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lunedì 24 settembre 2012

OGM e agricoltore


Al piccolo agricoltore italiano, che ha aziende agricole dell'ordine di 6-7 ettari, nel lungo periodo le coltivazioni OGM non convengono, poichè coltivare OGM significherebbe mettersi in concorrenza con agricolture molto più agguerrite della nostra da un punto di vista dei costi di produzione (agricolture che utilizzano antiparassitari che da noi sono vietati, che sfruttano il lavoro minorile, che non hanno la legge nitrati, che non hanno la 626, ecc.). Occorre poi considerare che per l'agricoltore abbassare i costi non necessariamente significherebbe guadagnare di più. Sarebbe vero solo se l'agricoltore decidesse autonomamente il prezzo di vendita del mais o della soia. Purtroppo questo non accade, in quanto il prezzo di vendita delle derrate agricole è quasi sempre stabilito dal mercato (su tutti i testi di economia c'è scritto che l'agricoltore "subisce il prezzo di mercato") e sul mercato quando si abbassano i costi di produzione, dopo pochi anni si abbassano, inevitabilmente, anche i prezzi.
C'è poi il problema della delocalizzazione produttiva. 
Cè poi il problema dei vincoli che possono essere introdotti dal brevetto sulle piante e sugli animali.






Come per le altre innovazioni tecnologiche, tra le motivazioni che potrebbero spingere l'agricoltore italiano ad adottare Organismi Geneticamente Modificati (OGM, che sarebbe meglio chiamare Organismi Transgenici – OT), si ricordano soprattutto la possibilità di ottenere un reddito superiore, in relazione ai seguenti elementi:
1)    alla possibilità di ottenere maggiori produzioni, associate o meno ad una contrazione dei costi di coltivazione;
2)    alla diminuzione dei rischi connessi al collocamento sul mercato della merce prodotta;
3)    alla diminuzione dei rischi tecnici relativi all'ottenimento della produzione.
         Solo se saranno in grado di rispondere ad almeno una di queste esigenze le colture transgeniche potranno essere adottate dall'agricoltore italiano, con indubbi vantaggi sia per il settore agricolo, che vedrebbe incrementate le sue possibilità produttive e reddituali, sia per l'intera Società, in relazione alle esternalità positive che essa continuerebbe a ricevere gratuitamente dal settore agricolo (presidio e manutenzione del territorio, conservazione del paesaggio, tutela della flora e della fauna, conservazione della biodiversità, creazione di spazi ad uso ricreazionale, conservazione degli aspetti culturali tradizionali del territorio rurale, mitigazione degli effetti ambientali negativi prodotti da altre attività produttive o di consumo, ecc.) .


1. – Effetti su produzioni e costi

 I sostenitori degli OT affermano che l'agricoltore nazionale dovrebbe adottare piante transgeniche, poiché esse sarebbero in grado di produrre di più a minori costi.
In primo luogo occorre rilevare che sembra non sia vero che le attuali piante OGM producano di più di quelle convenzionali per unità di superficie. Al contrario,  specifiche ricerche avrebbero verificato una produzione sostanzialmente analoga e, addirittura, per talune coltivazioni (soprattutto soia) una produzione per ettaro leggermente inferiore. 
         Per quanto attiene alla riduzione dei costi, occorre rilevare che le coltivazioni transgeniche di prima generazione, così come sono state concepite, saranno anche in grado di abbassare i costi di produzione, ma non saranno in grado di garantire un maggior reddito al produttore. E' risaputo, infatti, che in agricoltura ad una contrazione dei costi di produzione corrisponde nel lungo periodo una diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti offerti. Da un lato l'agricoltore non ha alcuna facoltà di controllo del prezzo dei suoi prodotti, e dall'altro il progresso tecnico determina una riduzione dei costi unitari di produzione. Così, anno dopo anno, nuove tecnologie vengono introdotte, abbassando i costi di produzione ed espellendo dal settore produttivo le aziende che non sono in grado di reggere la concorrenza. A causa di ciò, e della concorrenza che si viene a creare sul mercato, i prezzi dei prodotti agricoli seguono i costi di produzione nella loro diminuzione, cosicché viene meno il profitto che poteva essere atteso; talvolta, anzi, per la lenta trasferibilità di taluni fattori produttivi impiegati dall'agricoltore (ricollocazione per esempio del lavoro e/o dei capitali investiti in precedenza), la discesa dei prezzi può continuare al di sotto del livello capace di assicurare la precedente remunerazione agli stessi fattori. 
Realisticamente, può accadere che ad una riduzione dei costi corrisponda, nel lungo periodo, un'analoga diminuzione del prezzo di vendita, ristabilendo così la situazione di partenza dei margini per il produttore. A questo proposito occorre rilevare che, anche nel caso in cui per il produttore il margine per unità di prodotto venduto rimanesse costante, inserendo nel riparto colturale processi produttivi in grado di abbassare i prezzi di vendita dei prodotti agricoli, egli favorisce, quasi inconsapevolmente, una diminuzione del suo reddito reale, in quanto i prezzi dei prodotti non agricoli rimangono, nella migliore delle ipotesi, costanti. Addirittura, per la legge di Engel, vi è la possibilità che, in relazione ad un aumento del reddito reale del consumatore favorito dalla diminuzione del prezzo dei prodotti agricolo-alimentari, si verifichi un aumento della domanda di beni non agricoli, con conseguente aumento del loro prezzo e conseguente ulteriore diminuzione del reddito reale dell'agricoltore.
L'agricoltore nazionale potrebbe ottenere un incremento del suo Reddito Netto anche attraverso l'adozione di un processo produttivo che consenta o una maggior utilizzazione dei fattori della produzione di cui dispone in abbondanza (manodopera, terra, ecc.) o, al contrario, una minor utilizzazione dei fattori della produzione che è costretto ad acquistare sul mercato. Anche in questo caso le coltivazioni transgeniche di prima generazione si comportano in modo contrario, poiché sono sostanzialmente disattivanti nei confronti di taluni fattori della produzione apportati direttamente dall'imprenditore e richiedono, nello stesso tempo, un maggior apporto di fattori esterni che egli è costretto ad acquistare sul mercato. Esse, infatti, in relazione all'automazione del processo produttivo agricolo che mettono in atto, richiedono, in genere, una minor quantità di manodopera, che è sostituita dalla tecnologia di origine industriale. Cambiano a seconda delle tecnologie utilizzate anche i rapporti di scambio tra settore primario e resto dell'economia, accelerando o attenuando i rapporti di subordinazione dell'agricoltura. In generale, lo sviluppo di un progresso tecnico labour-saving tende a redistribuire l'incremento del reddito conseguito con l'aumento della produttività del lavoro, in favore dei detentori del capitale fisso di esercizio. Rispetto ai rapporti di scambio con il settore industriale l'adozione di queste innovazioni rende dipendente e subordinata l'agricoltura non solo per la necessità di ottenere i mezzi tecnici indispensabili per l'attivazione del processo produttivo, ma anche per il fatto che l'industria manifatturiera commercializza i propri beni in condizioni di oligopolio realizzando dei "superprofitti" a spese del settore primario. In particolare, soprattutto per le coltivazioni erbacee annuali, la semente OGM potrebbe rappresentare il primo passo per consentire la completa automazione del processo produttivo agricolo (piante autosufficienti, resistenti a tutti i tipi di malattie, che crescono ovunque), un processo produttivo che sarà controllato dai satelliti ("precision farming"), che non avrà più bisogno dell'agricoltore o, per lo meno, ne avrà bisogno in modo decisamente limitato. E' in questo contesto, ovvero in un contesto in cui il reddito da capitale prevarrà sul reddito fornito dagli altri fattori produttivi (terra e lavoro), che si creano i presupposti per il passaggio del controllo del territorio rurale dall'agricoltore, che non riesce più a ricavare un reddito adeguato dalla sua attività, poiché i fattori della produzione di cui dispone non sono più necessari e quindi non sono più remunerati, ad individui estranei all'attività agricola, che con i propri capitali, o con i capitali di terzi, saranno in grado di subentrare non soltanto nella coltivazione ma anche nella proprietà delle aziende agricole.
Anche nel caso di aumento della produttività di queste piante, ed in presenza di prezzo stabile dei prodotti offerti, l'agricoltore non otterrà rilevanti benefici dall'adozione degli attuali OT. Infatti, queste produzioni sono brevettate, per cui il costitutore, con ogni probabilità, sarà portato a spingere il prezzo di vendita della semente ad un livello prossimo al maggior margine che essa sarà in grado di determinare al produttore agricolo, con annullamento dei potenziali vantaggi economici per il settore primario (per fare un esempio, estremizzando, se la semente OGM determina per il produttore agricolo un vantaggio di 100 euro per ettaro, il detentore del brevetto potrà pretendere un maggior prezzo della semente fino a 100 euro per ettaro).
Secondo i sostenitori degli OT l'aumento del reddito dell'agricoltore potrebbe derivare anche da una differenziazione della produzione verso produzioni caratterizzate da un maggior valore aggiunto (alimenti con più proteine, più vitamine, meno calorie, partenocarpia, meno residui di antiparassitari, ecc.). Da un punto di vista mercantile possiamo affermare di trovarci di fronte ad un altro prodotto, completamente diverso da quello originale, con un proprio segmento di mercato e, quindi, con una propria clientela che predilige quel prodotto del quale apprezza le caratteristiche intrinseche. Tale clientela potrà essere disposta a pagare di più pur di avere quel prodotto e, pertanto, vi potranno essere maggiori opportunità di guadagno per l'imprenditore agricolo. Queste opportunità di guadagno si verificheranno solo se il mercato del prodotto sarà "libero", poiché nel caso, molto più realistico, in cui la produzione fosse attuata "su contratto" (per conto del costitutore della pianta transgenica, che fornirà all'agricoltore il seme e curerà poi la commercializzazione del prodotto finale ottenuto) i maggiori guadagni sarebbero quasi esclusivamente a favore dell'impresa integrante e, quindi, del costitutore.
Strettamente connesso al precedente è poi il problema della brevettabilità degli organismi transgenici. Trattasi di un argomento di estrema importanza, poichè non si può permettere che l'approvvigionamento alimentare sia condizionato dal comportamento di imprese che posseggono un diritto esclusivo sull’utilizzazione della biodiversità esistente. In pratica, che cosa potrebbe accadere nella realtà? Il costitutore di quella determinata cultivar di pomodoro o di melanzana potrebbe registrare con il medesimo nome (che assume a tutti gli effetti la funzione di marchio) sia la nuova pianta, sia il marchio commerciale con il quale il “frutto” della pianta potrà o dovrà essere commercializzato. Pertanto l’organismo che ha brevettato quella nuova cultivar, oltre alla royalty sulla semente, potrebbe imporre anche il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di prodotto venduto. Per attuare questa strategia è sufficiente che l’organismo che detiene il brevetto di quella cultivar crei a livello mondiale una rete di esclusivisti, siano essi moltiplicatori della semente e/o commercianti per la vendita del prodotto, in grado di controllare l’intera filiera produttiva, che parte dalla moltiplicazione del materiale genetico e arriva alla vendita a dettaglianti del prodotto ottenuto. Trattasi di un processo di “integrazione circolare contrattuale” nel quale interviene una singola ditta industriale o commerciale, che produce autonomamente o acquista da un costitutore i diritti di moltiplicazione della nuova pianta, registra il marchio commerciale del prodotto ottenibile dalla coltivazione di quella nuova pianta e gestisce l’intera filiera. Tale opportunità è resa possibile oggigiorno dal forte processo di concentrazione della domanda di prodotti alimentari. Le catene della Grande Distribuzione sono in grado di acquistare grandi masse di prodotto, che deve essere di qualità costante, con un prezzo sostanzialmente stabile, consegnato nei tempi stabiliti. In un contesto di questo tipo le grandi imprese commerciali sono in grado di attuare forti concentrazioni dell’offerta, che nell’esempio riportato sono facilitate dalla presenza di un prodotto legalmente tutelato, per il quale è possibile controllare abbastanza semplicemente sia l’immissione sul mercato del materiale di propagazione (e, quindi, l’apparato produttivo), sia la produzione avviata al consumo, nonché le prevedibili ed inevitabili frodi commerciali. Trattasi, come si può osservare, di una filiera produttiva decisamente efficiente, nella quale, però, l’agricoltore rappresenta sempre l’anello più debole della catena, in quanto è molto spesso costretto ad accettare particolari condizioni contrattuali, che ne possono limitare l’autonomia imprenditoriale. Infatti, il detentore del marchio commerciale, che attua una specifica attività di marketing sulla marca, potrebbe indicare alle ditte che effettuano la vendita del prodotto le caratteristiche qualitative che lo stesso deve avere, la confezione da adottare, nonché le modalità di confezionamento e di vendita. E’ ovvio che in una situazione di questo tipo l’agricoltore non può certo pretendere di ottenere una remunerazione “completa” dell’attività imprenditoriale, in quanto molte operazioni che caratterizzano la filiera sono svolte da colui che detiene il brevetto, che si “approprierà” dei relativi compensi.
L’esempio precedente potrà trasformarsi in realtà? Sarà attuato solo per le coltivazioni orticole e/o frutticole o potrà riguardare ogni nuova cultivar vegetale potenzialmente oggetto di brevetto. Vi potranno essere vantaggi per il produttore o questa strada rappresenta uno sviluppo pericoloso per l’agricoltura del nostro Paese? Sono queste le domande a cui occorre dare una precisa risposta prima di intraprendere una strada che potrebbe avere grandi risvolti negativi. 
In questo contesto si inseriscono le perplessità da qualcuno ipotizzate in merito al rapporto tra “agricoltura e i signori dei geni”, ovvero tra coloro che producono materialmente, in campo, il prodotto oggetto di scambio sul mercato ed i “proprietari” del patrimonio genetico in grado di originare quel prodotto. Come potrà essere sfruttato questo brevetto? Esistono dei limiti allo sfruttamento economico della pianta, oppure tutto è concesso a colui che detiene il brevetto? Indubbiamente queste domande esigono risposte precise sulle eventuali conseguenze che lo sfruttamento del brevetto potrebbe avere sul settore agricolo italiano. Al limite si potrebbe ipotizzare una situazione in cui l’agricoltore non dovrà nemmeno acquistare le sementi, ma le riceverà per la coltivazione dalla stessa impresa che ne detiene il brevetto e che diventerà anche proprietaria del prodotto finale ottenuto (simili ai contratti di soccida per l’allevamento animale). Il processo produttivo sarà portato avanti dall’agricoltore sulla base di un “disciplinare di produzione”, nel quale saranno elencati la data di semina i prodotti antiparassitari da utilizzare, le operazioni colturali da effettuare, le concimazioni  e quant’altro necessario per portare a maturazione il prodotto (al limite l’impresa integrante, al fine di sfruttare il suo potere contrattuale anche nei confronti delle ditte produttrici di concimi e/o antiparassitari, potrebbe fornire all’agricoltore anche i mezzi tecnici necessari per completare il ciclo produttivo). Per le sue prestazioni l’agricoltore riceverà un compenso forfettario che tiene conto dell’impegno richiesto in termini di manodopera e di macchinari specifici. In una situazione di questo tipo l’agricoltore è sgravato da gran parte dei rischi di impresa, ma nello stesso tempo diviene esclusivamente un prestatore di manodopera e di capitale, a favore dell’impresa integrante che rimane proprietaria del prodotto ottenuto. Ovviamente, per una produzione effettuata su commissione, il compenso per l’agricoltore, in una economia di mercato, sarà soggetto alla legge della domanda e dell’offerta, per cui cosa accadrà quando l’impresa che detiene il brevetto su quella pianta troverà un altro agricoltore in grado di fornirgli le stesse prestazioni ad un prezzo inferiore? O quando troverà un altro Paese, con condizioni di costo dei fattori produttivi più favorevoli? E’ ovvio che, a parità di altre condizioni, con ogni probabilità, sposterà le sue produzioni laddove costerà meno ottenerle.
Ma il grande salto di qualità per le ditte che detengono il brevetto, potrà essere ottenuto allorquando la manipolazione genetica sulle piante consentirà di sfruttare l’”apomissia”, ovvero la possibilità di originare piante identiche alla madre anche nel caso di riproduzione sessuata. In particolare, lo sfruttamento dell’”apomissia” consentirà alle ditte sementiere  di  evitare la produzione in campo e la successiva commercializzazione del seme, mantenendo comunque la possibilità di ricavare le royalty dal seme e dalla produzione di cibo; il seme una volta distribuito sarà prodotto autonomamente tutti gli anni dall’azienda agricola, la quale, mediante un apposito contratto di sfruttamento della semente, sarà tenuta a pagare le royalty al detentore del brevetto, ogni qual volta utilizzerà le sementi apomittiche per una nuova semina. L’”apomissia” semplificherà notevolmente la vita al detentore del brevetto, che dovrà attuare un’unica operazione: distribuire una sola volta la semente e incassare le royalty ogni volta che il seme viene seminato ed il cibo viene prodotto. Qualcuno afferma che questo scenario è irrealizzabile, in quanto alle ditte sementiere non converrebbe mettere sul mercato una semente apomittica, poiché lieviterebbero le frodi e occorrerebbe mettere in atto un sistema di vigilanza decisamente costoso. Purtroppo queste affermazioni si scontrano con la realtà, in quanto le grandi multinazionali del seme stanno cercando di evitare questo inconveniente mediante la creazione di una “Apomissia inducibile chimicamente”. In pratica, che cosa accade? Accade che la semente apomittica germina ed origina una pianta identica alla madre solo in presenza di una sostanza chimica che sarà venduta a parte. Da rilevare che tutto questo non è fantascienza, in quanto il brevetto sull’”Apomissia inducibile chimicamente” è già stato richiesto (http://www.ptodirect.com/Results/Publications?query=IN/(Russinova-Eygeniya).

L’aspetto relativo alla brevettabilità degli OGM pone poi altri importanti interrogativi per il nostro Paese, in quanto l’operazione di “ingegneria genetica”, oltre al transgene, necessita anche di una serie di altre sequenze di DNA (promotori, terminatori, ecc.) e di un certo numero di processi tecnologici che sono già brevettati. Questo significa che anche l’inventore più geniale dovrà “comprarsi” tutti i materiali e tutte le tecniche necessarie per far “vivere” la sua invenzione e quindi, se non ha le capacità necessarie, dovrà vendere il suo brevetto ai più forti sul mercato. E’ abbastanza ovvio, quindi, che anche un Paese sviluppato come il nostro, carente in brevetti pregressi e con scarse capacità di investimento nel settore, rischia di restare tagliato fuori per sempre se non viene mitigata la rigidità della protezione brevettuale attuale, ad esempio riducendo il periodo di validità o escludendo una parte di prodotti di utilizzazione generalizzata. I risvolti sociali di tutto questo rischiano di essere pesanti, soprattutto se, come è possibile, le biotecnologie diventeranno veramente quello che promettevano di essere e cioè un mezzo potente per la lotta contro la fame e le malattie della nostra era..


 2.2. – Effetti sul collocamento della merce prodotta

         I sostenitori degli OGM danno per scontato che non vi saranno problemi di collocamento e che i consumatori considereranno le produzioni transgeniche sostanzialmente equivalenti a quelle convenzionali. Purtroppo, anche in questo caso, la realtà è diversa. Lo sanno gli agricoltori americani, che si sono visti respingere le esportazioni di prodotti transgenici da alcuni Paesi che, prima di utilizzarli, vogliono indagare a fondo sulle conseguenze per i consumatori e per l'ambiente.
Nel nostro Paese i sostenitori degli OT affermano che senza di essi  l'agricoltura italiana non sarà competitiva sul mercato mondiale, in quanto i costi di produzione delle coltivazioni convenzionali sono superiori a quelli che si sosterrebbero per produrre piante transgeniche. Tale esigenza nasce dal fatto che in futuro la nostra agricoltura dovrà confrontarsi con quella Americana, Canadese,  Argentina, ecc. In questi Paesi essa è attuata in aziende aventi una superficie media di centinaia di ettari, in cui si è alla continua ricerca dell'automazione dei processi produttivi e nei quali l'unica funzione di questo settore economico è quella di ottenere materie prime in grandi quantità. Sostanzialmente diversa è la situazione presente nel nostro Paese, dove da sempre l'agricoltura è orientata verso l'ottenimento di produzioni di elevata qualità e dove essa svolge anche altre importanti funzioni che non sono esclusivamente legate all'attività produttiva (multifunzionalità dell’agricoltura). Un'agricoltura caratterizzata dalla presenza di aziende di modeste dimensioni, che non si possono certo permettere l'acquisto di macchinari specifici per una determinata coltura, che non sarebbero mai in grado di ammortizzare, da un costo dei fattori produttivi molto elevato (terra e manodopera soprattutto, ma anche energetici), da limitazioni di carattere ambientale in merito all'utilizzazione di determinati fattori della produzione (concimi, antiparassitari, ecc.). Come potrà competere la nostra agricoltura, anche se saranno introdotte le attuali piante transgeniche, con quella americana o argentina, dove aziende agricole di migliaia di ettari sono alla continua ricerca dell'automazione del processo produttivo? Un processo produttivo che sarà controllato dai satelliti e dove l'intervento dell'uomo sarà quasi nullo?
Sempre a proposito di competitività dell'agricoltura nazionale, occorre rilevare che la possibilità di ottenere "nuovi individui" appositamente progettati e realizzati per poter resistere a condizioni pedoclimatiche avverse, pone poi il problema dell'eventuale spostamento della produzione da quelle che attualmente sono le tradizionali aree di coltivazione. Tale nuova localizzazione potrebbe avvenire sia allo scopo, più che legittimo, di aumentare il grado di autoapprovvigionamento di una determinata regione, sia, meno legittimamente, per incentivare la produzione in aree dove è possibile reperire a più basso costo i fattori produttivi necessari ad ottenerla, per poi vendere sui tradizionali mercati i beni ottenuti. In quest'ultimo caso, si determinerebbero problemi legati alla disoccupazione e all'esodo rurale che si verificherebbe nei territori in cui quella particolare coltivazione è abbandonata.
Queste ultime affermazioni pongono problematiche certamente rilevanti per il nostro Paese:
 - cosa ne sarà degli agricoltori che attualmente ricavano un reddito da queste coltivazioni, una volta che sarà possibile ottenerle, sicuramente a minori costi, anche in altre aree del pianeta?;
 - cosa ne sarà del paesaggio rurale, allorché‚ la diminuita possibilità di coltivazione di questi prodotti determinerà il loro abbandono da determinati territori?;
 - quali interventi occorrerà mettere in atto per contrastare l'abbandono di queste coltivazioni, in relazione alla funzione di contenimento del dissesto idrogeologico che molto spesso esse svolgono?
         Come si può osservare la problematica è decisamente vasta e dovrebbe essere affrontata nella sua globalità e non settorialmente com'è stato fatto sino ad ora.


3. – Effetti sui rischi tecnici produttivi

         Trattasi di un elemento estremamente importante per l'agricoltore, poiché a volte il suo reddito è compromesso da un cattivo andamento stagionale. Non v'è alcun dubbio sul fatto che le attuali coltivazioni transgeniche, così come sono state progettate ed attuate, consentiranno di offrire maggior tranquillità all'agricoltore. Piante resistenti ad ogni forma di stress ambientale, piante autoresistenti agli attacchi di insetti, piante che possono essere diserbate in ogni fase del ciclo vegetativo, ecc. A questo punto però ci si può chiedere quale sarà il ruolo dell'imprenditore agricolo in una situazione produttiva di questo tipo, nella quale, spingendo il ragionamento al limite, le uniche operazioni colturali che dovrà effettuare (più realisticamente controllare) saranno quelle di seminare e di raccogliere il prodotto.
Con l'introduzione degli attuali OT l'agricoltore potrebbe perdere parte delle funzioni imprenditoriali, poiché in questo contesto verrà ad assumere sempre più importanza il settore industriale, quale fornitore del materiale di propagazione e dei mezzi tecnici necessari per portare a termine il processo produttivo, nonché quale utilizzatore del prodotto agricolo ottenuto.
L'introduzione di OGM potrebbe comportare anche una diminuzione dell'importanza dell'agricoltura in relazione alle strategie di "sostituzionismo" messe in atto dal settore industriale legato alla trasformazione dei prodotti agricoli. Tale opportunità è resa possibile dallo sviluppo di organismi fortemente specializzati nella produzione di materie prime di base (vitamine, carboidrati, grassi, ecc.). Queste sostanze potranno poi essere utilizzate dall'industria per produrre beni alimentari e non (Patata Amflora per esempio). Ciò implica la fine dell'organizzazione lineare della produzione alimentare, da uno specifico prodotto agricolo ad uno specifico alimento, e la riorganizzazione dell'intera catena alimentare, nonché dei rapporti tra agricoltori e industriali. In particolare, sempre più importanza avranno le coltivazioni su contratto, per le quali il prezzo di vendita all'industria non sarà più stabilito sulla base del quantitativo di mais, di soia o di patata ottenuto, ma sulla base del quantitativo di vitamine, di proteine o quant'altro in esse contenuto.
Dopo queste brevi argomentazioni sull’adozione degli OT in agricoltura sorge spontanea una domanda: come mai nei Paesi in cui la coltivazione di queste piante è consentita si è avuta un’esplosione delle superfici investite, segno dell’apprezzamento di queste piante da parte degli agricoltori? L’aumento delle superfici investite trova una giustificazione che non è legata alla loro redditività, ma alla situazione di mercato in cui gli agricoltori di questi Paesi si trovano ad operare. Infatti, in questi Paesi esiste un’unica filiera produttiva di quel determinato prodotto, sia esso mais convenzionale o transgenico. Pertanto, nel lungo periodo, il prezzo di mercato del mais è condizionato dai minori costi di produzione del “mais transgenico” (determinano un abbassamento del prezzo del mais) rispetto ai costi di produzione del “mais convenzionale”. E’ ovvio che in questa situazione, in cui al “mais convenzionale” è riconosciuto lo stesso prezzo (inferiore) del “mais transgenico”,   anche il produttore che in un primo momento non era intenzionato a coltivare “mais transgenico” sarà “obbligato” a farlo dal mercato se vorrà mantenere un certo grado di redditività dalla sua attività imprenditoriale.
A conclusione di queste brevi considerazioni sui potenziali e probabili effetti dell’introduzione di OT nell’agricoltura nazionale, non occorre sottovalutare il potenziale “danno di immagine” che potrebbe subire il nostro Paese, da sempre caratterizzato da produzioni di eccellenza, che da sempre costituiscono un vanto per il nostro settore agro-alimentare.