Secondo le ultime indagini
di mercato i ¾ degli intervistati avrebbe affermato di non voler acquistare
e di non voler consumare cibo proveniente da piante OGM. Trattasi di una
affermazione che evidenzia una certa disinformazione del consumatore, poiché è
risaputo che tutti quanti noi, inconsapevolmente, mangiamo OGM tutte le volte
che ci alimentiamo con prodotti derivati dall’allevamento animale (latte,
carne, uova, ecc.), poiché nell’allevamento animale i mangimi
OGM sono utilizzati in grande quantità e la Legge non prevede l’etichettatura
dei derivati ottenuti dall’allevamento zootecnico.
Occorre
comunque rilevare che in un momento in cui non sono ancora chiari gli effetti
degli Organismi Transgenici (OT) sulla salute umana e sull’ambiente, è
recentissima una ricerca
francese che sembra mettere in dubbio le proprietà salutistiche degli OGM, il consumatore potrebbe affrontare
una certa dose di rischio nel consumo di Cibi Transgenici (CT) nel caso in cui essi
comportassero vantaggi economici e non soltanto economici. In
particolare, nel caso in cui:
1) i CT avessero le stesse
caratteristiche qualitative di quelli convenzionali ed avessero un prezzo di
acquisto inferiore;
2) i CT avessero lo stesso prezzo di
acquisto di quelli convenzionali, ma offrissero migliori caratteristiche
qualitative;
3) i CT aumentassero la variabilità
degli alimenti presenti sul mercato;
4) i CT aumentassero la sicurezza
alimentare;
5) i CT aumentassero la sicurezza
ambientale;
6) i CT fossero in grado di risolvere
i problemi della fame nel mondo;
7) i CT consentissero di diminuire le
differenze sociali tra le diverse persone.
1. - A proposito di
medesime caratteristiche qualitative e minori prezzi
Da un punto di vista
strettamente economico il consumatore tende sempre più a risparmiare nelle
operazioni di acquisto dei singoli beni, al fine di poter aumentare, con lo
stesso reddito, i consumi totali. Pertanto, non vi è alcun dubbio sul fatto che
egli potrebbe rivolgere l’attenzione verso i CT se, rispetto a quelli
convenzionali, essi avessero le stesse caratteristiche organolettiche ed
avessero un prezzo di acquisto inferiore.
Relativamente alle
caratteristiche organolettiche, occorre, però, evidenziare che l’equivalenza
qualitativa tra l’alimento transgenico e quello convenzionale è ancora tutta da
dimostrare, in quanto il CT contiene sia il transgene o i transgeni, sia la
proteina o le proteine espressione del transgene. Si aggiunga poi
che alcuni studi avrebbero evidenziato caratteristiche nutrizionali sensibilmente
diverse tra il prodotto OGM e il suo omologo convenzionale. Così, per esempio, secondo
specifiche ricerche, il mais BT avrebbe un maggior contenuto di
lignina rispetto al mais convenzionale, mentre il pomodoro arricchito di
Vitamina A avrebbe un minor
contenuto di licopene. In particolare, l'introduzione del transgene sembra cambiare
il metabolismo della pianta, cambiando così le caratteristiche finali della
pianta stessa. Ci sarebbero degli effetti a cascata dei quali ha parlato anche
il prof. Dulbecco.
Non v'è dubbio che, a
parità di qualità, nel caso in cui si verificasse una reale contrazione dei
prezzi dei beni alimentari, si potrebbe determinare un incremento di benessere per
la società, in relazione alla possibilità di consentire alle popolazioni più
povere di poter acquistare una maggior quantità di beni necessari a soddisfare
il loro fabbisogno alimentare e alla possibilità da parte dei consumatori dei
Paesi ricchi di risparmiare nell'acquisto di alimenti, per poi destinare la
restante parte del loro reddito ad altri consumi di livello superiore.
Da
rilevare, però, che nel caso di prezzi di vendita inferiori rispetto a quelli
convenzionali, ma in presenza di incertezze in merito alle caratteristiche
qualitative, il consumatore pagherà meno questi alimenti, ma gli rimarrà
comunque l'incertezza sulle loro reali capacità nutrizionali. Tale incertezza
determina una diminuzione del grado di soddisfacimento dei bisogni, in quanto
l'eventuale minor prezzo di acquisto dei CT, potrebbe essere visto come un
vantaggio virtuale, non reale, caratterizzato da un livello di utilità
inferiore rispetto a quello che avrebbe ottenuto dal consumo di cibi dei quali
conosce le reali proprietà organolettiche e nutrizionali (costa meno, ma
probabilmente vale anche meno!!). Non si spiegherebbe altrimenti il forte
aumento del consumo di prodotti biologici e dei prodotti tipici che si è
verificato negli ultimi anni (il consumatore paga di più un prodotto che
secondo il suo giudizio è caratterizzato da una maggior utilità e che,
pertanto, ritiene maggiormente idoneo a soddisfare i suoi bisogni, che,
oggigiorno, fanno riferimento alla qualità, alla genuinità, alla sicurezza
alimentare e alla tracciabilità).
A conclusione di queste
considerazioni relative all’ipotesi che il consumatore possa ottenere dei
benefici dalla riduzione dei prezzi dei prodotti alimentari transgenici,
occorre rilevare che nella realtà i fatti dimostrano il contrario, ovvero che
l’introduzione di alimenti transgenici non ha portato ad una riduzione dei
prezzi dei rispettivi prodotti, ma ha determinato un aumento dei prezzi dei
corrispondenti prodotti “non transgenici”. Tale effetto, sotto molti punti
di vista paradossale, è dovuto al fatto che nei Paesi dove lo scetticismo nei
confronti di questi alimenti è maggiore, sono state create due filiere per il
medesimo prodotto: una per quello transgenico, e una per quello non
transgenico. Questa suddivisione, effettuata al fine di consentire al
consumatore di operare una scelta di acquisto consapevole, comporta dei costi
di distribuzione (di segregazione, di conservazione, di lavorazione, di
etichettatura, di analisi, ecc.), che riducono sensibilmente i vantaggi
economici ottenibili durante la fase di produzione agricola. E’ ovvio che
l’aumento del prezzo andrà a ripercuotersi sul consumatore, il quale già ora è
costretto a spendere di più (per acquistare i tradizionali prodotti non
transgenici) per la sola ragione che qualcuno ha voluto introdurre questi nuovi
alimenti, senza affrontare preventivamente le problematiche economiche e
sociali ad essi connesse (secondo informazioni assunte presso operatori del
settore, per avere soia certificata “GMO free” occorre pagare una maggiorazione
del 15% circa).
In questo contesto, in cui i prezzi degli alimenti transgenici non sono
sostanzialmente inferiori a quelli dell'omologo prodotto convenzionale, non si
capisce perché mai il consumatore dovrebbe sostituire un alimento tradizionale,
che da sempre fa parte della sua alimentazione e che ha dato dimostrazione nel
tempo di essere sicuro, con un alimento che presenta, anche solo
potenzialmente, dei rischi per la sua salute, per quella delle generazioni
future e per l'ambiente.
E’
necessario che la ricerca chiarisca questi dubbi prima di adottare CT per
l’alimentazione umana.
In
presenza di incertezza in merito alle caratteristiche qualitative degli
alimenti transgenici, il consumatore potrebbe essere disposto a correre qualche
rischio nel loro consumo se, a parità
di prezzo di acquisto rispetto a quelli convenzionali, essi manifestassero
migliori caratteristiche qualitative (nutrizionali, di modalità di consumo, di
reperibilità ecc.).
Economicamente
parlando si tratta di una situazione che difficilmente potrà verificarsi, in
quanto se il nuovo alimento avrà caratteristiche qualitative superiori a quello
convenzionale, difficilmente in un medesimo mercato potrà avere lo stesso
prezzo; sicuramente avrà un prezzo superiore, che terrà conto dell’elemento
differenziale.
A proposito di miglioramento qualitativo, occorre rilevare, però, che al
momento attuale la ricerca ha lavorato solo ed esclusivamente alla creazione di
piante semplici da ottenere (pochi geni specifici) e in grado di massimizzare i
profitti delle imprese che detengono il brevetto su questi vegetali (piante resistenti
ai diserbanti, agli attacchi di insetti, ecc.). Il consumatore finora non ha
ottenuto alcun vantaggio da questi prodotti, in quanto ai fini nutrizionali
essi non comportano nessun beneficio rispetto a quelli non modificati.
Purtroppo, dai primi elementi a disposizione sembra anche che questi nuovi
alimenti non siano migliori da un punto di vista organolettico rispetto a
quelli già presenti sul mercato (il pomodoro che non marcisce, al di là dei
problemi legati ai maggiori costi di produzione, è stato eliminato dal mercato
per il consumo allo stato fresco, in quanto sembra che avesse un forte sapore
metallico). Va detto, però, che siamo alle prime applicazioni e che le piante
transgeniche attualmente coltivate sono destinate per la gran parte alla produzione
di alimenti per il bestiame e di derivati industriali di prima trasformazione,
per cui è estremamente difficile esprimere un giudizio razionale e oggettivo
sulle loro caratteristiche qualitative.
3. – A proposito di
aumento della variabilità alimentare
Il
consumatore potrebbe accettare i CT nel caso in cui essi aumentassero la
variabilità degli alimenti presenti sul mercato, al fine di avere a
disposizione una maggior scelta di cibi e, quindi, una maggior variabilità
nutrizionale. A questo proposito occorre rilevare che, al contrario,
l’introduzione di OT determinerà con ogni probabilità una riduzione della
variabilità genetica e, conseguentemente, una perdita in termini di variabilità
nutrizionale. Tale situazione sarà determinata dal fatto che le poche piante
trasformate (da un punto di vista economico ai costitutori non conviene
ampliare la gamma delle piante “brevettate” di una stessa specie, in quanto
costerebbe molto ottenerle e sarebbero tra loro concorrenti sullo stesso
mercato), in relazione all’automazione del processo produttivo che metteranno
in atto, saranno utilizzate su vasta scala dagli agricoltori. In questa
situazione, anche le piante migliori da un punto di vista di talune
caratteristiche qualitative (cultivar locali, cultivar con sapori particolari o
con contenuti nutrizionali particolari, cultivar resistenti alle malattie,
ecc.) potrebbero essere sostituite da quelle transgeniche. Un primo esempio di
questa evoluzione l’abbiamo avuto dalla fortissima espansione
delle superfici coltivate a mais e soia transgeniche negli U.S.A, in Canada
e in Argentina. In pochi anni, in relazione al fatto che non essendoci
segregazione di filiera (in questi Paesi il prezzo di mercato della materia
prima transgenica e convenzionale è uguale) il prezzo di mercato del mais
e della soia è determinato dal minor costo di produzione delle piante
transgeniche, gli agricoltori, al fine di mantenere un certo margine di
redditività dall’attività di coltivazione, sono stati “obbligati” (ovviamente
dal mercato) a sostituire le cultivar convenzionali (non più competitive da un
punto di vista dei redditi) con quelle transgeniche. Pertanto, l’introduzione
di piante transgeniche, soprattutto nel caso in cui non vi sia segregazione di
filiera con l’analogo prodotto non transgenico, determina un percorso obbligato
anche per l’agricoltore che non vuole coltivare queste piante. Egli sarà
“costretto” a coltivare queste piante se vorrà mantenere una certa
redditività dall’attività agricola, poiché non potrà coltivare ai costi
del convenzionale (più alti) per poi vendere ai prezzi del transgenico (più
bassi).
La
perdita di variabilità qualitativa determinerà poi una modificazione e una
omologazione dei gusti del consumatore, che non sarà più in grado di
distinguere i sapori tradizionali (i relativi alimenti saranno più rari e con
ogni probabilità con un prezzo superiore), dai sapori tecnologici (alimenti
maggiormente diffusi e con prezzi, forse, inferiori). Del resto la
globalizzazione dei mercati svolge in questo senso un ruolo trainante, in
quanto i sapori sono legati ai luoghi di produzione con le relative cultivar
locali e rappresentano un limite alla globalizzazione delle aree di produzione.
A
conclusione di queste poche considerazioni, occorre rilevare che il giudizio
qualitativo è sempre un fatto soggettivo, per cui è difficile affermare che
l’introduzione di un gene che aumenta il grado zuccherino o impedisce la
maturazione rappresenti un miglioramento o un peggioramento qualitativo: il
giudizio è sempre personale, legato a gusti e ad abitudini alimentari
consolidate nel tempo. In questo contesto occorre soprattutto preservare il
diritto fondamentale del consumatore di poter scegliere consapevolmente il cibo
che intende acquistare. Da questo punto di vista l’etichettatura appare
elemento di primaria importanza. Deve, però, essere un’etichettatura semplice,
chiara e non fuorviante e, soprattutto, deve essere data la possibilità al
consumatore di acquistare cibo sicuramente non transgenico, senza alcuna soglia
di tolleranza.
4. – A proposito di sicurezza
alimentare
I
sostenitori dei CT affermano che essi aumenteranno la sicurezza alimentare, in
quanto le piante saranno più sane e presenteranno una minor quantità di micotossine.
Trattasi di un elemento importante da tenere nella dovuta considerazione,
allorchè si tratterà di valutare rischi e benefici del CT. Purtroppo, però,
anche nel caso delle produzioni transgeniche, così come per altri prodotti che
non hanno mai fatto parte della nostra dieta, ci troviamo di fronte a nuovi
alimenti dei quali non sono ancora conosciuti gli effetti sulla salute umana.
Che qualche rischio sia presente lo possiamo rilevare dal fatto che la
legislazione comunitaria ha vietato l’impiego di OT per la produzione di
alimenti destinati alla nutrizione dei lattanti e dei bambini al di sotto dei
tre anni e che le compagnie di assicurazione si rifiutino di stipulare
contratti nei confronti dei rischi da OT.
Le
incertezze nutrizionali per i consumatori aumenteranno poi quando saranno
introdotti gli OT
di seconda generazione, ovvero quelli che presentano un “arricchimento” in
termini di vitamine e/o di proteine, ecc. (cibi arricchiti, cibi funzionali,
nutraceutici, ecc.). Tale affermazione è supportata dal fatto che essi
esteriormente sono identici a quelli convenzionali, per cui potrebbe accadere
che al consumatore possano essere venduti come alimenti non transgenici,
alimenti transgenici “arricchiti”. Trattasi di un aspetto molto importante, in
quanto, per esempio, nel caso di alimenti che contengono più vitamine, sappiamo
che è dannoso per la salute umana sia una carenza di vitamine, sia un eccesso
delle stesse (soprattutto le liposolubili). Pertanto questi prodotti dovranno
essere segregati da quelli convenzionali e venduti sotto stretto controllo.
A
proposito delle precedenti affermazioni, dobbiamo dire che il primo incidente
alimentare causato da OT si è già verificato. Negli U.S.A. una partita di
STARLINK, un mais transgenico autorizzato solo per l’alimentazione animale, è
stato erroneamente avviato all’alimentazione umana; risultato, circa 50 persone
hanno accusato malesseri e sono ricorse alle cure mediche, alcuni prodotti
trasformati a base di mais sono stati ritirati dal mercato, alcuni stabilimenti
di lavorazione del mais hanno dovuto interrompere la lavorazione, si sono avuti
danni economici per milioni di euro.
Pertanto
il problema della rintracciabilità e dell’etichettatura dei prodotti
transgenici è un elemento da non sottovalutare, in quanto sempre più
frequentemente il consumatore vorrà conoscere l’origine ed il percorso
produttivo e commerciale del prodotto che intende acquistare.
Tra
gli altri elementi che inducono a pensare che vi possa essere qualche altra
probabilità di rischio per la salute si ricordano:
- gli effetti allergici che possono
essere provocati da talune sostanze presenti nell’alimento transgenico e
normalmente assenti nell’alimento convenzionale;
- il passaggio del gene che codifica
per la resistenza ad alcuni antibiotici (utilizzato durante la fase di
creazione dell’OT) alla flora batterica intestinale e da questa ad alcuni
batteri patogeni che diventerebbero essi stessi resistenti all’antibiotico;
- gli effetti e le interazioni dovuti
alla presenza della proteina espressione del transgene che è stato introdotto e
che si trova nell’alimento;
- gli effetti e le interazioni dovuti
alla presenza del transgene introdotto e che si trova nell’alimento;
- gli effetti prodotti dai promotori
e dai terminatori sull’alimento e sull’ambiente.
Molto
difficile è risolvere il problema delle allergie, in quanto anche una minima
parte della popolazione che si nutre di questi alimenti potrebbe, senza esserne
a conoscenza, risultare allergica a quella particolare proteina e avere quindi
delle conseguenze sulla salute (anche senza arrivare allo shock anafilattico).
Ancora
una volta di estrema importanza è lo sviluppo della ricerca in merito agli
effetti sulla salute e sull’ambiente degli OT e l’etichettatura di questi
prodotti, al fine di consentire al consumatore una scelta consapevole.
5. – A proposito di
sicurezza ambientale
Il
consumatore potrebbe correre qualche rischio nel consumare CT, nel caso in cui
essi fossero prodotti con un minor impatto sull’ambiente e fossero in grado di
aumentare la sicurezza ambientale. In particolare, la coltivazione di OT
resistenti alle più svariate patologie, potrebbe sicuramente contribuire alla
diminuzione degli effetti negativi prodotti dall'utilizzazione in agricoltura
convenzionale di taluni formulati chimici.
Trattasi
di un elemento di estrema importanza, poiché questi effetti sono per lo più di
tipo diffuso, difficilmente controllabili con progetti puntuali sul territorio
(filtri, depuratori ecc.). Anche in questo caso, però, i ricercatori non hanno
fatto i conti con la complessità del “sistema naturale”, in quanto specifiche
ricerche hanno verificato che, col tempo, gli insetti, ma così anche i patogeni
vegetali, maturano
una naturale resistenza genetica, per cui si creano generazioni di insetti
resistenti alla tossina (sembra ogni 4-5 anni per la piralide), mentre le
piante infestanti possono divenire geneticamente
resistenti al diserbante o acquisire, mediante impollinazione incrociata,
il gene di resistenza all’erbicida, vanificando così, di fatto, gli sforzi
operati per rendere resistenti al diserbante soltanto le piante coltivate
(secondo taluni autori, nei Paesi che per primi hanno introdotto OT esistono
già piante infestanti resistenti al ROUNDOP).
Da
queste semplici considerazioni risulta evidente che la trasformazione genetica
non è in grado di risolvere il problema, in quanto dopo pochi anni esso si
ripresenta nella medesima condizione, se non addirittura in termini peggiori,
in quanto l’insetto o la pianta infestante da controllare sarà caratterizzata
da una maggior variabilità genetica e, quindi, sarà ancor più difficile da
contenere (di tale eventualità non saranno certo entusiasti i coltivatori biologici,
che si troveranno a dover contrastare senza mezzi chimici di sintesi insetti
con patrimoni genetici diversi e, quindi, caratterizzati da una maggior
virulenza).
Da
un punto di vista ambientale il problema di maggior rilievo è quello relativo
all’inquinamento
genetico. Questi OT, infatti, hanno i transgeni contenuti nel nucleo per
cui si esprimono in ogni parte della pianta, anche nel polline (è già disponibile una
tecnologia che consentirebbe di inserire il transgene nei cloroplasti ed
eliminerebbe questo problema, ma non è ancora applicata), che, ovviamente, si
disperde nell’ambiente mediante il vento e gli insetti. Il polline di OT,
quindi, può fecondare piante parentali selvatiche non transgeniche (colza RR e
senape selvatica per esempiuo), che darebbero così origine a semi che
contengono il transgene. Ovviamente in un’annata successiva, anche nel caso in
cui decidessimo di non coltivare queste piante, il transgene potrebbe passare
dalle piante parentali selvatiche a quelle coltivate e via di seguito. Così il
transgene potrebbe autonomamente replicarsi senza l’ausilio dell’uomo.
In relazione alla diffusione aerea del polline, andrebbero verificate anche le
possibilità di inquinamento genetico delle coltivazioni convenzionali attuate
in prossimità di coltivazioni transgeniche (problematica
della coesistenza). Quali conseguenze si avranno per le colture tipiche che
non prevedono nel loro disciplinare di produzione la possibilità di utilizzare
individui transgenici? Quali conseguenze si avranno per le produzioni
biologiche che bandiscono completamente l’utilizzo agricolo e zootecnico degli
OT? Chi sarà responsabile dei danni economici prodotti? Quali e quanti
contenziosi si apriranno?
In
merito alle piante transgeniche resistenti ai patogeni, siano essi animali o
vegetali, è già stato verificato che col tempo si potrebbe avere una naturale
selezione genetica di insetti e di piante infestanti resistenti. Cosa accadrà
quando questi insetti o queste piante divenute resistenti inizieranno a
produrre danni? Fondamentalmente si potrà andare in due direzioni:
-
introduzione nella medesima pianta transgenica di altri geni in grado di
renderla di nuovo resistente ai patogeni (ed è la strada che potrebbe
essere perseguita, al fine di brevettare ogni 5-6 anni una nuova pianta
transgencia e consolidare così la dipendenza dell’agricoltore dall’industria
sementiera per l’acquisto dei semi);
-
studio e produzione di specifici formulati chimici in grado di eliminare
l’antagonista (nuovi antiparassitari, nuovi diserbanti ecc.).
Nessuna
delle due soluzioni appare sostenibile,
in quanto nel primo caso, col tempo, avremmo una proliferazione di geni
estranei contenuti nella medesima pianta (quando nella stessa pianta i
transgeni saranno 10, 20 o 1.000 sarà ottenuto lo stesso cibo o qualcosa di
diverso?), mentre nel secondo caso ci troveremmo dopo pochi anni nella
situazione di partenza, ovvero ad un punto in cui sarà necessario studiare e
applicare nuovi formulati chimici per “controllare” le generazioni di insetti
resistenti.
Per
quanto attiene specificamente alle piante resistenti agli insetti, occorre poi
considerare che la proteina insetticida sembra non si limiti a contenere gli
attacchi degli insetti "bersaglio" dannosi, ma potrebbe colpire
indiscriminatamente anche altri insetti, alcuni dei quali svolgono funzioni
utili per la produttività della stessa pianta (impollinazione, per esempio) o
funzioni diverse nel terreno. Trattasi di un elemento di estrema importanza, da
tenere nella dovuta considerazione, in quanto potrebbe portare alla riduzione
o, addirittura, all’eliminazione di alcune specie di insetti che svolgono il
loro ruolo all’interno della catena alimentare. Cosa accadrà, quando il
transgene che produce la proteina insetticida si trasferirà in altre piante
selvatiche parentali? Quali insetti saranno eliminati da questa proteina? Quali
effetti vi potranno essere per gli altri animali che fanno parte della medesima
catena alimentare? Occorre dare una risposta a queste domande prima di
immettere deliberatamente nell’ambiente piante transgeniche.
6. – A proposito di fame
nel mondo
In
questa situazione, occorrerà verificare anche la possibilità che la
coltivazione di OT possa addirittura aggravare i problemi di sottoalimentazione
di determinate aree del pianeta. Tale situazione potrebbe essere determinata
dalla lievitazione dei prezzi interni del cibo, in relazione all’aumento delle
esportazioni.
Eliminazione
della fame nel mondo significa sicuramente produrre maggiori quantità di cibo,
ma significa anche modificare le abitudini alimentari dei Paesi ricchi, che in
nome della fettina e degli hamburger a basso prezzo, destinano gran parte delle
calorie di origine vegetale all’ingrasso degli animali da carne. E’ risaputo,
infatti, che per produrre una caloria di origine bovina, occorrono mediamente
sette-otto calorie di origine vegetale. Questo, ovviamente, non vuol dire che
per sconfiggere la fame nel mondo dobbiamo diventare tutti vegetariani, ma
evidenzia una richiesta di maggior consapevolezza nei confronti
dell’alimentazione. Consapevolezza anche degli effetti ambientali prodotti dall’allevamento
intensivo (sul suolo e sulle acque) e delle caratteristiche qualitative delle
carni, in relazione alla sfrenata ricerca dei bassi prezzi (carne agli ormoni,
carne con antibiotici, carne bovina ottenuta con proteine di origine animale o
con l’utilizzazione di sottoprodotti e di scarti di lavorazione, ecc.).
7. – A proposito di
differenze sociali
Il
consumatore potrebbe avere un atteggiamento favorevole nei confronti dei CT se
essi consentissero di diminuire le differenze sociali tra le diverse persone e
consentissero un miglioramento del livello di benessere degli strati sociali
più deboli. Ad un primo sommario giudizio si può affermare, al contrario,
che essi contribuiranno ad aggravare ulteriormente le differenze sociali
esistenti all’interno della nostra società. Infatti, il loro acquisto, in
relazione ai probabili rischi ed agli auspicati minori prezzi di mercato, sarà
effettuato in prevalenza dalle classi sociali economicamente più deboli, mentre
le classi sociali più ricche continueranno ad alimentarsi con prodotti
biologici, prodotti a denominazione di origine controllata, prodotti tipici,
ecc., creando dall’altra parte una sorta di proletariato alimentare. Tale
eventualità, soprattutto nel momento attuale in cui non sono ancora chiari gli
effetti sulla salute umana, pone problemi di sicurezza sociale non
indifferenti, che potrebbero avere forti ripercussioni a lungo termine.
8. - Conclusioni
Come
si è potuto osservare, le problematiche relative all'introduzione di
coltivazioni transgeniche di prima generazione sono notevoli e di portata tale
da non giustificare una decisione affrettata. In particolare, come per le altre
innovazioni tecnologiche, se da un lato il tipo di sviluppo attuato in
agricoltura in questi ultimi anni, improntato soprattutto all'esasperante
ricerca del massimo profitto, ha consentito di massimizzare la produttività dei
fattori della produzione, dall'altro non è sempre stato in grado di garantire
sia un'equa ripartizione delle produzioni tra le diverse aree del pianeta, sia
modalità di produzione compatibili con l'esigenza di salvaguardare l'ambiente e
lo sviluppo sostenibile del territorio rurale. A questo proposito si auspica
che le moderne biotecnologie, così come gran parte delle innovazioni
tecnologiche introdotte in agricoltura in questo secolo (diserbanti,
insetticidi, anticrittogamici, regolatori di crescita, ecc.), non siano viste
come un ulteriore strumento "necessario" per incrementare la
produttività del lavoro, a scapito, ancora una volta, dell'ambiente. Se si
parte dal presupposto che occorra incrementare il reddito da lavoro in
agricoltura, mantenendo inalterato o, meglio, abbassando il prezzo di vendita dei
prodotti agricolo-alimentari, affinché, con motivazioni di tipo ricardiano, il
consumatore incrementi il suo reddito reale e possa così destinare la parte
eccedente ad altri consumi non primari, l'"individuo biotecnologico"
diventa strumento fondamentale per attuare tale strategia.
Occorre,
inoltre, considerare che anche nel caso delle tecniche che prevedono
l’utilizzazione di DNA ricombinante, così come del resto per gran parte delle
tecnologie fortemente innovative, l’applicazione può essere buona, mediocre o,
addirittura, cattiva. Per il momento, le moderne biotecnologie hanno riguardato
solo ed esclusivamente applicazioni finalizzate all'automazione del processo
produttivo agricolo e all'incremento dei profitti privati. In particolare,
l’adozione di questa tecnologia è avvenuta senza prima verificare se vi possano
essere delle controindicazioni sia da un punto di vista degli effetti biologici
che essa può determinare (sulla salute umana, sugli ecosistemi, sulla
biodiversità, ecc.), sia da un punto di vista degli effetti economici che la
sua applicazione può avere su sistemi produttivi agricoli sensibili come quelli
presenti in Paesi ad elevata pressione antropica come l’Italia, che, come è
risaputo, non sono particolarmente competitivi da un punto di vista dei costi
di produzione e dove l’agricoltura svolge altre importanti funzioni che vanno
al di là della semplice produzione di materie prime e alimenti.
Pertanto,
le problematiche relative all'introduzione di queste coltivazioni transgeniche
per scopi alimentari sono notevoli e di portata tale da non giustificare una
decisione affrettata. Certamente la nostra agricoltura da sempre basata su
presupposti di tipicità e di qualità non ha per il momento bisogno di
questa biotecnologia, che per essere considerata sostenibile dovrebbe
avere possibilità applicative decisamente migliori.
Occorrerà
poi valutare attentamente se questi "nuovi alimenti" rispondono ad
una reale esigenza del consumatore. Soprattutto nell'attuale momento in cui
quest'ultimo tende a privilegiare la tipicità, la salubrità e, più in generale,
la naturalezza dei prodotti alimentari (il forte aumento del consumo di
produzioni biologiche ne è una conferma), si può affermare che il loro sviluppo
è sicuramente controtendenza. Una controtendenza che andrà valutata
attentamente, al fine di non impiegare risorse e capacità umane nello sviluppo
di produzioni delle quali, forse, non abbiamo una reale necessità.
In
definitiva, possiamo affermare che con troppa fretta si cerca di applicare una
tecnologia fortemente innovativa, che potrebbe avere ripercussioni
significative sulla salute umana ed animale, sull’ambiente, sulla sicurezza
alimentare e sullo sviluppo delle generazioni future e della quale l’attuale
società non ne sente la necessità, in quanto siamo in presenza di produzioni
eccedentarie rispetto al fabbisogno. In particolare, occorre essere
consapevoli del fatto che:
- nell’Unione Europea non ci sono
problemi di carenza alimentare, anzi, al contrario, ci sono problemi di
eccedenze produttive. Gli agricoltori vengono pagati per non coltivare i
terreni (set-aside), per gran parte dei prodotti sono applicate quote di
produzione che non devono essere superate e molto spesso si è costretti a
ritirare, a stoccare o a distruggere parte delle produzioni in eccesso (vino,
burro, riso, ecc.) al fine di non far crollare i prezzi di mercato;
- la domanda di prodotti alimentari è
sempre più orientata verso cibi caratterizzati da un elevato standard
qualitativo, intendendo con questo termine tipicità e naturalezza dei prodotti,
assenza di residui di antiparassitari e assenza di manipolazioni genetiche;
- siamo in presenza di rischi
alimentari, in quanto la comunità scientifica non ha ancora chiarito gli
effetti degli OT sulla salute umana, sulla salute degli altri animali e
sull’ambiente.
Purtroppo,
nel caso delle piante transgeniche ad uso alimentare, siamo di fronte ad una
tecnologia che non ha subito il vaglio di adeguate sperimentazioni basate sul
“principio di precauzione” e che determinando incertezza ed irreversibilità
potrebbe condizionare le possibilità di sviluppo delle generazioni future.
Pertanto compito dell'attuale generazione, se ritiene veramente che questa
tecnologia possa in futuro essere determinante per il benessere delle generazioni
future, è quello di potenziare la ricerca in questo settore, al fine di
verificare gli impatti che essa può avere sull'uomo e sull'ambiente,
posticipandone lo sfruttamento economico fino a quando le incertezze
applicative non saranno definitivamente chiarite.