“Ogni imprenditore deve essere libero di
coltivare per il mercato ciò che ritiene più conveniente e/o più opportuno!”
E’ questa, con ogni probabilità, la considerazione sulla base della quale l’Unione
Europea, e conseguentemente il nostro Paese, prevede l’emanazione di specifiche
norme per la coesistenza tra coltivazioni convenzionali e coltivazioni
transgeniche. Trattasi, ovviamente, ed in termini generali, di una
considerazione accettabile, con una semplice differenza nel caso degli OGM, in
quanto se “è vero che non si può impedire a chi vuol coltivare transgenico di
farlo, è altrettanto vero che non si può obbligare a coltivarli coloro che non
li vogliono coltivare”. Tale considerazione è dettata dal fatto che
questi “nuovi organismi viventi” hanno transgeni inseriti nel nucleo, che si
esprimo in ogni parte della pianta (polline, foglie, radici, ecc.) e, pertanto,
originano “inquinamento genetico” (il polline di queste piante si diffonde
autonomamente nell’ambiente e può fecondare piante convenzionali, che, nel caso
in cui il prodotto per il mercato sia costituito dal seme, originano una
produzione che in parte deve essere considerata transgenica). In termini
generali l’inquinamento genetico può verificarsi e rimanere circoscritto alle
piante coltivate (per esempio tra mais transgenico e mais coltivato), ma può
diffondersi anche tra piante coltivate e altre piante parentali selvatiche
infestanti (per esempio tra colza transgenica e senape selvatica). Nel primo
caso, con i dovuti e costosi accorgimenti,
l’inquinamento genetico, con ogni probabilità, potrebbe anche essere
“controllato” (adeguate distanze tra campi OGM e campi convenzionali,
specifiche misure agronomiche, barriere fisiche, ecc.), mentre nel secondo caso
l’inquinamento genetico sarebbe di tipo pervasivo, in quanto la “pianta
infestante transgenica” si diffonderebbe autonomamente nell’ambiente (col
vento, con gli animali, con l’acqua, ecc.), anche a distanza di chilometri, ed
il suo polline in annate successive andrebbe a fecondare “piante parentali
coltivate”, che darebbero così origine ad una produzione che, in parte, sarebbe
transgenica.
La problematica introdotta
precedentemente non è di poco conto, poichè nel caso di coesistenza, e soprattutto
nel caso in cui l’inquinamento genetico provocasse dei danni di tipo economico,
verrebbe meno quella certezza “causa/effetto” in grado di risolvere contenziosi
di tipo giudiziario, tra “inquinatori e inquinati”. In particolare, mentre nel
caso di piante coltivate che non hanno parentali selvatiche sarebbe semplice
individuare la fonte dell’inquinamento (con ogni probabilità il campo coltivato
confinante con piante transgeniche), la stessa cosa non si può dire nel caso di
piante coltivate che possono essere fecondate dal polline di parentali
selvatiche. Chi ha causato l’inquinamento? Il confinante che coltiva OGM,
oppure il polline presente nell’ambiente delle parentali selvatiche? Le
sentenze dei Giudici potranno avvalersi di elementi di certezza, oppure no? E’
ovvio che nel secondo caso gli elementi di incertezza non porteranno ad
individuare un “colpevole certo”, per cui nel dubbio..................
Da un punto di vista pratico la
domanda è la seguente: “è possibile la coesistenza tra coltivazioni agricole
convenzionali (comprese quelle biologiche) e coltivazioni transgeniche?”
Allo stato attuale delle cose, in relazione alle caratteristiche del materiale
transgenico disponibile, che, come si è detto in precedenza, presenta transgeni
inseriti nel nucleo, che si esprimono in ogni parte della pianta (polline
compreso), la risposta è negativa, in quanto queste piante originano
inquinamento genetico. Ecco allora che, nel caso di coesistenza, il settore
produttivo che non intende produrre piante transgeniche, soprattutto nel caso
di accordi contrattuali con gli utilizzatori del prodotto ottenuto dalla
coltivazione, dovrà mettere a punto adeguate strategie agronomiche di
contenimento dell’inquinamento genetico (sementi certificate, macchine apposite
per la raccolta e per il trasporto, specifici luoghi di stoccaggio del
raccolto, ecc.), al fine di poter avere “certezze” in merito alle
caratteristiche qualitative del prodotto finale che intende avviare sul mercato.
E’ ovvio che queste “certezze” hanno un costo, per cui, come minimo, la
coesistenza tra coltivazioni transgeniche e coltivazioni convenzionali,
comporterà sicuramente una lievitazione
dei costi di produzione agricoli (non è ancora chiaro chi dovrà
sostenere questi maggiori costi, ma si spera coloro che vogliono produrre
transgenico), che potrebbe abbassare, se non addirittura annullare, i benefici
economici ottenibili dalla coltivazione di materiale transgenico. E’ un primo
effetto economico di una certa rilevanza, in quanto trattasi di un costo annuale,
che dovrà essere sostenuto all’infinito o, quantomeno, sino al momento in cui
la nostra società deciderà che l’etichettatura degli alimenti OGM non è più
necessaria e verrà creata un’unica filiera di distribuzione per alimenti
convenzionali e OGM. Solo allora non
saranno più necessarie norme che regolano la coesistenza, per cui le piante
transgeniche si diffonderanno normalmente, così come ogni nuova pianta
oggigiorno ottenuta attraverso metodiche di miglioramento genetico
convenzionale. E’ ovvio che se verrà meno la separazione di filiera e
l’etichettatura, le uniche piante che saranno coltivate saranno quelle
transgeniche, in quanto accreditate di un minor costo di produzione.
Con la coesistenza, occorrerà poi
considerare anche gli eventuali effetti
di mercato (abbassamento dei prezzi, difficoltà di collocamento della
merce, ecc.), poiché è vero che si avranno maggiori costi di produzione a
livello agricolo, ma l’effetto più pericoloso potrà essere quello di vedersi
rifiutare il prodotto da parte del consumatore interno o da parte
dell’importatore estero, che ancora esige un alimento completamente esente da
Organismi Transgenici (OT). Da questo punto di vista, nel caso in cui il nostro
Paese riuscisse a realizzare filiere “OGM free”, vi potrebbero essere anche
opportunità di mercato, indirizzate a soddisfare una domanda di “alimenti OGM
free”, che per molti anni si manterrà ad un elevato livello.
Soprattutto per un Paese come il
nostro, che produce prodotti trasformati di eccellenza (formaggi, insaccati,
vini, ecc.), di alto valore aggiunto, i rischi di mercato sono sicuramente più
importanti dei rischi produttivi agricoli, in quanto la qualità della materia
prima di base potrebbe rappresentare un limite alla produzione di trasformati
di eccellenza o, quantomeno, ritenuti tali dal consumatore. In particolare, è
ovvio che se viene utilizzata materia prima transgenica, anche il prodotto
trasformato sarà transgenico (di fatto, perché verificabile da una semplice analisi
PCR, oppure “derivante” da OGM, nel caso in cui venga attuata la tracciabilità
di filiera). E’ altrettanto ovvio che, se la legislazione lo prevede, questo
prodotto dovrà essere etichettato come “contenente OGM” o “derivante da OGM”.
Ecco che in questa situazione, al di là del fatto che gli OGM possano
determinare anche effetti sui costi agricoli, gli scenari economici si faranno
molto più complessi, in quanto si dovranno ipotizzare riduzioni di prezzo della
materia prima e dei prodotti trasformati che non rispondono più alle esigenze
dei consumatori, consumatori che non sono più disposti a pagare prezzi elevati
per acquistare un prodotto che eccellente, secondo il loro metro di misura, non
è più.
E’ senz’altro
vero che gli agricoltori di materia prima convenzionale subiranno maggiori
costi, ma è altrettanto vero che anche i trasformatori di produzioni di
eccellenza, che garantiscono un prodotto “OGM free”, subiranno maggiori costi
(di approvvigionamento, di segregazione, di analisi, ecc.) e minori redditi
(maggiori costi e non altrettanto maggiori prezzi, in quanto il prezzo di
vendita sul mercato non potrà andare oltre certi livelli rispetto all’analogo prodotto transgenico). Con ogni
probabilità, gli unici che guadagneranno da questa situazione saranno i
produttori di beni alimentari di scarsa qualità, che vedranno aumentare le
difficoltà produttive di coloro che offrono prodotti di eccellenza
(difficoltà nel reperimento della materia prima, maggiori costi di
approvvigionamento, maggiori costi di analisi, minori prezzi di vendita
rispetto agli incrementi di costo, ecc.) e vedranno divenire maggiormente
competitivi i loro prodotti (in termini relativi se il prezzo dei
prodotti di eccellenza aumenterà, il prezzo degli altri prodotti succedanei di
minore qualità, pur rimanendo costante, è come se diminuisse).
Trattasi, purtroppo, di uno scenario
che si è già verificato. Ci si riferisce in modo particolare al settore
dell’agricoltura biologica, nel quale gli agricoltori che hanno voluto
garantire un alimento “libero da OGM” sono stati costretti a modificare le
tecniche di produzione e a sostituire gli alimenti destinati al bestiame.
L’esempio, a tutti noto, è quello della soia. A causa dell’inquinamento
genetico determinato dalla “soia transgenica RR” molti agricoltori biologici nazionali
hanno deciso, o sono stati costretti, di sostituire nell’alimentazione del
bestiame la soia con il pisello proteico, che, come è risaputo, è
caratterizzato da un prezzo di mercato superiore. Tale sostituzione ha
sicuramente danneggiato gli agricoltori biologici, in quanto a fronte dei
maggiori costi essi non hanno realizzato maggiori prezzi di vendita sul mercato
(nel caso in cui essi abbiano realizzato maggiori prezzi, occorrerà considerare
che il loro prodotto è divenuto meno competitivo rispetto a quelli convenzionali,
per cui, con ogni probabilità, si è avuta una riduzione della domanda).
Come si è potuto notare dalle
precedenti considerazioni, la coesistenza tra coltivazioni convenzionali e
coltivazioni transgeniche aumenterà notevolmente le problematiche produttive e
di mercato ed originerà sicuramente una grande mole di contenzioso nella nostra società (aumenterà
sicuramente il lavoro per gli avvocati). In particolare, non vi è alcun dubbio
sul fatto che vi saranno dei danneggiati e dei danneggiatori. I danneggiati
sono certi, in quanto hanno seminato materiale “non OGM” (certificato?) ed
hanno ottenuto un raccolto che ad una analisi PCR risulta transgenico (saranno
costretti a vendere il prodotto ad un
prezzo inferiore e/o dovranno risarcire i danni nel caso di rapporto
contrattuale con utilizzatori terzi). La stessa cosa non si può dire per i
danneggiatori, in quanto l’inquinamento genetico è pervasivo e non ha fonte
certa (chi ha determinato il danno? La semente inquinata? l’agricoltore
confinante che coltiva OGM? il polline portato dal vento da chilometri di
distanza? le piante parentali selvatiche che col tempo sono divenute OGM? od
altro ancora), per cui nel caso di contenzioso difficilmente un Giudice potrà
esprimere un parere fondato su elementi di certezza. Permane comunque il fatto
che un danno è stato provocato e che qualcuno sarà costretto a subirlo.
In termini generali, per danno deve
intendersi qualsiasi effetto nocivo prodotto da individui terzi nei confronti
di altre persone (siano esse persone fisiche o giuridiche) o di altre entità
economiche (beni materiali, ma anche beni immateriali). Così, per esempio, se
il danno riguarda la distruzione parziale o totale di un bene fisico,
oggigiorno la casistica potrebbe essere veramente complessa e interessare
un’enorme quantità di beni (danno emergente). Nel caso in
oggetto il danno è causato dalla coesistenza tra agricoltura convenzionale,
transgenica e biologica, che determina un raccolto che non ha le caratteristiche
di quello che ci si aspettava di ottenere. In particolare, in termini pratici e
secondo quanto rilevato dai bollettini delle principali Borse Merci, tale
raccolto è caratterizzato da un prezzo di mercato inferiore a quello che ci si
aspettava di ottenere.
Ci si trova in presenza di un danno
anche quando si ha una diminuzione del reddito normalmente prodotto dal bene
danneggiato (lucro cessante). Così, per esempio, a causa di un danno
da inquinamento genetico, un campo coltivato a mais subisce una perdita di
produttività per un certo numero di anni (a quanto ammonta il danno annuale subito?)
Oppure, ancora, per l’ingrasso degli animali gli agricoltori biologici hanno
dovuto sostituire le proteine della soia con quelle del pisello proteico, più
costoso. Oppure, ancora, gli agricoltori biologici non sono più in grado di
garantire una produzione esente da OGM, per cui sono costretti ad abbandonare
l’agricoltura biologica, con tutti i danni conseguenti (danni di avviamento per
il periodo di certificazione, danno per abbandono dei clienti che con tanta
fatica si erano fatti, danno per lucro cessante a causa del fatto che non
possono più attuare l’agricoltura biologica). A quanto ammontano i maggiori
costi (di mancato ammortamento dei macchinari, di riconversione agricola, ecc.)
e i minori redditi?
A questo punto, in un’ottica di
globalizzazione dei mercati, si
inseriscono considerazioni di opportunità per il nostro Paese, in merito alla
coesistenza produttiva e all’utilizzazione o meno di materiale di propagazione
brevettato proveniente dall’estero, che origina alimenti che per il momento non
sono graditi al consumatore e che possono determinare una diminuzione della
competitività delle nostre produzioni. Un consumatore che oggigiorno sarebbe
meglio chiamare “acquistatore”, in quanto controlla e verifica accuratamente il
prodotto prima di acquistarlo e che oggigiorno tende a scartare prodotti che
contengono OGM.
Per quale motivo il nostro Paese
dovrebbe aprire al transgenico se il consumatore non lo vuole? Non risponde ad
alcuna logica economica la strategia di voler immettere sul mercato un bene che l’80% degli acquirenti ha detto
di non voler acquistare. Perché la nostra agricoltura dovrebbe abbandonare una
strategia sicura, basata sulla qualità, sulla tracciabilità e sulla sicurezza
alimentare, per far posto ad una produzione omologante, sempre meno richiesta
dal mercato? Potrà competere il nostro Paese sul mercato globale sulla base dei
bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita o, più realisticamente,
potrà competere sulla base di produzioni di eccellenza ad alto valore aggiunto?
Perché mai, in un’ottica di sviluppo sostenibile, dovremmo adattarci a
coltivare prodotti “non ancora sicuri” per la salute umana e per l’ambiente,
ben sapendo che questa strada è senza via di uscita a causa dell’inquinamento
genetico?
Sono
interrogativi importanti, che, anche al di là di fattori economici, meritano una risposta prima che sia
intrapresa la via della coesistenza per il benessere del nostro Paese. In
particolare, la contemporanea presenza di forme di agricoltura transgenica (con
piante che hanno transgeni costitutivi) con forme di agricoltura convenzionali
determina l’impossibilità da parte dell’agricoltore, anche nel caso in cui
sostenga maggiori costi, di poter garantire una effettiva produzione “OGM
free”, così come richiesto dal consumatore. In questa situazione alcune
considerazioni sono necessarie relativamente alla possibilità che l’agricoltore
metta in atto strategie di contenimento dell’inquinamento genetico:
-
all’agricoltore che non vuole coltivare transgenico conviene evitare
l’inquinamento genetico? Con ogni probabilità gli converrà solo nel caso in cui sul mercato siano
presenti tre prezzi del medesimo prodotto (prodotto OGM, prodotto con soglia di
tolleranza inferiore allo 0,9%, prodotto “OGM free”). E’ ovvio che gli converrà
evitare l’inquinamento genetico, e adotterà tecniche che comportano maggiori
costi di produzione, solo nel caso in cui il prezzo di mercato del prodotto che
otterrà (tutto da verificare, in quanto con l’inquinamento genetico non esiste
la certezza di ottenere una produzione di un certo tipo) sarà in grado di
remunerare questi maggiori costi. Nell’incertezza produttiva, con ogni
probabilità, egli sceglierà di coltivare prodotto transgenico, in quanto è
l’unico in grado di consentirgli di poter impostare una tecnica produttiva
certa, con previsioni certe su ricavi e costi. Pertanto, in presenza di
incertezza produttiva, si verrebbe a determinare una situazione simile a quella
che ha visto l’esplosione delle superfici coltivate con piante transgeniche
negli U.S.A., in Canada ed in altri Paesi dove queste produzioni sono
considerate “Sostanzialmente Equivalenti” a quelle convenzionali. La presenza
di un unico prezzo di mercato per prodotto OGM e per prodotto “OGM free” ha
determinato una esplosione delle superfici coltivate con prodotto OGM, in
quanto è quello caratterizzato dal minor costo di produzione;
-
l’agricoltore è sicuro che anche adottando determinate pratiche colturali
potrà ottenere un prodotto realmente al di sotto della soglia di tolleranza? Purtroppo la risposta è negativa, in
quanto sono talmente tante le possibilità di inquinamento genetico della
produzione agricola, che difficilmente si potrà avere la certezza del
risultato. Potrà accadere che nonostante gli sforzi operati dall’agricoltore il
prodotto presenti soglie di OGM superiori allo 0,9%. Ecco allora che anche in
questo caso difficilmente il nostro produttore adotterà pratiche colturali più
costose nell’incertezza di concretizzare con un maggior prezzo il risultato
della coltivazione. Ancora una volta sceglierà di produrre transgenico;
-
chi pagherà i maggiori costi? Nel caso delle produzioni “OGM free” il mercato offre spunti
di riferimento, in quanto attualmente queste produzioni sono caratterizzate da
prezzi superiori al prodotto convenzionale dell’ordine del 10% circa. E’ ovvio
che queste maggiorazioni di prezzo ricadranno sul consumatore, il quale si
troverà costretto a pagare di più il precedente prodotto convenzionale, per il
sol fatto che qualcuno ha voluto introdurre un alimento del quale ancora non
sono note le reali capacità produttive,
nutrizionali e ambientali.
In conclusione, la coesistenza tra
produzioni transgeniche e convenzionali determinerà un ampliamento delle
problematiche produttive e decisionali per l’agricoltore. E’ ovvio che in una
situazione di incertezza in cui non sarà possibile determinare a priori la
qualità del prodotto finale ottenuto (“OGM free”, “OGM” o “OGM free all’interno
di una soglia di tolleranza dello 0,9%”), il produttore agricolo sarà portato a
sostituire le produzioni convenzionali con quelle transgeniche, in quanto
saranno le uniche che offriranno certezza nei costi di produzione e nei prezzi
di vendita (in pratica egli sarà portato a non rischiare di coltivare con i
costi del convenzionale, per dover poi vendere ai prezzi del transgenico). Ancora
una volta “la moneta cattiva scaccerà quella buona”.