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venerdì 29 marzo 2013

Anche negli U.S.A. qualcuno si muove per l’etichettatura degli alimenti OGM


Negli U.S.A. “WHOLE FOODS MARKET”, una catena di supermercati specializzata nella vendita di prodotti naturali e biologici, ha annunciato che, entro il 2018, tutti i prodotti venduti nei suoi magazzini, dovranno avere un'etichetta sulla quale sarà riportata l'eventuale presenza di organismi geneticamente modificati (OGM), “con l’obiettivo di consentire ai consumatori di compiere delle scelte informate riguardo agli ingredienti GM”.
Obiettivo di Whole Foods Market è quello di fornire una scelta informata ai consumatori per quanto riguarda gli ingredienti geneticamente modificati. Prodotti etichettati in modo chiaro, al fine di consentire ai clienti che vogliono evitare gli alimenti a base di OGM di farlo.
E’ stata fissata la scadenza del 2018. Entro il 2018 tutti i prodotti venduti nei negozi degli Stati Uniti e del Canada dovranno essere etichettati per indicare se contengono organismi geneticamente modificati (OGM). Whole Foods Market è la prima catena alimentare degli U.S.A. a fissare un termine per la piena trasparenza degli OGM.

mercoledì 6 marzo 2013

Il mais BT serve veramente a risolvere il problema delle aflatossine?

Tra le “mezze verità” che vengono dette in giro in merito alle proprietà miracolose degli OGM, vi è anche quella relativa al fatto che gli OGM servirebbero per la risoluzione delle problematiche connesse alla proliferazione delle aflatossine. Ovviamente, in questa sede non si vuole sostenere che il mais BT non serva a nulla, ma, purtroppo, il mais BT, molto probabilmente, non rappresenta, da solo, il mezzo per la risoluzione del problema delle micotossine. In particolare, negli U.S.A., dove si fa largo uso di mais BT, il contenuto ammesso di aflatossine negli alimenti è 10 volte quello consentito nei Paesi dell’UE (0,50 ppb negli USA, contro gli 0.05 ppb nei Paesi dell’UE), segno inequivocabile che serve qualcos’altro.
Nell’Unione Europea i limiti massimi di aflatossine sono quelli stabiliti dal Reg. Ce 165/2010, che prevede per il mais valori differenti a seconda della destinazione della granella. In particolare, per l’alimentazione umana è consentita la presenza di 5 ppb - parti per miliardo - per l’aflatossina B1 e 10 ppb per le B1+B2+G1+G2. Per l’alimentazione animale è consentita la presenza di 20 ppb per la B1. Nel latte crudo, nel latte trattato termicamente e nel latte destinato alla fabbricazione di prodotti a base di latte, il tenore massimo è di 0,05 ppb di aflatossina M1.
Diversa è la legislazione americana, in particolare per le aflatossine nei prodotti destinati all’alimentazione animale. La normativa Usa, infatti, distingue i limiti massimi a seconda della specie e del periodo di vita dell’animale e varia notevolmente, passando dal valore minimo di 20 ppb nei prodotti a base di mais per mangimi destinati alle vacche da latte, fino ad un massimo di 300 ppb per quelli destinati ai bovini in finissaggio.
Nel nostro Paese i Limiti Massimi Tollerabili di aflatossine in prodotti destinati all’alimentazione  umana (espressi in µg/Kg ) sono riportati nella Direttiva 2006/1881/CE. Al limite comunitario di 0.050 ppb per l’aflatossina M1 nel latte crudo e termicamente trattato si sono adeguati anche alcuni paesi asiatici, africani e dell’America Latina. 
In netto contrasto con quanto prescritto nei Paesi dell’UE sono gli Stati Uniti e alcuni Paesi dell’Europa orientale e asiatici, che hanno adottato un limite dieci volte superiore, ovvero 0.50 ppb, limite  adottato anche dal Codex Alimentarius nel 2001.
Pertanto, negli USA, pur avendo a disposizione l’arma del mais BT, sono consapevoli che esso da solo non serve a risolvere il problema aflatossine.
Negli U.S.A., pur potendo contare sulla possibilità di coltivare mais BT, può accadere poi che in particolari annate i limiti possano anche essere ritoccati, in relazione al fatto che vengono superate le soglie ammesse:
Nella realtà esistono altre problematiche legate alla diffusione di aflatossine nel mais. In particolare:
-        Occorre in primo luogo prestare attenzione alle rotazioni, al fine di limitare la diffusione della  piralide. A questo proposito, occorre rilevare che negli ultimi decenni le aziende agricole, anche al fine di contenere i costi di produzione, si sono fortemente specializzate, per cui privilegiano la monocoltura di mais, con tutti i risvolti negativi in merito alla diffusione di insetti e di piante infestanti;

-        Esiste poi il problema delle attuali varietà di mais che hanno le brattee che non coprono completamente la pannocchia, per cui si sviluppano attacchi fungini. Anche in questo caso l’umidità ristagna nelle parti apicali della pannocchia, per cui si ha proliferazione di agenti micotici;

-        Esiste poi il problema delle irrigazioni effettuate massicciamente allo scopo di ottenere una maggior produzione, ma che rappresentano un elemento importante per lo sviluppo delle aflatossine;

-        Esiste poi il problema della “aree rifugio”, che devono essere attuate insieme alla coltivazione del mais e che, se non trattate con insetticidi, origineranno un prodotto con ingenti attacchi di piralide e, conseguentemente, con un alto contenuto di aflatossine.
A cosa servono le “Aree Rifugio”? Sono aree coltivate a mais convenzionale (fino al 50% della superficie coltivata a mais Bt), allo scopo di evitare che soggetti di piralide resistenti alla proteina BT localizzati nel campo di mais BT vadano a fecondare altri soggetti resistenti, sempre localizzati nel campo di mais BT, dando così origine ad una progenie resistente. Il giochetto è presto spiegato: se noi accanto ad un campo di mais BT mettiamo un campo di mais convenzionale, con ogni probabilità nel campo di mais BT si selezioneranno soggetti resistenti alla tossina BT, mentre nel campo convenzionale ci saranno soggetti non resistenti. L’esclusiva presenza di coltivazioni di mais BT avrebbe determinato una forte presenza di soggetti resistenti, con creazione di progenie di insetti resistenti. Mettendo accanto al campo di mais BT un campo di mais convenzionale, la formazione di progenie di piralide resistente alla tossina BT è notevolmente rallentata, non evitata, in quanto soggetti resistenti provenienti dal campo di mais BT possono fecondarsi con soggetti non resistenti provenienti dal campo di mais convenzionale, dando così origine ad una progenie che solo in parte è resistente.

Anche nel caso delle “Aree Rifugio” l’introduzione di piante transgeniche resistenti agli insetti non ha risolto completamente il problema e non ha semplificato la coltivazione del mais. In particolare:

-              molto spesso gli agricoltori non hanno seguito il consiglio delle ditte sementiere, per cui non hanno messo in atto la strategie delle “aree rifugio”;

-              coloro che hanno creato le “aree rifugio” hanno dovuto adottare due specifiche tecniche di coltivazione per lo stesso prodotto, in quanto la parte coltivata con piante convenzionali deve essere trattata in modo diverso da quella coltivata con piante transgeniche.

In conclusione alle considerazioni effettuate sulle piante transgeniche resistenti agli insetti, occorre chiedersi se quello delle “aree rifugio” è un modello produttivo adatto all’agricoltura italiana, che, come è risaputo, è costituita da aziende di modestissima dimensione (6-7 ettari), dove non è raro incontrare campi coltivati a mais o a soia dell’ordine di poche decine di migliaia di metri quadrati.  
In merito agli effetti del mais BT sul contenuto di micotossine, il problema è il seguente: consapevoli del fatto che le aree rifugio saranno oggetto di “grandi attenzioni” da parte della piralide, cosa ne sarà della granella prodotta in termini di micotossine se non si faranno trattamenti insetticidi specifici? La granella prodotta sarà buttata? Sarà destinata alla produzione di biocombustibili?


A conclusione di queste piccole osservazioni sulle aflatossine nel mais BT, si può far rilevare che il valore massimo consentito  per l’aflatossina M1 nel latte adottato dall’UE è tra i più bassi al mondo.
Senza entrare nel dibattito sulla possibilità o opportunità di richiedere o meno una modifica nella normativa europea sui tenori massimi di aflatossine nel mais, forse troppo stretti, va precisato che questa procedura è lunga e complessa, anche perché richiede che siano prodotte nuove informazioni scientifiche, che devono essere valutate dall’Efsa (l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare) e dal Comitato permanente della catena alimentare della salute animale.

martedì 5 marzo 2013

Le sementi OGM non sono sterili, però è vietato riseminarle, anche in secondo raccolto.


Negli U.S.A. sono ormai numerose le cause messe in atto da talune ditte sementiere contro agricoltori che, trattenendo una parte del raccolto e riseminandolo, coltivano le loro sementi brevettate "abusivamente". Trattasi, soprattutto, di semi di soia e colza (per il mais, essendo un ibrido, non è possibile attuare questa operazione), poiché non essendo varietà ibride, essi possono essere coltivati e tranquillamente  riseminati tutti gli anni. 

Il caso in oggetto riguarda le produzioni effettuate in secondo raccolto (un raccolto secondario, che viene effettuato dopo la coltivazione principale e che non origina grandi profitti per l’agricoltore). Il secondo raccolto, lo dice la parola stessa, può essere attuato per le coltivazioni che hanno un ciclo molto breve. L'agricoltore semina in primavera il primo raccolto.....raccoglie il prodotto.......trattiene una parte del prodotto per la risemina del secondo raccolto nella stessa annata. Pertanto, negli USA, e nel caso della soia OGM, utilizza per il secondo raccolto un seme che deriva dalla riproduzione di un seme brevettato.   

In particolare, l’oggetto del contendere riguarda anche gli agricoltori che hanno pagato le royalty sul seme di soia utilizzato per il primo raccolto   e che intendono utilizzare una parte del raccolto per la semina del secondo raccolto. Essi, secondo le ditte che hanno il brevetto su quella semente, devono ripagare i diritti sulle sementi, anche se la ditta proprietaria del brevetto non ha manipolato in alcun modo la semente e, pertanto, non ha sostenuto alcun costo di lavorazione e di condizionamento per quella stessa semente.

Da rilevare che non è consentito nemmeno seminare semi acquistati da grossisti locali, poiché il silos in cui si raccolgono e si conservano i semi provenienti da diversi agricoltori della zona (OGM e "non OGM"), contiene sicuramente una parte che è OGM ed è, quindi, oggetto di brevetto.

Per un agricoltore la causa è iniziata nel 2007 presso la corte distrettuale dell’Indiana, la quale ha dato ragione alla ditta proprietaria del brevetto e ha stabilito un risarcimento di 84 000 dollari (60 000 euro) da parte del contadino a favore della ditta detentrice del brevetto. Da rilevare che la Corte d’Appello Federale, specializzata in cause riguardanti i brevetti, ha confermato questo pronunciamento. Ora la Corte Suprema (sorta di Cassazione italiana) avrà l’ultima parola.

L’America guarda a questa sentenza, che potrebbe creare un precedente in grado di mettere in discussione tutti i sistemi basati sul copyright, ma intanto l’auspicio è che almeno in questo campo la Corte Suprema possa restituire ai produttori la possibilità di conservare e di scambiare liberamente le sementi, cancellando quella limitazione che il sistema dei brevetti pone alla velocità di innovazione e sviluppo di nuove varietà.