I pomi della discordia
Pietro Greco
L’ultima a far parlare di sé è stata Amflora, la patata
geneticamente modificata nata nei laboratori dalla grande azienda chimica
tedesca Basf. Alcune settimane fa la Commissione Europea ne ha autorizzato la
coltivazione in campo aperto e la vendita, rompendo una moratoria che durava da
dodici anni. La patata non
arriverà sulla nostre tavole. Verrà utilizzata solo a fini industriali, per la
produzione di amido. Eppure è riuscita a riaccendere la vecchia polemica tra i
due opposti partiti degli apologetici e degli apocalittici delle «biotecnologie
verdi»: ovvero delle diverse applicazioni della tecnica del Dna ricombinante a
piante, tuberi e ad altri prodotti dell’agricoltura. Gli apologetici
considerano questi organismi geneticamente modificati (ogm) la bacchetta magica
capace di salvare l’umanità dallo spettro della fame. Gli apocalittici,
all’opposto, guardano agli ogm come al «cibo Frankenstein», messo a punto da
apprendisti stregoni che porteranno l’umanità alla perdizione.
Nonostante
vada avanti, tra qualche tregua e improvvise fiammate, la polemica sulle
«biotecnologie verdi» si concentra soprattutto da noi, in Italia. Dove continua
a essere tanto dura quanto confusa. Ideologica, nella sua essenza. Perché i due
opposti partiti chiedono a tutti noi non un’analisi critica delle potenzialità
e dei rischi, ma una scelta di campo totale a favore o totalmente contro un
processo – l’utilizzo delle tecnologie del Dna ricombinante in agricoltura –
che in realtà è molto articolato e complesso, che si snoda lungo percorsi
storici e, quindi, modificabili, che attraverso almeno quattro diverse
dimensioni autonome, se non del tutto indipendenti: quelle della sicurezza
alimentare, dell’impatto ecologico, dell’economia e della politica.
Prendiamo,
per esempio, la dimensione della sicurezza alimentare e, quindi, del rischio
per la salute dell’uomo. Molti prodotti alimentari geneticamente modificati con
le tecniche del Dna ricombinante (chiamiamoli per mera comodità, cibi ogm) sono
sulle tavole di centinaia di milioni di persone di tutto il mondo – sotto
forma, soprattutto, di soia e di mais ma anche di altri prodotti più o meno
essenziali – da almeno un paio di decenni. Ma non si ha notizia che abbiano
prodotto danni significativi alla salute dell’uomo. Non più degli altri cibi,
prodotti con tecniche convenzionali o nell’ambito della cosiddetta agricoltura
biologica. Indagini accurate svolte sia negli Stati Uniti (dalla Food and Drug
Administration) sia in Europa hanno dimostrato che non esiste un rischio
sanitario specifico associato agli ogm. Per paradosso, i cibi ogm potrebbero
essere persino più sicuri dei cibi convenzionali e persino dei cibi biologici:
visto che devono superare prove di innocuità non richieste, in genere, agli
altri prodotti alimentari. Ciò non toglie che singoli prodotti ogm possano
risultare dannosi: per esempio provocare allergie. Ma, appunto, si tratta di
prodotti specifici. Non dell’intera classe dei cibi ogm. E questo ci fornisce
un primo insegnamento, fatto proprio dall’Organizzazione Mondiale di Sanità:
non è possibile parlare in maniera generalizzata di “prodotti ogm”, ma la
valutazione del rischio sanitario va riferita sempre, caso per caso, al singolo
prodotto. Ma questo vale (dovrebbe valere) per qualsiasi prodotto alimentare
che giunge sulle nostre tavole.
Anche il
rischio ecologico, alla luce dei dati scientifici noti, va ridimensionato. Il
tecnologie del Dna ricombinante vengono applicate alle piante per inserire uno
o più geni “alieni”, appartenenti ad altre specie. Il rischio paventato è che
questi geni possano diffondersi nell’ambiente ad altre specie di piante,
determinando effetti ecologici indesiderabili e incontrollabile. Ora è vero che
sono stati documentati diversi casi di «trasferimento genico orizzontale»,
ovvero di salti di geni “alieni” da una pianta OGM a una pianta non OGM,
selvatica o coltivata che sia. Ma è anche vero che – a tutt’oggi – non ci sono
state conseguenze particolarmente gravi da un punto di vista ecologico.
Essenzialmente per due motivi: perché il «trasferimento genico orizzontale»,
tra specie diverse di piante, avviene normalmente in natura. E poi perché è
difficile (anche se non impossibile) che un gene totalmente estraneo venga
accettato e dia luogo a un «hopeful monster», ovvero a una nuova specie con
caratteristiche diverse e vincenti. In genere il trasferimento orizzontale di
geni “alieni”, se anche avviene con successo, genera mostri piuttosto deboli:
facilmente eliminati per selezione naturale. Alcuni sostengono che il rischio
di seri effetti indesiderati, anche se non si finora realizzato, potrebbe
realizzarsi in futuro. E che, in ogni caso, nessuno ha verificato gli effetti
ecologici di lungo termine, non fosse altro perché quel lungo termine non è
ancora passato. Ma per valutare questi rischi e farli rientrare in ambiti
fisiologici basta muoversi con prudenza. Valutare caso per caso. Non serve
fermarsi del tutto.
C’è poi
la dimensione economica del problema. A tutt’oggi l’applicazione a scala
commerciale delle «biotecnologie verdi» si è concentrata nelle mani di poche
aziende multinazionali, che hanno utilizzato queste conoscenze tutto sommato
con scarsa creatività: le specie di piante geneticamente modificate sono poche
e poche sono anche le funzioni (in genere la resistenza ai pesticidi) per cui
sono state modificate. Inoltre l’approccio di queste aziende è di tipo
monopolistico (cercano di imporre ai contadini solo l’uso delle loro sementi),
nell’ambito di un sistema intensivo di produzione agricola. Un approccio così
insostenibile – sia sul piano sociale che sul piano ecologico – da risultare
del tutto inaccettabile. In definitiva, le «biotecnologie verdi» vengo
utilizzate male e, troppo spesso, producono benefici per pochi e inconvenienti
per molti. Ma i guasti – ripetiamo, inaccettabili – derivano non da proprietà
intrinseche delle nuove tecnologie basate sul Dna ricombinante, bensì dalla
loro appropriazione da parte di pochi in un sistema di mercato globale che è
insieme iperliberista e iperprotezionista.
Eccoci,
dunque, all’altra faccia della dimensione economica del problema. Gli uffici di
comunicazione delle imprese biotecnologiche affermano che i cibi OGM
possono risolvere – con il basso costo di produzione e l’alta produttività – il
problema della malnutrizione e della fame nel mondo. Un assunto del tutto
infondato. La fame del mondo non dipende dalla scarsità di cibo, ma dalla sua
cattiva distribuzione. Il cibo attualmente prodotto nel mondo intero sarebbe
più che sufficiente ad alimentare l’intera popolazione del pianeta. Se, oggi,
un miliardo di persone è malnutrito non è perché manca il cibo, ma perché quel
miliardo di persone non vi ha accesso. E il mancato accesso al cibo di tante
persone dipende da almeno tre fattori: un liberismo sfrenato (il controllo
monopolistico delle sementi, per esempio), gli enormi sussidi economici erogati
all’agricoltura europea e nordamericana che tagliano fuori i prodotti agricoli
e l’economia dei paesi più poveri; la corruzione e la cattiva organizzazione di
molti di quegli stessi paesi poveri. Nessuno di questi problemi viene alleviato
di per sé dall’introduzione di colture OGM, anzi l’attuale gestione delle
«biotecnologie verdi» li aggrava tutti.
Non c’è
dubbio: gli OGM, come ha scritto Francesco Sala, potranno essere utili
all’intera umanità. Ma solo se saranno gestiti nell’ambito di un’economia
socialmente più sostenibile. Solo se saranno considerati una risorsa non a
vantaggio di pochi, ma a beneficio di tutti. Ciò ci riporta alla quarta
dimensione del «problema OGM», la dimensione della politica. Che, in tutta
questa complessa partita, brilla per la sua assenza. Due i nodi principali che
devono essere sciolti: quello della “trasparenza” e quello della “conoscenza
come bene comune globale”. Le istituzioni politiche devono assicurare la
massima trasparenza nella ricerca, nella produzione e nella distribuzione del
cibo OGM. In modo che la filiera dei prodotti sia sempre ricostruibile. Le
coltivazione segregabili (ovvero avvenire in ambienti ben definiti e separati
da altri). In modo, inoltre, da offrire la possibilità a chi rifiuta i
transgenici, per qualsiasi motivo, sia messo in grado di farlo. Questa
trasparenza per ora è lacunosa. Occorre aumentarla.
Ma la
politica deve fare di più. Deve assumere la conoscenza, anche la conoscenza
biotecnologica, come un «bene comune» a disposizione di tutti e non come un
«bene appropriabile» da parte di privati. In pratica significa non lasciare le
«biotecnologie verdi» in mano a poche imprese private, ma finanziare con fondi
pubblici la ricerca – una ricerca totalmente libera (nei limiti di legge).
Basterebbe questo per aumentare la probabilità di avere prodotti biotecnologici
che beneficiano non il produttore, come avviene ora, ma il consumatore, come
dovrebbe essere. Più in generale, occorre che le istituzioni politiche stabiliscano
nuove regole per un’agricoltura socialmente ed ecologicamente sostenibile.
Contrastando il combinato disposto di iperliberismo e iperprotezionismo che
garantisce pochi ricchi, mentre affama centinaia di milioni di poveri e mette a
rischio l’ambiente.
In
definitiva, ciò che ci viene richiesto nella società della conoscenza è una
cultura scientifica più solida. Capace di analizzare in dettaglio i problemi e
di distinguere gli effetti dalle cause, le cause prossime dalle cause remote,
le azioni e le retroazioni di quel sistema estremamente complesso che è
l’economia globalizzata fondata sull’innovazione tecnologica. O acquisiamo
questa cultura scientifica o, semplicemente, saremo incapaci di capire il mondo
in cui viviamo. Di valorizzarne le opportunità e di modificarlo lì dove produce
effetti che non desideriamo.