Per alcuni Paesi la coltivazione di
Organismi Transgenici (OT, OGM) è già una realtà. In questi Paesi, infatti,
vige il concetto di “sostanziale equivalenza”, per cui gli alimenti ottenuti da
piante transgeniche non sono soggetti a preventive e laboriose analisi di tipo
tossicologico e possono essere venduti sul mercato insieme a quelli
convenzionali, senza nessuna etichettatura che possa eventualmente consentire
al consumatore di operare una scelta consapevole (il mais è mais, sia esso
transgenico o convenzionale), ovvero anche quella di non consumarli (in questa
situazione, di non etichettatura, i consumatori sono obbligati a consumarli
inconsapevolmente). Il fatto di considerare gli alimenti transgenici
sostanzialmente equivalenti a quelli convenzionali, ed in presenza di una unica
filiera di distribuzione senza etichettatura degli alimenti, ha determinato
un’esplosione delle superfici destinate alla coltivazione di piante
transgeniche. Infatti, in presenza di un’unica filiera, e con prezzi flettenti
dei prodotti agricoli così come si è verificato per la soia e per il mais
transgenici, è ovvio che l’agricoltore che ha voluto conservare un certo
margine di redditività dall’attività di coltivazione, è stato “costretto”,
anche suo malgrado, a seminare le cultivar caratterizzate dal minor costo di
produzione (ovvero quelle transgeniche). Ecco allora che in questi Paesi, dove
non c’è separazione tra alimento convenzionale e transgenico, l’incremento
delle superfici coltivate a OT è dovuto, non solo ed esclusivamente ad un
gradimento dell’agricoltore nei confronti di queste piante, ma anche alla
necessità da parte dello stesso di mantenere un certo margine di redditività
dall’attività agricola (è ovvio che se il prezzo del mais transgenico è uguale
a quello del mais convenzionale, l’agricoltore sceglierà di coltivare quello
caratterizzato dal minor costo di produzione, ovvero quello transgenico).
Da rilevare che in questi Paesi, dove non c’è separazione di filiera, a
distanza di una ventina di anni dall’introduzione in campo aperto di piante
transgeniche, numerosi effetti agronomici negativi, preventivati a suo tempo da
alcuni studiosi, si sono, purtroppo, manifestati, vanificando in parte gli
effetti miracolosi previsti da altri studiosi. Tali effetti, che saranno di
seguito descritti, sono stati per la gran parte osservati anche da ricercatori
indipendenti di Università americane, che hanno voluto indagare sulle reali
capacità produttive a agronomiche di queste piante.
Relativamente alle piante resistenti
ai diserbanti totali, esse dovevano rappresentare lo
strumento in grado di semplificare decisamente le pratiche agronomiche: un
unico trattamento diserbante per liberare il campo coltivato da tutte le erbe
infestanti. Purtroppo, la realtà è un’altra, in quanto:
- l’utilizzazione
continua sullo stesso campo coltivato dello stesso diserbante, dello stesso
disseccante, ha determinato la selezione delle piante infestanti che sono geneticamente
resistenti al diserbante, per cui dopo alcuni anni esse hanno occupato la
“nicchia ecologica” lasciata libera dalle piante più sensibili al diserbante.
E’ ovvio che per controllare queste piante si è reso necessario ricorrere ad
altri diserbanti, mediante l’utilizzazione di specifiche miscele;
- le
piante parentali selvatiche hanno acquisito per impollinazione incrociata da
parte del polline transgenico, il transgene che conferisce resistenza al
diserbante, divenendo così esse stesse resistenti al diserbante o ai
diserbanti, in quanto in uno stesso Paese sono state introdotte piante della
stessa specie resistenti a tipologie diverse di diserbante;
- nel
caso in cui siano state attuate le rotazioni colturali,
le piante transgeniche coltivate in una annata agraria (per esempio colza RR o
soia RR) sono divenute esse stesse infestanti di altre piante transgeniche
coltivate in annate successive (la colza RR, nell’annata successiva alla sua
coltivazione diviene infestante della soia RR o del mais RR). Cos’è avvenuto?
Molto semplicemente durante la raccolta di piante coltivate OGM HT qualche seme
cade sempre a terra e germina nell’annata successiva. Il problema si presenta
solo nel caso in cui vengano effettuate rotazioni colturali: alla colza HT
segue la soia HT. Come potrà essere diserbato il campo coltivato se la pianta
infestante e la pianta coltivata sono resistenti allo stesso diserbante?
Come si è potuto notare, l’introduzione
delle piante transgeniche resistenti ad un diserbante totale non ha
semplificato la risoluzione del problema relativo al contenimento dei
danni causati dalle piante infestanti, anzi sotto certi punti di vista lo ha
peggiorato, in quanto ha dato origine a “nuove piante” infestanti, che
presentano delle resistenze genetiche che prima non erano presenti.
Anche le piante transgeniche
resistenti agli insetti presentano degli
inconvenienti, che hanno determinato un cambiamento nelle pratiche agronomiche
adottate nella loro coltivazione. In particolare, consapevoli del fatto che gli
insetti dopo alcune generazioni maturano una resistenza genetica alla tossina
transgenica, è stato consigliato agli agricoltori di coltivare ogni 100 ettari
di Mais BT una aliquota variabile dal 20% al 50% di Mais convenzionale (aree rifugio),
al fine di evitare la pressione selettiva di individui resistenti.
A cosa servono le “Aree Rifugio”? Sono
aree coltivate a mais convenzionale (fino al 50% della superficie coltivata a
Mais Bt se ci si trova in un’area ad alta concentrazione di coltivazioni di
mais e cotone), allo scopo di evitare che soggetti di piralide resistenti alla
proteina BT localizzati nel campo di mais BT vadano a fecondare altri soggetti
resistenti, sempre localizzati nel campo di mais BT, dando così origine ad una
progenie resistente. Il giochetto è presto spiegato: se noi accanto ad un campo
di mais BT mettiamo un campo di mais convenzionale, con ogni probabilità nel
campo di mais BT si selezioneranno insetti resistenti alla tossina BT, mentre
nel campo convenzionale ci saranno soggetti non resistenti. L’esclusiva
presenza di coltivazioni di mais BT avrebbe determinato una forte presenza di
soggetti resistenti, che incrociandosi tra di loro avrebbero dato origine ad
una progenie di insetti resistenti. Mettendo accanto al campo di mais BT
un campo di mais convenzionale, la formazione di progenie di piralide
resistente alla tossina BT è notevolmente rallentata, non evitata, in quanto
insetti resistenti provenienti dal campo di mais BT, possono fecondarsi con
soggetti non resistenti provenienti dal campo di mais convenzionale
(ovviamente, in questo modo la creazione di progenie resistenti è rallentata,
ma non evitata).
Anche in questo caso l’introduzione di
piante transgeniche resistenti agli insetti (OGM BT) non ha risolto
completamente il problema e non ha semplificato la coltivazione di queste piante.
In particolare:
- molto
spesso gli agricoltori non hanno seguito il consiglio delle ditte sementiere,
per cui non hanno messo in atto la strategie delle “aree rifugio”;
- coloro
che hanno creato le “aree rifugio” hanno dovuto adottare due specifiche
tecniche di coltivazione per lo stesso prodotto, in quanto la parte coltivata
con piante convenzionali deve essere trattata in modo diverso da quella
coltivata con piante transgeniche.
In conclusione, alle considerazioni effettuate
sulle piante transgeniche resistenti agli insetti, occorre chiedersi se quello
delle “aree rifugio” è un modello produttivo adatto all’agricoltura italiana,
che, come è risaputo, è costituita da aziende di modestissima dimensione (6-7
ettari), dove non è raro incontrare campi coltivati a mais o a soia dell’ordine
di poche decine di migliaia di metri quadrati.
Taluni studi
indipendenti effettuati da ricercatori di Università americane
avrebbero poi verificato che non è sempre vero che le piante
transgeniche producono di più. In particolare, indagini effettuate su
migliaia di ettari coltivati, hanno verificato che la soia transgenica produce
meno di quella convenzionale (dal 6% all’11% in meno), mentre si avrebbe un
aumento del 2,6% nella produzione del mais BT (non in grado di compensare
l’aumento di costo della semente transgenica, pari al 40% in più rispetto a quella
convenzionale). Tra le motivazione addotte per giustificare questo livello di
produttività, si ricordano:
- nella
trasformazione genetica sarebbero state utilizzate cultivar meno produttive;
- si
sarebbero manifestati effetti negativi metabolici nella pianta a causa della
modificazione genetica;
- vi
sarebbero stati effetti collaterali dannosi dovuti al diserbante totale;
- le
piante transgeniche sarebbero più suscettibili all’attacco di altri parassiti
(funghi, per esempio).
A proposito dell’incremento produttivo,
interessanti sono anche le affermazioni di alcuni noti genetisti agrari
italiani:
- “Le
piante transgeniche attualmente commercializzate non alzano il tetto di
produzione potenziale. A questo scopo, sarebbe necessario rimaneggiare la
pianta ex novo, non limitandosi ad introdurre singoli geni ma modificando
processi fisiologici che rappresentano il collo di bottiglia dell’aumento di
produzione.” [Gavazzi G., Università di Milano].
- “(omissis)
….. è ancora da dimostrare la superiore potenzialità produttiva delle varietà
GM rispetto alle varietà locali adattate in sistemi agricoli sfavoriti da
condizioni climatiche …… o edafiche avverse. In questo caso il miglioramento
genetico mediante la classica ibridazione intra e interspecifica seguita da
selezione, ha sempre offerto e continuerà ad offrire risultati sorprendenti ed
a costi relativamente bassi.” [Scarascia Mugnozza G.T., Università di
Viterbo].
Un decennio di coltivazione di piante
transgeniche in alcuni Paesi ha poi dimostrato che la coesistenza tra
forme di agricoltura convenzionali e transgeniche è difficile, se non
addirittura impossibile. Diffusi sono i casi di inquinamento genetico di campi
coltivati con sementi convenzionali, numerosi sono i contenziosi tra
agricoltori e ditte che hanno il brevetto su queste piante, che pretenderebbero
il pagamento delle royalty. Emblematico a questo riguardo è il caso di un agricoltore
canadese, che inconsapevolmente (probabilmente a causa di un inquinamento
accidentale della semente convenzionale o, più semplicemente, a causa del
polline trasportato dal vento), avrebbe ottenuto un prodotto in parte
transgenico dalla semina di materiale convenzionale. Con una specifica
sentenza, un giudice lo avrebbe condannato al pagamento dei danni nei confronti
di una ditta sementiera, per aver seminato materiale transgenico senza aver
pagato le relative royalty. Ovviamente non siamo in grado di entrare nel
merito della sentenza, in quanto le affermazioni dell’agricoltore potrebbero
anche non essere vere, ma il problema esiste ed è reale, in quanto, soprattutto
nel caso di piante che hanno parentali selvatiche, si pone il problema
dell’impollinazione incrociata, che potrebbe compromettere l’integrità genetica
del prodotto convenzionale ottenibile dalla semina di materiale convenzionale.
Certo è che la sentenza emessa dal giudice canadese costituisce un precedente
di una certa rilevanza, in quanto la ditta detentrice del brevetto su quella
pianta potrebbe ottenere un vantaggio da un inquinamento genetico da essa
stessa determinato, a prescindere, quindi, dalla volontà del singolo
agricoltore di intraprendere o meno quella coltivazione.
Ad aggravare la situazione relativa alla
coesistenza concorre anche l’inevitabile inquinamento genetico che può
verificarsi nelle diverse fasi della “filiera produttiva”. In particolare, al
di là del caso in cui il seme presenti anche una modesta percentuale di materiale
transgenico, la contaminazione di prodotto transgenico nei riguardi di prodotto
convenzionale potrebbe avvenire nei seguenti casi:
- durante
la fase di crescita e di maturazione delle piante, nel caso in cui le
produzioni convenzionali si trovino a confinare con produzioni transgeniche;
- durante
la raccolta, nel caso in cui siano utilizzate macchine che precedentemente
erano state utilizzate per la raccolta di prodotto transgenico;
- durante
il trasporto nel caso in cui siano utilizzati mezzi di trasporto che precedentemente
erano stati utilizzati per il trasporto di prodotto transgenico;
- durante
la conservazione del prodotto, nel caso cui siano utilizzati gli stessi
magazzini e/o gli stessi silos destinati alla conservazione di prodotto
transgenico;
- durante
i processi di lavorazione del prodotto, nel caso in cui vengano
utilizzate le stesse macchine per la lavorazione del prodotto transgenico e
quello convenzionale;
- durante
la fase di distribuzione al dettaglio, soprattutto nel caso in cui il prodotto
non sia confezionato.
Come si è potuto osservare numerose sono
le occasioni di inquinamento genetico degli alimenti, a prescindere dal fatto
che per la loro produzione sia utilizzato o meno semente inquinata da OGM. A
questo proposito, dobbiamo dire che nei Paesi che per primi hanno adottato
alimenti transgenici, il primo,
presunto, incidente alimentare causato da OGM si è già
verificato. Negli U.S.A. una partita di STARLINK,
un mais transgenico autorizzato solo per l’alimentazione animale perché
ritenuto allergenico per l’uomo, è stato erroneamente avviato all’alimentazione
umana; risultato, circa 50 persone hanno accusato malesseri che sembrano
riconducibili al consumo di questo mais e sono ricorse alle cure mediche.
Alcuni prodotti trasformati a base di mais sono stati ritirati dal mercato,
alcuni stabilimenti di lavorazione del mais hanno dovuto interrompere la
lavorazione, si sono avuti danni economici per milioni di Euro. In questa sede
non si vuole affermare che esiste certezza in merito alla contaminazione da
STARLINK, ma si vuole semplicemente evidenziare una problematica relativa alla
coesistenza e alla utilizzazione di certe tipologie di piante OGM.
A conclusione di queste brevi
considerazioni connesse alle problematiche di tipo agronomico che si sono
manifestate con l’introduzione di piante transgeniche, si vuole ribadire il
fatto che, forse, con troppa fretta si vuole introdurre una tecnologia
fortemente innovativa, che non ha ancora subito il vaglio di specifiche
ricerche, volte ad evidenziare l’impatto che essa potrebbe avere per lo
sviluppo sostenibile della nostra società. In questo contesto occorre
credere nella ricerca e affidarle il compito di fornire certezze in merito a
scelte che possono avere ripercussioni a lungo termine per il nostro sviluppo e
per lo sviluppo delle generazioni future.