà dello stesso
imprenditore agricolo), che si creano i presupposti per il passaggio del
controllo del territorio rurale dall’agricoltore, che non riesce più a ricavare
un reddito adeguato dall’attività agricola poiché i fattori della produzione di
cui dispone non sono più necessari e quindi non sono più remunerati, ad
individui estranei all’attività agricola, che con i propri capitali, o con i
capitali di terzi, saranno in grado di subentrare non soltanto nell’attività di
coltivazione, ma anche nella proprietà delle aziende agricole. Tale situazione, inevitabilmente, darà
origine a gravi problemi di sostenibilità del territorio rurale, in quanto le
tecniche di produzione che questi “nuovi agricoltori” adotteranno saranno
sicuramente indirizzate alla massimizzazione del reddito da capitale da loro
stessi fornito.
4.
Quale nuovo agricoltore e quale
nuova agricoltura?
Con l'introduzione di individui geneticamente modificati
l'agricoltore potrebbe perdere parte delle funzioni
imprenditoriali, poichè "con
l'annessione industriale di importanti tecniche......., gli agricoltori perderanno
la possibilità di
organizzare il processo
produttivo secondo la propria
iniziativa. Non saranno più
imprenditori, ma "lavoratori
all'aria aperta" che producono
materia prima per
l'industria di trasformazione." (Ruivenkamp G.,
1992). Ecco che in questo contesto verrà
ad assumere sempre più importanza il settore industriale, quale fornitore del materiale di propagazione (semente transgenica resistente
ad un determinato diserbante) e dei mezzi tecnici necessari per portare
a termine il processo
produttivo (diserbante complementare alla semente transgenica), nonchè quale utilizzatore del prodotto
agricolo ottenuto. In particolare, "sarà sempre più possibile modificare il
pacchetto di informazioni
genetiche che controllano
la crescita delle
piante e le loro
reazioni nei riguardi
dell'ambiente. I programmi di riproduzione
renderanno l'agricoltura
sempre più indipendente dall'ambiente
naturale. Il raccolto agricolo non
sarà più determinato
fondamentalmente dalle specifiche condizioni
naturali (natura del suolo,
clima, ecc.) ma dall'ammontare delle conoscenze scientifiche e tecnologiche che sono incorporate nei prodotti di base (sementi, metodi di difesa), destinati a
determinare dove, come e
quando l'agricoltore deve
seminare, raccogliere e quali cure deve dedicare alle sue colture." (Ruivenkamp G.,
1992).
Secondo
alcuni sostenitori degli OT l’aumento del reddito dell'agricoltore potrebbe
derivare da una differenziazione dell'offerta verso produzioni diverse dalle attuali caratterizzate da un maggior valore
aggiunto (alimenti con più proteine, più vitamine, meno calorie,
partenocarpia, piante che producono principi attivi farmaceutici, ecc.). Tali
opportunità di guadagno per il settore agricolo si potranno verificare, però,
solo se il mercato del prodotto sarà "libero", poiché, nel caso,
molto più realistico, in cui la coltivazione fosse attuata "su
contratto", i maggiori guadagni sarebbero quasi esclusivamente a favore di
colui che detiene il brevetto della pianta transgenica, che “appalterà” (con un
contratto simile a quello di soccida per gli animali) la coltivazione e pagherà
l’agricoltore sulla base delle operazioni colturali necessarie per portare a
termine il ciclo produttivo.
A
proposito delle precedenti affermazioni, occorre rilevare che l'introduzione di individui geneticamente modificati potrebbe comportare anche una diminuzione dell'importanza di
questo settore economico in relazione
alle strategie di
"sostituzionismo" messe
in atto dal settore
industriale legato alla
trasformazione dei prodotti
agricoli. In particolare,
la "possibilità recentemente offerta dalle
biotecnologie avanzate di intervenire sulla base organica del
processo produttivo agricolo,
manipolandola e
controllandola, consente per la prima
volta di rimuovere l'ostacolo che
ha finora impedito la
completa industrializzazione del processo
produttivo agricolo e la produzione
industriale di materia organica,
in tal modo permettendo
l'unificazione delle varie fasi di produzione di prodotti alimentari in un unico processo produttivo di tipo industriale." (C.
Salvioni, 1991). Questa
opportunità è resa possibile dallo
sviluppo di organismi
fortemente specializzati nella
produzione di materie
prime di base (vitamine,
carboidrati, grassi, ecc.).
Tali sostanze potranno poi
essere utilizzate dall'industria
per produrre beni alimentari e
non.
Per lo "sviluppo sostenibile" della nostra
agricoltura occorrerà poi rivedere le norme relative alla brevettabilità dei prodotti transgenici, in quanto non è
possibile accettare che colui che ha inserito un gene in una pianta acquisisca
il “monopolio di fatto” su quella pianta, impedendone, così, la libera
coltivazione. Tale affermazione è supportata dalla considerazione che, nel
momento in cui la pianta transgenica sarà considerata uguale a quella “non transgenica”
(ovvero si originerà un’unica filiera distributiva), anche gli agricoltori che
in un primo momento non erano intenzionati a coltivarla saranno “obbligati” a
farlo, in quanto saranno costretti ad operare in un mercato in cui il prezzo di
quel prodotto sarà commisurato al costo di produzione (più basso) della pianta
transgenica. Pertanto, se essi vorranno mantenere un certo margine di
redditività, dovranno riconvertire le produzioni convenzionali verso quelle
transgeniche. Ecco che “di fatto” si potrebbe creare un monopolio per il
mercato della semente di quella pianta.
A
proposito di brevetto occorre considerare anche la diminuzione di potere
contrattuale dell'agricoltore, in relazione alle possibili strategie
economiche che si prospettano per colui che è "proprietario" della
semente transgenica. In particolare, il detentore del brevetto:
-
potrebbe
limitarsi a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente
venduta, lasciando libertà di scelta all’agricoltore in merito alle diverse
opportunità di vendita sul mercato del prodotto ottenuto (è quello che avviene
oggigiorno per la gran parte delle sementi);
-
potrebbe andare oltre e richiedere il pagamento di una royalty, oltre che per ogni chilogrammo
di semente, anche per ogni chilogrammo di prodotto ottenuto da quella
semente e immesso sul mercato (avviene già per talune coltivazioni);
-
egli potrebbe non accontentarsi ancora e potrebbe riservarsi la proprietà della
produzione finale, attuando la produzione per conto proprio, sulla base di un
rapporto contrattuale con l’agricoltore (avviene già per talune coltivazioni). E' ovvio che in
una situazione come questa l'agricoltore diverrebbe esclusivamente un
prestatore di manodopera, con conseguente perdita delle prerogative
imprenditoriali. Da
rilevare poi che con una strategia di questo tipo il monopolista otterrebbe due grandi vantaggi. In primo luogo egli
metterebbe in concorrenza tra di loro gli agricoltori per accaparrarsi la
commessa di coltivazione, con conseguente abbassamento del costo delle
lavorazioni meccaniche, in secondo luogo egli diverrebbe monopolista di
quell’alimento, con tutte le conseguenze del caso.
Ma il grande
salto di qualità per le ditte che detengono il brevetto, potrà essere ottenuto
allorquando la manipolazione genetica sulle piante consentirà di
sfruttare l’”apomissi o apomissia”, ovvero la possibilità di originare
piante identiche alla madre anche nel caso di riproduzione sessuata. In
particolare, lo sfruttamento dell’”apomissia” consentirà alle ditte sementiere di
evitare la produzione e la successiva commercializzazione del seme,
mantenendo comunque la possibilità di ricavare le royalty dal seme; il seme,
una volta distribuito, potrà essere prodotto autonomamente di anno in anno
dall’azienda agricola (sarà costituito da una parte del raccolto), la quale,
mediante un apposito contratto di sfruttamento della semente, sarà tenuta a
pagare le royalty al detentore del brevetto ogni qual volta la utilizzerà.
L’”apomissia” semplificherà notevolmente la vita al detentore del brevetto, che
dovrà attuare un’unica operazione: incassare le royalty ogni volta che il
cibo viene prodotto. Qualcuno afferma che questo
scenario è irrealizzabile, in quanto alle ditte sementiere non converrebbe
mettere sul mercato una semente apomittica, poiché aumenterebbero le frodi e
occorrerebbe mettere in atto un sistema di vigilanza decisamente costoso.
Purtroppo queste affermazioni si scontrano con la realtà, in quanto le grandi
multinazionali del seme stanno cercando di evitare questo inconveniente
mediante la creazione di una “Apomissia
inducibile chimicamente”. In pratica, che cosa accade? Accade che la
semente apomittica origina un seme in grado di originare una pianta identica alla madre solo in presenza di
una sostanza chimica che sarà venduta a parte. Da rilevare che tutto questo non
è fantascienza, in quanto il brevetto sull’”Apomissia inducibile chimicamente”
è già stato richiesto (http://www.ptodirect.com/Results/Publications?query=IN/(Russinova-Eygeniya).
Il brevetto su una pianta
potrebbe poi consentire ai Paesi che ne detengono la proprietà di attuare
le coltivazioni in località prossime ai mercati di collocamento,
rendendo così competitive produzioni che attualmente sono penalizzate dagli
elevati costi di trasporto e di commercializzazione, evitando nel contempo le
problematiche ambientali che queste coltivazioni potrebbero comportare se
fossero attuate sul loro territorio. Per alcune produzioni agricole questo già
avviene. Cos’è accaduto? Alcuni Paesi, vuoi perché non hanno condizioni
pedoclimatiche favorevoli, vuoi perché non sarebbero concorrenziali sul nostro
mercato a causa degli elevati costi di trasporto, stanno producendo sul nostro
territorio, su base contrattuale, alcuni prodotti dei quali detengono il
brevetto; tali prodotti al momento della raccolta diverranno di loro proprietà.
Ecco che in questo modo qualsiasi Paese, anche senza alcuna vocazionalità
produttiva, e, al limite, senza disponibilità di territorio agricolo, di
strutture e di competenze agricole specifiche, potrebbe divenire un
protagonista nel mercato del cibo; la produzione sarebbe attuata nel nostro
Paese dai nostri agricoltori su base contrattuale per conto di colui che ha il
brevetto sul materiale di propagazione, che si approprierà del valore aggiunto
di questa coltivazione.
I
precedenti scenari costituiscono per l’agricoltura del nostro Paese un
vantaggio o uno svantaggio? Si adattano a tutte le coltivazioni o solo a quelle
brevettate? E il consumatore otterrà dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre
rispondere a queste domande prima di effettuare delle scelte che potrebbero
rivelarsi irreversibilmente controproducenti per l’agricoltura del nostro
Paese.
5. – Alcune
conclusioni
Se da un lato il tipo di sviluppo portato avanti in
questi ultimi anni, improntato soprattutto all'esasperata ricerca del massimo profitto, ha consentito di massimizzare la produttività
dei fattori della produzione impiegati (terra, lavoro e capitale), dall'altro non è sempre stato
in grado di garantire sia un'equa ripartizione delle produzioni tra le
diverse aree del
pianeta, sia modalità
di produzione compatibili con
l'esigenza di salvaguardare l'ambiente
e la salute dei cittadini.
E' auspicabile che le
moderne biotecnologie in
agricoltura, così come
gran parte delle
innovazioni tecnologiche introdotte
in questo secolo
(diserbanti, insetticidi,
anticrittogamici, regolatori di
crescita, ecc.), non siano
viste come un ulteriore
strumento "necessario" per incrementare la produttività del lavoro in agricoltura, a
scapito, ancora una volta, dell'ambiente.
Se si parte dal presupposto che
occorra incrementare il reddito da lavoro in
agricoltura, mantenendo
inalterato o, meglio, abbassando il
prezzo di vendita dei prodotti agricolo-alimentari, affinchè,
con motivazioni di
tipo ricardiano, il consumatore
incrementi il suo reddito reale e possa così destinare la parte eccedente ad
altri consumi non primari,
l'"individuo
biotecnologico" diventa strumento
fondamentale per attuare tale strategia.
A questo punto però, anche sulla base delle considerazioni precedenti,
occorre valutare attentamente se la
sua introduzione risponde a
presupposti di "sviluppo
sostenibile", sia da un punto di
vista dei "reali vantaggi"
ottenibili dall'attuale società e
dalle generazioni future, sia da un
punto di vista dei "reali vantaggi" ottenibili dal settore agricolo.
Occorre
rilevare poi che in un futuro ormai
prossimo, le nostre produzioni dovranno confrontarsi con quelle provenienti da
Paesi caratterizzati da costi di produzione decisamente inferiori ai nostri, da
Paesi che non hanno limitazioni nell’utilizzazione di determinati prodotti
chimici, siano essi concimi e/o antiparassitari, da Paesi nei quali il lavoro
minorile non è tutelato o è, addirittura, incentivato e/o sfruttato, da Paesi
che non saranno in grado di garantire il materiale genetico da cui deriva la
produzione e l’elenco potrebbe continuare ancora. Ecco allora che nei prossimi
anni i problemi per l’agricoltura nazionale deriveranno con ogni probabilità
anche dalla globalizzazione dei mercati e dalla conseguente realizzazione di un
grande mercato mondiale dei prodotti alimentari, un mercato dove con ogni
probabilità l’imperativo sarà produrre di più (non importa con quale
tecnica e/o con quale materiale genetico) ai più bassi costi possibili, per poi
vendere i prodotti ottenuti laddove ci sono i soldi per acquistarlo.
In un contesto come quello
delineato occorre chiedersi: ma i bassi costi e la globalizzazione dei mercati
si conciliano con la qualità della produzione da tutti auspicata? Si adattano
alla necessità di assicurare un reddito anche agli agricoltori delle aree
“svantaggiate” da un punto di vista dei costi di produzione? Si conciliano con
lo sviluppo sostenibile del territorio? Riescono a preservare l’identità
culturale, economica, sociale e professionale di un territorio?
E’ a queste domande che
occorre fornire una risposta, al fine di verificare se nel lungo periodo gli OT
e il conseguente processo di globalizzazione dei mercati rappresenti per il
territorio rurale del nostro Paese un’opportunità o, al contrario, una strada
pericolosa, che potrebbe determinare effetti dannosi per il benessere della
nostra società e per quello delle generazioni future.
Pertanto, le problematiche relative all'introduzione di
coltivazioni transgeniche di prima generazione sono notevoli e di portata tale
da non giustificare una decisione affrettata. In particolare, come per le altre
innovazioni tecnologiche, la loro
applicazione può essere buona, mediocre o, addirittura, cattiva. Per il
momento, le moderne biotecnologie hanno riguardato solo ed esclusivamente
applicazioni finalizzate all'automazione del processo produttivo agricolo. In
particolare, l’adozione di questa tecnologia è avvenuta senza prima verificare
se vi possano essere delle controindicazioni sia da un punto di vista degli
effetti biologici che essa può determinare (sulla salute umana, sugli
ecosistemi, sulla biodiversità, ecc.), sia da un punto di vista degli effetti
economici che la sua applicazione può avere su sistemi produttivi agricoli
sensibili come quelli presenti nel nostro Paese. Certamente la nostra
agricoltura da sempre basata su presupposti di tipicità e di qualità non ha
bisogno dell'attuale biotecnologia, che per essere considerata sostenibile
dovrebbe avere possibilità applicative decisamente migliori.
Occorrerà
poi valutare attentamente se questi "nuovi alimenti" rispondono ad
una reale esigenza del consumatore. Soprattutto nell'attuale momento in cui
quest'ultimo tende a privilegiare la tipicità, la salubrità e, più in generale,
la naturalezza dei prodotti alimentari (il forte aumento del consumo di
produzioni biologiche ne è una conferma), si può affermare che il loro sviluppo
è sicuramente controtendenza. Una controtendenza che andrà valutata
attentamente, al fine di non impiegare risorse e capacità umane nello sviluppo
di produzioni delle quali, per il momento, non abbiamo una reale necessità.
In
definitiva, compito dell’attuale generazione, se veramente crede che questa
tecnologia possa essere determinante per lo sviluppo sostenibile, è quello di
fugare ogni dubbio applicativo, in ossequio al principio di precauzione,
demandandone l’applicazione in campo aperto alle future generazioni.