In questa
sede non si vuole entrare nel merito dell’utilità del Brevetto per lo sviluppo
della nostra Società. E’ risaputo, infatti, che la tutela brevettuale può
rappresentare un incentivo allo sviluppo tecnologico e che molti prodotti di
uso comune, e quindi di elevata utilità, sono stati studiati, creati e diffusi
solo grazie alla tutela brevettuale. In particolare, il Brevetto è lo strumento giuridico che
conferisce all'autore di un'invenzione il monopolio temporaneo di sfruttamento
dell'invenzione stessa, ossia il diritto di escludere terzi dall'attuare
l'invenzione e dal trarne profitto.
Il brevetto,
pertanto, rappresenta una sorta di monopolio legale, seppur limitato
territorialmente e temporalmente. Tale monopolio legale si giustifica con il
fatto che il sistema brevettuale è basato su una forma di scambio: il titolare
del brevetto riceve protezione per la propria invenzione e in cambio è
obbligato a svelare e a descrivere l'invenzione stessa. Durante il periodo
di applicazione del Brevetto, il detentore può sfruttare economicamente la
protezione brevettuale, al fine di ottenere un ritorno economico per le spese di
ricerca e sviluppo sostenute.
In un
contesto di questo tipo si riscontrano tutti gli effetti del monopolio. In
particolare, in un primo momento il Brevetto determina una tenuta dei prezzi di
vendita del prodotto brevettato, in relazione al fatto che il monopolista è
protetto dalla Legge e può applicare o una “politica dei prezzi”, mantenendo
alti prezzi di vendita del prodotto (sarà poi la domanda ad adeguarsi a questi
prezzi) o una “politica delle quantità”, attraverso un contingentamento
volontario delle quantità immesse sul mercato (in questo caso sarà la domanda
che sulla base della quantità richiesta stabilirà il prezzo di mercato). Solo
in un secondo momento, ovvero trascorso il periodo di tutela brevettuale, la
Società otterrà reali benefici dal consumo dei beni coperti da brevetto, in
quanto si aprirà il mercato alla concorrenza, i costi di produzione scenderanno
e con loro i prezzi di mercato. A questo, e con particolare riferimento ai
brevetti in ambito agroalimentare, occorre evidenziare che per le nuove varietà
vegetali i diritti esclusivi nascenti dal brevetto durano 15 anni dalla
concessione del brevetto stesso (30 anni nel caso di piante arboree). Soprattutto
in ambito agroalimentare, è facile immaginare che dopo 15 anni quella
determinata varietà sarà obsoleta, sarà superata, per cui sarà sostituita da
un’altra varietà che a sua volta sarà tutelata dal brevetto per altri 15 anni!
E’ facilmente intuibile che in questo modo il costitutore, mediante una attenta
analisi dei tempi tecnici di introduzione di nuove cultivar, sarà in
grado di mantenere il brevetto sul seme di una determinata pianta per un tempo
illimitato.
Dobbiamo
essere convinti del fatto che l’introduzione di Organismi Transgenici (OT) in
agricoltura è fortemente correlato, se non addirittura condizionato, dalla
possibilità di brevettare il risultato della manipolazione genetica; se non ci
fosse il brevetto, con ogni probabilità, non ci sarebbero nemmeno OT e
oggigiorno, forse, non si parlerebbe di questo argomento. Relativamente alla
tutela brevettale delle innovazioni tecnologiche, ciò che lascia maggiormente
perplessi è l’utilizzazione del brevetto in ambito agricolo, soprattutto nel
caso in cui riguardi piante o animali di fondamentale importanza per
l’alimentazione umana. Nella fattispecie, non stiamo parlando di una funzione
fisiologica della quale ognuno di noi, volendo, potrebbe farne a meno; stiamo
parlando di alimentazione, un’azione che bene o male ognuno di noi deve
compiere obbligatoriamente almeno tre volte al giorno. Sono queste
considerazioni che differenziano sostanzialmente i brevetti su materiale
elettronico o su capi di abbigliamento, da quelli su piante ed animali ad uso
alimentare, in quanto essi potrebbero mettere in discussione anche la sovranità
alimentare di un Paese. E di questo, ovviamente, si sono accorte le grandi
multinazionali del seme, che stanno facendo di tutto per ottenere il monopolio
nella produzione e nella distribuzione del seme, poiché non si tratta del solo
seme, ma anche di tutto ciò che è possibile trovare a monte e a valle della
produzione del cibo. In particolare, alcune domande sullo sfruttamento del
brevetto esigono una risposta prima di adottare piante ed animali transgenici
in agricoltura:
- esistono delle limitazioni allo
sfruttamento economico del brevetto?
- chi decide in merito alla qualità
dell’alimento?
- il detentore del brevetto potrà
modificare a suo piacimento le caratteristiche intrinseche del prodotto
alimentare?
- come potranno essere modificate le
caratteristiche nutrizionali?
- il detentore del brevetto potrà
modificare a suo piacimento il legame esistente tra qualità del prodotto e
luogo di produzione?
- da un punto di vista etico, sarà tutto
consentito o vi saranno delle limitazioni?
In questa
sede non si vuole affrontare la problematica, tutta ancora da chiarire,
relativa alla liceità o meno dell’utilizzazione del brevetto per affermare un
diritto privato di proprietà su piante ed animali, ma si vogliono
esclusivamente evidenziare gli effetti che l’applicazione della tutela
brevettuale potrebbe avere sul settore agricolo nazionale. Cosa significa
"brevetto" per il settore agricolo italiano e, in particolare, quali
effetti potrebbe avere per il reddito dell’agricoltore?
In primo
luogo, il brevetto sulle piante e sugli animali contribuirà ad aumentare la
dipendenza economica del settore agricolo nei confronti di quello industriale,
in quanto l'agricoltore sarà costretto ad acquistare tutti gli anni la semente
che intende coltivare o l’animale che intende allevare. Qualcuno potrebbe far
rilevare che, di fatto, questo già accade per la gran parte delle sementi oggi
coltivate. Vero! Nel caso degli OT, a parte la situazione di monopolio che si
verrebbe a determinare, il brevetto significa qualcosa di più, in quanto
l’agricoltore, oltre all’acquisto delle sementi, potrebbe essere “obbligato” ad
acquistare anche la materia prima in grado di far produrre queste sementi (è il
caso delle piante di soia e di mais resistenti ad uno specifico diserbante). In
futuro il problema potrebbe essere amplificato dal fatto che le ditte che
propongono questi nuovi organismi, per proteggersi dall’utilizzazione illecita
di sementi brevettate, potrebbero inserire geni che consentono la germinazione
del seme solo nel caso di contemporanea presenza di una sostanza particolare,
che sarà venduta insieme alla semente. Se sarà vero poi, come ovviamente si
spera, che questi nuovi organismi non avranno alcun effetto sulla salute umana
e sull’ambiente, occorrerà considerare che la loro completa accettazione da
parte del mercato (presenza di una sola filiera di distribuzione, assenza
di etichettatura obbligatoria dei prodotti OGM, ecc.) determinerà un forte
vantaggio competitivo per le ditte sementiere, con creazione di un mercato in
condizioni di monopolio o “quasi monopolio”. Si verrebbe a determinare ciò che,
di fatto, è già avvenuto nei Paesi dove si registra un’accettazione
incondizionata di questi nuovi alimenti: la presenza di un’unica filiera di
distribuzione (per esempio per il mais significa un unico prezzo di mercato),
associata ad una diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti transgenici, ha
determinato un’esplosione delle superfici coltivate con questi nuovi organismi.
In pratica, cos’è accaduto? Il minor costo di produzione delle coltivazioni
transgeniche ha determinato un abbassamento dei prezzi di mercato dei relativi
prodotti, siano essi transgenici e non. Pertanto, anche gli agricoltori che in
un primo momento non volevano coltivare transgenico sono stati costretti a
farlo dal mercato, se volevano mantenere un certo grado di redditività
dall’attività agricola.
Da un punto
di vista della sfruttabilità economica, il detentore del brevetto potrebbe
limitarsi a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di
semente venduta, lasciando libertà di scelta all’agricoltore in merito alle
diverse opportunità di vendita sul mercato del prodotto ottenuto. Tale somma di
denaro potrebbe essere vista come il giusto compenso per colui che ha investito
in ricerca e sviluppo ed è riuscito ad ottenere una pianta caratterizzata da un
surplus di utilità per l’agricoltore e per il consumatore. Occorre comunque
rilevare che, soprattutto nel caso in cui il mercato della semente sia in
condizioni di monopolio, a differenza di quanto precedentemente affermato,
l’imposizione di una royalty sulla semente potrebbe limitare il processo di
riduzione dei costi di produzione, in quanto il monopolista, con ogni probabilità,
sarà portato ad aumentare il prezzo di vendita della semente di
un’aliquota prossima al maggior margine che essa sarà in grado di
determinare al produttore agricolo, con annullamento dei potenziali vantaggi
economici per il coltivatore e, conseguentemente, per il consumatore (in
pratica se la semente transgenica determina una diminuzione dei costi di 100
€/ha, il monopolista della semente potrebbe far pagare la semente 99 € in più
ed accaparrarsi tutto il vantaggio). Pertanto, il brevetto potrebbe impedire
l’attesa riduzione dei prezzi di mercato dei prodotti alimentari, annullando
così anche l’auspicato ampliamento delle possibilità di acquisto di cibo da
parte delle classi sociali economicamente più deboli (quelle classi sociali che
in molti Paesi soffrono la fame perché non dispongono del reddito necessario
per acquistare il cibo).
Rispetto alla
situazione precedente, il detentore del brevetto potrebbe andare oltre. In
particolare, oltre a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo
di semente venduta, potrebbe richiedere una royalty anche per ogni chilogrammo
di prodotto ottenuto da quella semente. Il brevetto in questo caso porterebbe
grandi vantaggi a colui che ne detiene la proprietà e trasformerebbe
l’agricoltore in un “dipendente” della stessa ditta proprietaria del seme, in
quanto più l’agricoltore produce e più questa ditta guadagna.
Il detentore
del brevetto potrebbe non accontentarsi e potrebbe riservarsi anche la
proprietà della produzione finale, attuando la produzione per conto proprio,
sulla base di un rapporto contrattuale con l’agricoltore. Trattasi di
modalità di produzione che già avvengono in agricoltura (contratti di soccida) e
che sarebbero amplificate dalla presenza di un forte ricorso al brevetto. In
particolare, colui che detiene il brevetto non venderebbe la semente sul
mercato e potrebbe sottoscrivere con l’agricoltore un “contratto di
coltivazione”, nel quale sono indicate le epoche di semina, le modalità di
coltivazione e quant’altro serve per portare a termine il processo produttivo,
riservandosi la proprietà del prodotto una volta giunto a maturazione.
Ovviamente per l’attività prestata l’agricoltore riceverà un compenso, che sarà
commisurato all’impegno richiesto in termini di apporto di fattori della
produzione (terra, lavoro, capitale). In una situazione come quella
evidenziata, l’agricoltore non avrebbe alcun potere contrattuale, per cui la
presenza di un unico detentore della semente, associata al fatto che i
coltivatori non sono in grado di manifestare un’unica controparte, li
metterebbe tra loro in concorrenza per l’acquisizione della commessa di
coltivazione. E’ facilmente intuibile che in questa situazione si
determinerebbe una tendenza verso il basso del compenso relativo allo
svolgimento dell’attività agricola, in quanto, nel peggiore dei casi per la
nostra agricoltura, colui che possiede il brevetto potrebbe trovare in altri
Paesi migliori condizioni contrattuali per attuare il processo produttivo
agricolo.
Ma il grande salto di qualità per le ditte
che detengono il brevetto, potrà essere ottenuto allorquando la manipolazione
genetica sulle piante consentirà di sfruttare l’”apomissia”, ovvero la
possibilità di originare piante identiche alla madre anche nel caso di
riproduzione sessuata. In particolare, lo sfruttamento dell’”apomissia”
consentirà alle ditte sementiere di evitare la produzione e la
successiva commercializzazione del seme, mantenendo comunque la possibilità di
ricavare le royalty dal seme e dalla produzione di cibo; il seme una volta distribuito
sarà annualmente prodotto autonomamente dall’azienda agricola, la quale,
mediante un apposito contratto di sfruttamento della semente, sarà tenuta a
pagare le royalty al detentore del brevetto, ogni qual volta utilizzerà le
sementi apomittiche per una nuova semina. L’”apomissia” semplificherà
notevolmente la vita al detentore del brevetto, che dovrà attuare un’unica
operazione: distribuire una sola volta la semente e incassare le royalty ogni
volta che il seme viene seminato ed il cibo viene prodotto. Qualcuno afferma
che questo scenario è irrealizzabile, in quanto alle ditte sementiere non
converrebbe mettere sul mercato una semente apomittica, poiché lieviterebbero
le frodi e occorrerebbe mettere in atto un sistema di vigilanza decisamente
costoso. Purtroppo queste affermazioni si scontrano con la realtà, in quanto le
grandi multinazionali del seme stanno cercando di evitare questo inconveniente
mediante la creazione di una “Apomissia inducibile chimicamente”. In pratica,
che cosa accade? Accade che la semente apomittica germina ed origina una pianta
identica alla madre solo in presenza di una sostanza chimica che sarà venduta a
parte. Da rilevare che tutto questo non è fantascienza, in quanto il brevetto
sull’”Apomissia inducibile” è già stato richiesto
Il brevetto su una pianta potrebbe
consentire ai Paesi che ne detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in
località prossime ai mercati di collocamento, rendendo così competitive
produzioni che attualmente sono penalizzate dagli elevati costi di trasporto/commercializzazione,
evitando nel contempo le problematiche ambientali che queste coltivazioni
potrebbero comportare se fossero attuate sul loro territorio. Per alcune
produzioni questo già avviene. Cos’è accaduto? Alcuni Paesi, vuoi perché non
hanno condizioni pedoclimatiche favorevoli, vuoi perché non sarebbero
concorrenziali sul nostro mercato a causa degli elevati costi di trasporto,
stanno producendo sul nostro territorio su base contrattuale alcuni prodotti
dei quali detengono il brevetto; tali prodotti al momento della raccolta
diverranno di loro proprietà. Ecco che in questo modo qualsiasi Paese, anche
senza alcuna vocazionalità produttiva, e, al limite, senza disponibilità di
territorio agricolo, di strutture e di competenze agricole specifiche, potrebbe
divenire un protagonista nel mercato del cibo; la produzione sarebbe attuata
nel nostro Paese per conto terzi, ovvero per conto di colui che ha il brevetto
del materiale di propagazione, che si approprierà del valore aggiunto di questa
coltivazione.
Gli esempi
precedenti, costituiscono per il nostro Paese un vantaggio o uno svantaggio? Si
adattano a tutte le coltivazioni o solo a quelle brevettate? E il consumatore
otterrà dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre rispondere a queste domande
prima di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi controproducenti per
il nostro Paese.
A conclusione
di quanto precedentemente esposto, è possibile affermare che il brevetto su
piante ed animali transgenici sarà in grado di sconvolgere il modo di produrre
in agricoltura. Lo scenario sarà quello di un settore in cui l’agricoltore avrà
perso ogni potere decisionale; egli diverrà semplicemente un fornitore di mezzi
di produzione a favore di colui che detiene il brevetto di quel prodotto, che
diverrà anche proprietario del cibo. Cibo che potrà essere ottenuto in ogni
parte del Globo, non importa con quale materiale genetico, non importa con
quale tecnica di produzione, non importa con quali tutele sociali. Tutto questo
comporterà la realizzazione di un grande mercato mondiale dei prodotti
alimentari, un mercato dove l’imperativo sarà produrre di tutto ovunque, ai più
bassi costi possibili, per poi vendere il prodotto laddove ci sono i mezzi
economici per acquistarlo.