Alcuni numeri per inquadrare il problema. Secondo i
dati ISTAT, il trend produttivo degli ultimi dieci anni è in direzione di una
scelta qualitativa della produzione, che è passata da una media di 72 milioni
di ettolitri negli anni ’80, ai 59 milioni degli anni ’90. Relativamente alle
caratteristiche della produzione, si conferma il sostanziale equilibrio degli
ultimi anni tra vini bianchi e vini rossi, anche se a livello regionale le
differenze sono piuttosto marcate (in Calabria il 93% della produzione è
costituito da vini rossi). Nel 2003 la nostra esportazione vinicola sui mercati
mondiali si è attestata intorno ai 10.617.543 ettolitri, per un valore di
2.202.657.000 di Euro, registrando rispetto all’analogo periodo del 2002 una
flessione del 15,5% in quantità, ma solo dell’1,4% in valore. Nello stesso
periodo il prezzo medio del prodotto esportato è aumentato del 16,3%, passando
da 1,78 a
2,07 Euro al litro. Relativamente alle esportazioni verso gli Stati Uniti
d’America, occorre rilevare che negli ultimi anni, per la prima volta, abbiamo
superato la Francia ,
leader storico, anche in termini di valore: 822 milioni di dollari, che
rappresentano il 32% del mercato Usa, contro il 28% detenuto dai cugini
d’Oltralpe. Terzo incomodo l’Australia, che con i propri vini si ritaglia un
consistente 22%. Nel 2001 e nel 2002 l’export dei vini in
bottiglia ha superato per la prima volta quello dei vini sciolti,
rispettivamente con 7.028.977 ettolitri (vini sciolti 6.126.415 ettolitri) e
7.216.680 ettolitri (vini sciolti 5.494.089 ettolitri). Le forniture di vini in
bottiglia verso i Paesi dell’Unione Europea hanno registrato nel 2002 rispetto
al 1999 un incremento del 6,3% in volume e del 13,4% in valore, mentre quelle
verso Paesi terzi hanno manifestato un
incremento ancora maggiore: +32,4% in quantità e + 58,5% in valore. Diminuite,
invece, le forniture di vini sciolti, che sono passate da 1.000.878 a 854.763
ettolitri. Come si può notare, sono sempre più evidenti i segnali di
dinamismo di una politica di qualità, che, come per tutto il “Made in Italy”,
sembra essere l’unica via praticabile per contrastare l’aggressività dei nuovi
produttori, che offrono sul mercato vini a prezzi fortemente competitivi (Stati
Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Cile, Argentina e Sud Africa).
Relativamente alla problematica in oggetto, ovvero
all’eventualità che anche nel nostro Paese sia “creata” e successivamente
introdotta per la coltivazione una o più cultivar di vite transgenica, occorre
verificare se sarà una via percorribile
per la nostra vitivinicoltura e se potrà rappresentare un miglioramento qualitativo della nostra
produzione o se, al contrario, sarà percepita dal consumatore come una
omologazione della produzione verso standard che non sono ritenuti in sintonia
con elementi di qualità.
A livello mondiale i genetisti che si occupano di
“transgenesi” stanno trasformando viti per la produzione di uva da vino allo
scopo di tentare di conferire loro la resistenza a determinati parassiti, tra i
quali i più importanti sono rappresentati dai “virus”, dalla “flavescenza
dorata”, dal “mal dell’esca” e dalla “fillossera”. Da un punto di vista del
“miglioramento qualitativo”, l’unico risultato che sembra sia stato ottenuto è
quello di isolare e di clonare il gene che consente di ottenere uve senza semi.
A livello mondiale occorre rilevare che la Francia , insieme alla
Germania, è tra i Paesi che maggiormente hanno lavorato per la produzione di
viti transgeniche. Negli ultimi anni, però, anche in relazione al fatto che i
consumatori hanno manifestato un forte dissenso in merito al loro consumo, si è avuta una netta inversione di tendenza, che
ha portato all’abbandono dei progetti di trasformazione a suo tempo attivati e
al divieto da parte dell’INAO (l’Istituto Nazionale delle denominazioni di origine) di utilizzare uve transgeniche
per la produzione di vino a denominazione di origine controllata.
Per quanto attiene ai progetti attuati, dei quali
alcuni abbandonati ed altri ancora in atto, si rileva che:
-
l’INRA (Istituto nazionale
di ricerche agronomiche francese) ha intrapreso la produzione di varietà
resistenti alle malattie fungine mediante l’utilizzazione di un gene (Run 1) derivante
da Muscadinia rotundifolia, specie vegetale notevolmente distante dalla Vitis
vinifera;
-
a Tolosa l’Ensat, organismo
che appartiene sempre all’INRA, ha in corso ricerche mediante trasformazione
genetica al fine di conferire alla vita da vino la resistenza all’EUTIPIOSI
(malattia fungina). In questo caso il gene (Vr-ERE) deriva da Vigna radiata.
Per il momento sono state ottenute delle cellule che in vitro hanno manifestato
tolleranza al fungo. Sembra che scopo di questa ricerca sia soprattutto quella
di individuare un “gene pulito”, che consenta di eliminare il gene di
resistenza agli antibiotici normalmente utilizzato nella verifica delle
trasformazioni genetiche attuate con Agrobacterium e/o con metodo biolistico;
-
l’INRA di Bordeaux ha
attivato ricerche per conferire alla vite la resistenza ai fitoplasmi
(flavescenza dorata). Per il momento il gene che potrebbe essere interessato è
in corso di valutazione su piante di tabacco. Se fornirà i risultati attesi il
gene sarà trasferito alla vite;
-
la transgenesi in Francia è
sperimentata anche per verificare l’efficacia di taluni geni per lo sviluppo
fiorale della vite. Anche in questo caso i primi esperimenti hanno riguardato
il tabacco; se saranno ottenuti risultati, essi potranno essere trasferiti alla
vite.
In Germania il Centro Federale Sperimentale per il
miglioramento genetico della vite effettua ricerche sulla trasformazione
genetica della vite allo scopo di ottenere piante resistenti ai parassiti
animali e vegetali, a fattori di stress (siccità, freddo, ecc.), ecc.
In Israele sono in atto numerose ricerche di
trasformazione genetica della vite. In particolare, sono stati creati dei
plasmidi con un elevato numero di transgeni che una volta introdotti nella vite
dovrebbero renderla resistente all’oidio e alla botritis.
Come si è potuto notare, numerosi sono i campi di
applicazione della transgenesi alla vite. Da rilevare, comunque, che la
produzione di viti transgeniche per l'esecuzione di impianti produttivi è
ancora lontana. Occorrerà poi verificare se le attese saranno confermate dai
fatti, ovvero se effettivamente queste nuove piante risolveranno il problema
degli attacchi parassitari, o quant’altro.
In particolare, relativamente alla vite transgenica resistente agli insetti,
occorrerà fare i conti con la naturale selezione genetica di insetti resistenti
alla tossina prodotta dalla pianta. Tale inconveniente è già stato riscontrato
per il mais BT (resistente alla piralide), ed ha determinato un cambiamento
nelle pratiche agronomiche normalmente adottate per la sua coltivazione. In
particolare, consapevoli del fatto che gli insetti dopo alcune generazioni
maturano una resistenza genetica alla tossina transgenica, è stato consigliato
agli agricoltori di coltivare ogni 100 ettari di Mais BT una aliquota variabile
dal 20% al 50% di Mais convenzionale (aree rifugio), al fine di evitare la
pressione selettiva di individui resistenti.
Relativamente alla predisposizione di “aree rifugio”
per la coltivazione della vite, occorre chiedersi se è un modello produttivo
adatto alla nostra agricoltura, che, come è risaputo, è costituita da aziende
di modestissime dimensioni (5-6
ettari ), dove non è raro incontrare vigneti dell’ordine
di poche migliaia di metri quadrati. Occorrerà poi considerare che un vigneto ha
una durata produttiva di 30-40 anni, per cui, inevitabilmente, si potranno
manifestare prima o poi delle resistenze genetiche da parte dell’insetto. A
questo punto le alternative per il viticoltore potranno essere di due tipi:
-
riutilizzare
i vecchi insetticidi in grado di controllare l’insetto che è divenuto
resistente alla tossina insetticida prodotta autonomamente dalla vite
transgenica;
-
sostituire
(dopo quanti anni?) le vecchie viti transgeniche, non più resistenti alle nuove
generazioni dell’insetto, con altre viti transgeniche appositamente selezionate
per poter resistere alle nuove generazioni di insetto.
Ovviamente il problema precedente è amplificato nel
caso della vite transgenica
resistente ai patogeni vegetali, in quanto trattasi di organismi
caratterizzati da una pressione selettiva superiore agli insetti e, quindi, in
grado di originare resistenze genetiche in tempi minori.
Occorrerà poi verificare se le caratteristiche
organolettiche dell’uva prodotta dalle viti transgeniche rimarranno
identiche a quelle dell’uva ottenuta da vitigni convenzionali, in quanto è
risaputo che l’introduzione di un gene estraneo in un organismo determina delle
importanti modificazioni nel metabolismo di questo stesso organismo, per cui
potrebbero modificarsi enormemente le caratteristiche dell’uva e,
conseguentemente, le caratteristiche del vino prodotto. A questo proposito
alcuni ricercatori hanno verificato che la granella di mais BT resistente alla
piralide presenta un forte incremento del contenuto di lignina.
Ma al di là delle
problematiche agronomiche e qualitative, occorrerà verificare se il nostro
sistema Paese otterrà vantaggi dall’introduzione di “uva transgenica”. In
particolare:
-
è impensabile che la nostra
viticoltura possa competere sul mercato mondiale sulla base dei bassi costi di
produzione. Essa potrà competere solo
sulla base di produzioni di eccellenza, produzioni in grado di rispondere ad
una pressante domanda di qualità, di sicurezza alimentare e di tracciabilità e che cosa debba
intendersi per “qualità” lo decide il consumatore;
-
l’introduzione ed il consumo di “uva
transgenica” aumenterà la dipendenza del nostro Paese nei confronti delle
forniture provenienti dall’estero, in quanto l’auspicata contrazione dei
prezzi causata dall’introduzione dell’uva transgenica determinerà un ulteriore abbandono
dell’attività viticola dalle aree marginali, che non saranno più in grado di
competere sulla base dei bassi prezzi della globalizzazione dei mercati (è già
accaduto per i vigneti ubicati nei terrazzamenti e su terreni in forte pendenza,
che a causa della concorrenza dei vigneti di pianura sono stati abbandonati);
-
la vite transgenica, così come è
stata progettata, favorirà la delocalizzazione produttiva nei Paesi
caratterizzati da bassi costi di produzione, da scarse limitazioni di carattere
ambientale e da limitate tutele sociali. Quando verrà meno il legame tra
qualità del prodotto/qualità del territorio in cui è stato ottenuto, è
impensabile che la produzione di questo stesso prodotto possa essere mantenuta
nel nostro Paese;
-
se è vero che l’introduzione della
vite transgenica determinerà un aumento delle importazioni, sarà altrettanto
vero che si avrà una diminuzione del numero di occupati in agricoltura,
con aggravamento dei problemi di presidio del territorio e di tutela
dell’assetto idrogeologico;
-
l’abbandono dei territori
marginali determinerà un aumento delle spese necessarie per le operazioni
di manutenzione e conservazione del territorio;
-
la vite transgenica determinerà un danno
di immagine per la vitivinicoltura nazionale, da sempre rinomata per le
produzioni di eccellenza che immette sul mercato;
-
la vite transgenica potrebbe
determinare una diminuzione di qualità dei nostri vini tipici. In
particolare, al momento attuale non sono state fatte apposite analisi e
sperimentazioni in grado di verificare la qualità dei vini ottenuti dalla
trasformazione di uva transgenica.
Trattasi di un problema di carattere generale, che riguarda tutti i vini
prodotti sul territorio nazionale e non solo di quelli che nel loro
disciplinare di produzione non prevedono di utilizzare materiale transgenico. Supponiamo
per un attimo che il vino ottenuto da uve transgeniche contenga il transgene (fatto
ancora tutto da dimostrare, in quanto mancano specifiche sperimentazioni) e, pertanto,
debba essere etichettato come tale (“vino OGM” o “vino ottenuto da uve OGM” o
quant’altro), siamo sicuri che il consumatore continuerà ad acquistarlo?;
-
da
rilevare, infine, che il brevetto di
una pianta (una particolare cultivar di vite, che produce un’altrettanto
particolare uva) potrebbe consentire ai Paesi che ne detengono la proprietà
di attuare le coltivazioni in località prossime ai mercati di collocamento,
rendendo così competitive produzioni viticole che attualmente sono penalizzate
dagli elevati costi di commercializzazione, evitando nel contempo le
problematiche ambientali che queste coltivazioni potrebbero comportare se
fossero attuate sul loro territorio. Trattasi di uno scenario molto pericoloso
per il nostro Paese, in quanto l'introduzione di "nuove coltivazioni
esotiche", succedanee delle nostre produzioni, è attualmente ostacolata
dagli elevati costi di condizionamento e di trasporto. In definitiva, una volta
ottenuto il brevetto di una determinata cultivar di vite, è molto più semplice
e meno costoso attuarne direttamente la produzione su contratto in prossimità
dei mercati di collocamento, evitando così tutte le problematiche ed i
costi relativi alla conservazione ed al
trasporto.
In conclusione, e in
un’ottica di globalizzazione dei mercati, anche nel caso della vite
transgenica, così come per altri alimenti transgenici, oltre alle incertezze
nutrizionali ed ambientali, si inseriscono considerazioni di opportunità per il
nostro Paese, in merito all’utilizzazione o meno di produzioni che non sono
gradite dal consumatore e che possono determinare una diminuzione della
competitività delle nostre produzioni. Un consumatore che oggigiorno sarebbe
meglio chiamare “acquistatore”, in quanto controlla e verifica accuratamente il
prodotto prima di acquistarlo e che oggigiorno tende a scartare prodotti che
contengono Organismi Transgenici.
Per quale motivo il nostro Paese dovrebbe aprire al vino transgenico se
il consumatore non lo vuole? Non risponde ad alcuna logica economica la
strategia di voler immettere sul mercato
un bene che secondo le ultime indagini il 70-80% degli acquirenti ha
detto di non voler acquistare. Perché la nostra viticoltura dovrebbe
abbandonare una strategia sicura, basata sulla qualità, sulla tracciabilità e
sulla sicurezza alimentare, per far posto ad una produzione omologante, sempre
meno richiesta dal mercato? Potrà competere il nostro Paese sul mercato globale
sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita o, più
realisticamente, potrà competere sulla base di produzioni di eccellenza, ad
alto valore aggiunto?
Sono domande importanti a cui occorre dare una risposta prima di
intraprendere una strada che potrebbe essere pericolosa per la sopravvivenza
della nostra vitivinicoltura.