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martedì 2 ottobre 2012

Ecoetica e ricerca scientifica


Ecoetica e ricerca scientifica: gli ecologi hanno qualcosa da dire?
Roberto Danovaro
Istituto di Scienze del Mare, Università di Ancona,
Via Brecce Bianche 60131 Ancona.

L’etica fa riferimento all’insieme dei valori intorno ai quali si “struttura” una comunità. Le diverse culture hanno prodotto nel tempo diverse forme di etica con presupposti ed obiettivi diversi. Negli ultimi anni la crescente coscienza sociale dell’interdipendenza dell’uomo dall’ambiente in cui vive ha portato alla formulazione di una nuova prospettiva etica: l’etica ecologica (Ecoetica). L’ecoetica rappresenta un’estensione delle problematiche della bioetica, poiché non si limita ad una visione antropocentrica del rapporto tra uomo e vita (concetto di “persona”, eutanasia, aborto, clonazione, salute, sicurezza alimentare), ma le amplia a livello di ecosistema e di biosfera.
L’ecoetica è diversa dalle etiche classiche nei presupposti e nell’approccio logico poiché si basa sulla ricerca scientifica. Il punto di partenza è dato da una constatazione banale: mai prima d’oggi, una singola specie (l’Uomo) aveva avuto un impatto così forte sulla biosfera né, fino ad oggi, una singola specie poteva condizionare la struttura degli ecosistemi, poteva creare ambienti artificiali di dimensioni confrontabili a quelli naturali trasformando radicalmente gli equilibri naturali. L’uomo è uscito dal processo di evoluzione per selezione naturale, sottraendosi alle ferree leggi della natura ed ha “rotto” un processo chiave del funzionamento dell’ecosistema: la “ciclizzazione” di materia ed energia. Non ponendosi l’obiettivo della conservazione dell’integrità della biosfera e delle specie che in essa vivono (inclusa la specie Homo sapiens), le forme di etica classiche non costituiscono i presupposti per garantire la stessa sopravvivenza dell’uomo.
Il problema di fondo da un punto di vista biologico-evolutivo è che l’uomo è nato e si è evoluto in un sistema che adesso sta profondamente modificando. Con il crescente controllo sull’ambiente l’uomo sta alterando i presupposti evolutivi che ne hanno permesso l’affermazione e la dominanza sul globo. Non solo. L’uomo investe  le proprie energie nel rendere sempre più egemonica la propria posizione nel contesto della biosfera. Gran parte dei finanziamenti rivolti alla ricerca scientifica, infatti, sono indirizzati all’aumento dell’aspettativa di vita media o alla predizione di eventi naturali (modellistica ambientale, cambiamenti climatici). Questo semplice concetto contiene uno spunto di riflessione importante: la natura è vista sempre più come fonte di beni e servizi che permettono all’uomo, o a pochi uomini, di mantenere l’egemonia su altri. Questa visione distorta delle relazioni tra l’uomo e l’ambiente non può non avere conseguenze importanti sulla qualità della vita umana.
Le problematiche relative allo stato di salute degli ecosistemi e al concetto d’inquinamento sono fondamentalmente legate al rapporto tra uomo e ambiente. L’inquinamento, il danno ambientale sono le manifestazioni di una “malattia” dell’ecosistema in cui l’uomo vive. Quello che sappiamo dell’inquinamento è che parte dei cambiamenti osservati negli ecosistemi avvengono in modo naturale, mentre alcuni processi vengono accelerati o modificati dall’intervento dell’uomo. Tuttavia il “giocattolo ambiente” diviene “problema” di pubblico interesse solo quando si “rompe” e non può essere più utilizzato proficuamente. La distruzione degli habitat è una delle cause più importanti della perdita di biodiversità. L’ambiente viene fruttato, degradato, proprio alla stregua di un prodotto consumistico di facile accesso. Questo è stato possibile senza sensi di colpa almeno fino alla fine degli anni ’60, con la  comparsa dei primi movimenti ambientalisti. Purtroppo,  il concetto di salvaguardia ambientale appare tuttora soggetto di sensibilità individuale. Ancora una volta il sospetto è che la scarsa sensibilità ai problemi ambientali riveli nuove conflittualità tra protezione dell’ambiente e prospettive economiche. Si stanno aprendo nuovi mercati e tra questi l’uso dell’ambiente naturale si sta proponendo in modo prepotente come oggetto del business del futuro, all’insegna del motto: “distruggere per ricostruire”.
La progressiva distruzione degli habitat, l’utilizzo e lo sfruttamento non sostenibile delle risorse ambientali stanno portando rapidamente le società avanzate ad investire nel recupero ambientale. Dal momento che la distruzione degli habitat non è ancora “eticamente” deplorevole (e spesso non viene sanzionata dalle istituzioni), il degrado ambientale può rappresentare uno dei maggiori investimenti dell’ “industria del recupero” del prossimo futuro.
L’industria chimica e la cosiddetta “tecno-scienza”  hanno portato alla produzione chimica oltre 1000 nuove molecole ed alla distribuzione di oltre 10.000 prodotti chimici ogni anno. Qual è l’impatto di queste nuove sostanze introdotte nell’ambiente? In generale è tacitamente “accettato” il concetto (essenziale a non danneggiare l’economia delle imprese) che le “sostanza chimiche sono “innocenti” fino a quando non ne viene provata la dannosità”.
Negli ultimi anni si parla sempre più frequentemente di micro-inquinanti, di molecole ad azione biologica in grado di mimare l’effetto di ormoni o in grado di alterare la produzione o l’effetto di ormoni (endocrine disrupters) con conseguenze immediate sulla salute e sul comportamento umano. I prodotti chimici vengono testati nel caso del loro utilizzo diretto da parte dell’uomo (rischio sanitario), ma vengono trascurati gli studi volti ad appurare l’effetto sull’ambiente di queste sostanze. Cosa può dire l’ecologo a questo proposito? Determinare la presenza di contaminanti nell’ambiente piuttosto che il loro effetto a livello sistemico è (eco)eticamente corretto?
L’uomo sembra prendere coscienza dei limiti di tolleranza dell’ambiente. Tuttavia, la “spinta” al recupero ambientale è ancora ostaggio della reazione sociale emotiva scatenata da disastri ambientali. Le reazioni emotive sono, per loro natura, tanto forti e spontanee quanto temporanee e spesso prive d’adeguata pianificazione. Forse per questa ragione, le politiche d’intervento dettate da casi d’emergenza ambientale si sono rivelate inefficaci e spesso fallimentari. Ne sono un esempio i casi d’incidenti di petroliere o i tentativi di combattere l’insorgenza di mucillagini in Adriatico. Enorme spreco di fondi e mancanza di pianificazione.
I disastri ambientali distraggono l’attenzione pubblica da un rischio più importante ancorché silente: l’inquinamentocronico. Tutti i prodotti chimici di uso domestico e industriale vengono sintetizzati, prodotti e commercializzati senza alcun principio cautelativo. Servono anni (un tempo infinito per l’economia contemporanea) affinché la ricerca dia una risposta. Immancabilmente, quando alcune molecole vengono escluse dal mercato il danno è già stato fatto, n’è un esempio storico il DDT e più recentemente l’uso di antivegetativi quali il TBT. L’impressione che ho avuto dalle sortite mass-mediali di molti colleghi (un esempio per tutti: il caso dell’alga killer in Mediterraneo o l’Acanthaster in Australia) è che molti scienziati cerchino di  cavalcare la logica del dare pubblicità a presunti disastri ambientali paventando come disastro anche ciò che disastro non è (o non è provato che lo sia). L’obiettivo è  robabilmente quello di aumentare la sensibilità del pubblico verso determinati problemi e, quindi, di incrementare i fondi per la ricerca. Cui prodest? Alla ricerca? Alla programmazione? Edonismo scientifico? E qual è il messaggio/immagine che trasferiamo all’opinione pubblica? L’invasione di specie aliene è certamente un problema di scala globale. Ma la riduzione delle praterie di Posidonia oceanica o della biodiversità (?) in Mediterraneo sono da imputarsi all’invasione di un’alga killer o alla distruzione degli habitat, all’eutrofizzazione e cementificazione delle coste? Credo che almeno i ricercatori dovrebbero mantenere la giusta dimensione dei problemi per poter proporre le giuste soluzioni alla società ed alle istituzioni.
Gli organismi transgenici e più in generale gli organismi geneticamente modificati, da un punto di vista ecologico, possono essere considerati alla stregua di specie aliene. Modificare geneticamente un organismo vuol dire produrre una nuova varietà, determinare artificiosamente una variabilità intraspecifica. Le problematiche relative all’utilizzo di specie transgeniche in agricoltura sono state già esaustivamente esposte in una lettera precedentemente pubblicata da questo bollettino. Tra i benefici prospettati dall’uso di OGM vi è il miglioramento della qualità della vita. Una realtà certa è l’esistenza di una forte spinta economica nella direzione della ricerca e della produzione di prodotti manipolati geneticamente, soprattutto in ambito  agroalimentare. Tali ricerche dovrebbero essere sostenute con il finanziamento da parte d’istituzioni pubbliche. Tuttavia, assistiamo ad un forte sostegno da parte di aziende private, incluse importanti multinazionali, che assumendo il controllo delle ricerche, porteranno necessariamente ad un orientamento in termini produttivi prima che conoscitivi dell’effetto degli OGM sull’ambiente. Tuttavia in questa fase di sviluppo del pensiero scientifico le ricerche devono essere orientate anche alla comprensione di alcune problematiche chiave che hanno ripercussioni di natura etica.
Uno degli aspetti che si rivela potenzialmente più pericoloso è che pistole che sparano DNA all’interno delle cellule (gene guns) non permettono di capire dove si inserisce esattamente il transgene nell’ambito del DNA della cellula ospite. Recentemente è stata sviluppata l’ipotesi che dovrebbe metterci in guardia sulle potenziali conseguenze ecologiche dell’introduzione di organismi geneticamente modificati nell’ambiente. L’ipotesi del Gene di Troia (Trojan gene hypothesis)  è stata formulata per i pesci medaka (pesci ornamentali che vengono allevati soprattutto in Giappone) che vengono prodotti in laboratorio con tecniche di ingegneria genetica. Questi pesci, di maggiori dimensioni dei corrispettivi selvatici, producono molti più gameti quelli non modificati e sono in grado di fecondare più femmine. Tuttavia sono anche più cagionevoli dei selvatici e quindi con una vita media molto più breve. In altri termini si riproducono più facilmente ma poi muoiono prima.
Lo stesso processo è stato dimostrato anche per il salmone transgenico, largamente utilizzato in acquacoltura, soprattutto in Norvegia. Recenti studi hanno stimato che se salmoni ingegnerizzati fossero messi a contatto con una comunità selvatica, accidentalmente o intenzionalmente (e molti esemplari sono già sfuggiti agli impianti dove erano allevati), la varietà selvatica potrebbe estinguersi in meno di 40 generazioni. Le specie transgeniche possono non essere “super-specie”, ma “cavalli di Troia” in grado di sostituirsi alle naturali per poi estinguersi.
Un problema altrettanto importante da un punto di vista ecologico è il gene flow, ovvero il flusso genico tra organismi geneticamente modificati (e.g., piante transgeniche) e piante/organismi naturali e selvatici. Il trasferimento di geni per la resistenza agli erbicidi da piante transgeniche a piante selvatiche è stato largamente dimostrato. Tuttavia è stata recentemente dimostrata anche la possibilità di un flusso genico tra organismi appartenenti a Regni diversi, ad esempio organismi  vegetali e batteri. Acinetobacter incorpora il DNA transgenico della barbabietola da zucchero.
Un altro problema ambientale legato all’uso di OGM è dato dal caso della farfalla monarca (Danaus plexippus). Il bruco di questa farfalla, mangiando il  polline del mais transgenico muore. Dato che il polline, trasportato dal vento, può essere distribuito in aree molto ampie le conseguenze ecologiche possono essere potenzialmente rilevanti anche su larga scala. Recenti studi hanno dimostrato che la creazione di forme di resistenza a seguito di uno scambio genico tra organismi selvatici e geneticamente modificati determina un aumento da 2 a 5 volte dell’uso di erbicidi e di pesticidi, con un conseguente aumento dei danni all’ambiente. Questo risultato dovrebbe far riflettere sulla convenienza da un punto di vista ecologico (riduzione inquinamento per ridotto uso di erbicidi). Quali potrebbero essere le possibili conseguenze di un uso di piante transgeniche su larga scala? Diminuzione della biodiversità? Creazione di forme resistenti (come già avvenuto in passato con il DDT)?
Il problema, da un punto di vista ecologico, quindi non è solo dato dalla preoccupazione di ingerire degli organismi geneticamente modificati (per le possibili conseguenze dirette sulla salute umana), ma vedere quali sono gli effetti su una scala più ampia, su una scala ecosistemica. La politica di ricerca e/o adozione degli OGM non è forse un problema inerente gli aspetti dell’ecoetica? Qual è il costo del degrado ambientale? Certamente non può essere solo delle sue potenzialità di sfruttamento economico o di monetizzazione in chiave eco-turistica, ma neppure il costo del recupero/biorisanamento dell’ambiente. Il fatto che le biotecnologie della clonazione facciano balenare l’idea che sia presto possibile riprodurre specie estinte (come in Jurassic Park) può rappresentare un facile alibi per coloro che tendono a considerare ogni danno inflitto alla natura come “recuperabile”. Inclusa la scomparsa di una specie. Un  prezzo che potrebbe essere quantificato con il costo necessario a finanziare le ricerche e l’attuazione di una clonazione postuma. Anche se ciò fosse possibile, il danno “sistemico” dato dalla scomparsa di una o più specie sul funzionamento dell’ecosistema o sui processi co-evolutivi  non può essere quantificato in questi termini. In altre parole, anche clonando la specie estinta, il danno ambientale, di fatto, non sarebbe riparato. Inoltre, appare evidente che l’estinzione di una specie non è dovuta alla morte di tutti gli esemplari che la rappresentano, ma anche, e soprattutto, alla scomparsa delle condizioni ambientali che ne permettono la prosperità. Questa perdita è difficilmente  colmabile.
Un altro problema rilevante dal punto di vista etico è quello dei brevetti. Un brevetto è, per definizione, legato all’invenzione di qualcosa di originale, di nuovo, per il quale vengono richieste delle “royalties” (diritti dell’inventore) nel caso in cui qualcuno voglia copiare o utilizzare lo strumento inventato. Se io invento il jukebox lo brevetto, se un’azienda vuole costruire lo stesso juke-box deve pagare una royalty, questo è normale. Sarebbe tuttavia necessario chiedersi se è giusto brevettare degli  organismi geneticamente modificati. I geni esistono in natura, noi non facciamo altro che potenziarne le applicazioni prelevandoli da un organismo ed innestandoli in un altro. In altri termini: è eticamente corretto brevettare un gene?
Possiamo dire che è eticamente  corretto brevettare le invenzioni, ma lo è altrettanto brevettare le scoperte scientifiche? Il problema etico si pone anche con la nascita del mercato dei prodotti “terminator” (sementi suicide, ovvero sementi che hanno un gene suicida “autokilling”). Il flusso genico di geni autokilling sta determinando l’estinzione delle forme selvatiche contaminate. Nel tempo, si è creata anche una notevole diffidenza verso questo tipo di prodotti ed i governi di numerosi paesi hanno chiesto maggiori informazioni e garanzie rispetto all’impiego di tali prodotti. A questo proposito ecco la risposta di Harry Collins, un responsabile del settore ricerche di una di queste multinazionali (la Delta & Pine Land Seed Co) nel Gennaio 2000:
We’ve continued right on with work on the Technology Protection System [Terminator]. We never really slowed down. We’re on target, moving ahead to commercialize it. We never really backed off.
Dovremmo interrogarci su quale sia la responsabilità (eco)etica di tale atteggiamento.
Esistono obiettivamente poche possibilità per imporre un comportamento ecologicamente ed eticamente responsabile. Tuttavia credo che, piuttosto che chiedere un blocco totale dei diritti dei brevetti basati sull’uso di geni e di organismi geneticamente modificati, si possa proporre che una percentuale dei proventi di tali brevetti venga destinata alle istituzioni pubbliche per scopi socialmente utili. Tra questi, in primo luogo, il finanziamento della ricerca volta a comprendere gli effetti ecologici o sanitari di tali prodotti o, se questi sono stati riconosciuti come non dannosi, devoluti a scopi sociali. In tal modo si garantirebbe l’interesse alla tutela dell’ambiente, si incrementerebbero i fondi per la ricerca in campo ambientale, si infonderebbe un maggior senso di fiducia della società nei confronti degli scienziati (sempre più percepiti come strumenti nelle mani delle multinazionali e dei loro segreti scientifici), si avrebbe una ricaduta socialmente utile e la possibilità effettiva di compiere questo tipo di ricerche (che richiedono notevoli risorse economiche). Le tesi della neonata Unione Internazionale di Ecoetica (EEIU; www.eeiu.org) possono essere così sintetizzate. La prima regola per conciliare economia ed ecologia è ristabilire una compatibilità tra un metabolismo naturale e un metabolismo antropico. L’uomo ha operato un’accelerazione dello sfruttamento delle risorse che non permette più agli ecosistemi di rigenerarsi. Il secondo punto consiste nell’accettare la responsabilità umana sulle componenti dell’ecosistema, ma al contempo limitare il suo controllo sull’ambiente. L’uomo non può pensare di utilizzare l’ambiente sfruttandone le risorse per poi “risanarlo”, perché questo vuol dire semplicemente aumentare la dipendenza dell’ambiente dall’uomo, e di conseguenza rendere ancora più artificiale l’ecosistema naturale. Quando parliamo di protezione ambientale nel senso di intervento dell’uomo (per es., ingegneria ambientale o biorisanamento e biotecnologie ambientali), dovremmo comprendere a fondo le conseguenze effettive di tali interventi. L’auspicio sarebbe quello di rendere alla natura il principio dell’autoregolazione. Inoltre, è fondamentale stabilire/definire che cosa è “bene/benefico” e cosa è “danno” per decidere in una prospettiva di lungo termine ciò che è bene fare da ciò che non è giusto fare, indipendentemente dalla presenza di un interesse di tipo economico. Produrre un danno nel presente che verrà scontato dalle generazioni future è eticamente inaccettabile anche se prevedessimo una progressiva diminuzione del rischio ambientale nel tempo. Quantificare il danno ambientale per identificare a priori ciò che riteniamo accettabile e ciò che riteniamo non accettabile.
Ciò che non possiamo regolamentare a posteriori, possiamo deciderlo a priori, quindi se noi stabiliamo a priori quello che è accettabile, possiamo già introdurlo come regolamentazione delle attività dell’uomo. Le istituzioni hanno il dovere di “monitorare” la qualità ambientale usando non solo la migliore tecnologia disponibile, ma anche la massima chiarezza legislativa. Le politiche ambientali scelte ed imposte a livello di Comunità Europea possono funzionare. L’adozione dell’uso della benzina verde ha determinato una forte diminuzione (di circa venti volte) dei livelli di piombo in mare. Questo dimostra che è possibile adottare delle politiche ambientali e, se le scelte ambientali si riveleranno giuste, ottenere buoni risultati per l’ambiente. Gli strumenti di intervento esistono.
E’ necessario un confronto tra ecologi, istituzioni, associazioni ambientaliste e settori produttivi per discutere l’importanza dell’accettazione di principi precauzionali. Il senso di tali principi può essere sintetizzato con il concetto: “non inserire o utilizzare prodotti di cui non sia stata dimostrata l’innocuità da un punto divista sanitario e ambientale”. Questo concetto si può facilmente applicare sia nel caso di prodotti chimici che per organismi geneticamente modificati, ribaltando così il concetto dell’ “usare” fino a quando non si dimostra la dannosità. La scienza ha responsabilità importanti: deve sviluppare la ricerca anche su tematiche delicate e controverse (come quelle relative agli organismi geneticamente modificati), poiché non esiste altro modo di valutare le conseguenze (positive o negative) dei prodotti della ricerca scientifica che quello di continuare la ricerca stessa. E’ necessario tuttavia che la ricerca venga sviluppata e incrementata con l’utilizzo di fondi pubblici anziché privati. Questo per la necessità di non sottostare alla sola prospettiva economica del prodotto scientifico.
Ma la scienza non deve solo rivendicare il diritto alla conoscenza. L’asservimento della scienza agli interessi economici è un sospetto crescente a livello delle diverse componenti della nostra società. È importante che la Scienza sciolga quest’ambiguità, per evitare che la “paura” della Scienza determini un tramonto della ragion critica che ci precipiterebbe in un nuovo “medioevo del pensiero”. La Ricerca Scientifica ha davanti a sé un duro lavoro da compiere:
deve entrare in una fase propositiva: pensare al futuro per costruirlo. L’Ecoetica può contribuire a porre le basi, i valori, i riferimenti di questo processo. Tuttavia  mancano, a mio avviso, anche a livello locale o nazionale, le indicazioni, le prospettive e le soluzioni che potrebbero essere fornite dagli ecologi. Gli ecologi non ci sono. Non vogliono/riescono a fare sentire la loro voce. Più semplicemente spesso non hanno idee ben definite rispetto a queste problematiche o non le esplicitano.
L’invito che porgo in questa sede alla Società Italiana di Ecologia è quello del contribuire alla creazione di una Rete di Ecologi interessati all’Ecoetica, all’etica della Ricerca Scientifica, alla comprensione delle ripercussioni ecologiche di tutte le espressioni della ricerca scientifica e allo stimolo di politiche sociali che tengano conto delle prospettive ecosistemiche di ogni scelta. Una Rete che accolga la sfida di una fase propositiva, che sappia far sentire la propria voce a livello istituzionale, mass-mediale e che promuova la cultura della ricerca ecologica e denunci i rischi di scelte ecoeticamente scorrette.
Un’occasione importante, ammesso che gli ecologi abbiano qualcosa da dire….