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lunedì 31 dicembre 2012

OGM e deruralizzazione del territorio


Gli OGM contribuiranno al mantenimento dell’attività agricole in aree meno dotate da un punto di vista delle capacità produttive dei terreni, le cosiddette aree marginali?

         Trattasi di una problematica di estrema rilevanza, in quanto da sempre l’agricoltura svolge un ruolo di rilievo per la nostra società. Da un lato essa è fonte rinnovabile di beni di consumo, siano essi alimentari e non, dall'altro costituisce l'unica attività che consente di "presidiare" costantemente il territorio, impedendo fenomeni di dissesto idrogeologico e fenomeni legati al degrado dell'ambiente antropizzato. In particolare, in un'ottica di sviluppo sostenibile le principali attività che l'agricoltura, e l'agricoltore, deve assicurare alla collettività possono essere riassunte nelle seguenti:
-      produzione di derrate agricole;
-      fornitura di materie prime per altri settori economici;
-      presidio del territorio;
-      manutenzione del territorio;
-      tutela della flora e della fauna;
-      conservazione della biodiversità;
-      riciclo degli effetti ambientali negativi prodotti da altre attività produttive o di consumo sul territorio (assestamento del territorio, immobilizzazione dell'anidride carbonica, ecc.);
-    conservazione del paesaggio e del territorio rurale;
-    conservazione di elementi culturali tradizionali;
-    conservazione di tecniche di trasformazione e di pratiche gastronomiche tradizionali.
Pertanto, la nostra società ha bisogno della presenza dell’agricoltura e dell’agricoltore sul territorio rurale e dovrà adottare politiche agrarie in grado di proteggere il suo reddito, al fine di consentire la permanenza di questa attività anche in aree marginali (di collina, di montagna), che non possono certo competere sulla base dei bassi costi di produzione, ma che possono essere competitive solo sulla base di presupposti di qualità dei prodotti che offrono sul mercato.Dalle suddette considerazioni si evince che l'aspetto produttivo rappresenta solo una parte delle finalità a cui l'agricoltura deve rispondere, per cui prima di introdurre nel nostro Paese la coltivazione di OGM occorrerà verificare l'impatto che questa tecnologia potrà avere su questo settore economico. In particolare, alcuni dubbi sorgono in merito al mantenimento della sua competitività sul mercato internazionale. L'agricoltura italiana si caratterizza per la presenza di aziende agricole di modeste dimensioni, che spesso non possono certo permettersi l'acquisto di macchinari specifici per una determinata coltura, per un costo dei fattori produttivi molto elevato (terra e manodopera soprattutto) e per limitazioni di carattere ambientale in merito all'utilizzazione di determinati fattori della produzione (concimi, antiparassitari, ecc.). Come potrà competere la nostra agricoltura, anche se saranno introdotte le piante transgeniche, con l'agricoltura americana o argentina, dove aziende agricole di migliaia di ettari sono alla continua ricerca dell'automazione del processo produttivo (e le piante transgeniche costituiscono il primo passo per ottenerla)? Come potrà farlo, se consideriamo che il processo produttivo sarà controllato dai satelliti e dove l'intervento dell'uomo sarà quasi nullo? Trattasi di un problema reale che potrebbe contribuire alla scomparsa dell'agricoltura dai territori marginali, alimentando fortemente tutte quelle problematiche connesse alla conservazione ed alla tutela del territorio. E' senza dubbio un argomento che rappresenta una delle frontiere più interessanti e nello stesso tempo più inquietanti della vita contemporanea, uno dei campi in cui scienza, ricerca, tecnologia ed etica si intrecciano, dando vita a problematiche, spesso sconosciute, che con ogni probabilità si ripercuoteranno a lungo sullo sviluppo della nostra società e su quello delle generazioni future. In particolare, si tratta di una tecnologia fortemente innovativa, che rende le piante simili a laboratori in grado di produrre di tutto ovunque. Con le moderne biotecnologie sarà "finalmente" possibile indurre nelle piante la resistenza al freddo, in modo tale da poter coltivare piante tipicamente mediterranee (agrumi, olivo, vite, ecc.) in ogni parte del pianeta; sarà possibile introdurre resistenza a fattori pedoclimatici avversi (acidità, contenuto di calcare, contenuto di sodio, ecc.) rendendo possibile l'ampliamento delle aree di produzione di qualsiasi pianta; sarà possibile "generare" piante che per fiorire hanno un ridotto fabbisogno di freddo invernale, per cui sarà possibile produrre mele e pere tipiche delle aree settentrionali anche nelle regioni meridionali della penisola; sarà possibile far produrre a piante erbacee annuali le sostanze che attualmente otteniamo dopo anni di allevamento da piante arboree (per esempio sembra che sia possibile ottenere olio di colza uguale a quello ottenuto dalla spremitura delle olive), e gli esempi potrebbero continuare ancora. E' fuori da ogni dubbio il fatto che le potenzialità di questa nuova tecnologia siano enormi e di portata tale da poter affermare che difficilmente sarà possibile operare una obiettiva e rispondente previsione degli effetti che essa potrà avere sul settore agricolo (con particolare riferimento all'azienda agricola) e, conseguentemente, sul territorio rurale, del quale l'azienda agricola è sicuramente soggetto predominante.La possibilità di ottenere "nuovi individui" appositamente progettati e realizzati per poter resistere a condizioni pedoclimatiche avverse pone il problema dell'eventuale spostamento delle produzioni da quelle che attualmente sono le tradizionali aree di coltivazione e/o di allevamento, con conseguente aggravamento delle problematiche legate al presidio e alla conservazione del territorio rurale. Tale nuova localizzazione potrebbe avvenire sia allo scopo, più che legittimo, di aumentare il grado di autoapprovvigionamento alimentare di una determinata regione, sia, meno legittimamente, per incentivare la produzione in aree dove è possibile reperire a più basso costo i fattori produttivi necessari ad ottenerla per poi esportare i prodotti ottenuti sui mercati di consumo. In quest'ultimo caso, oltre ai problemi legati alla disoccupazione e all'esodo rurale che si verificherebbe nei territori in cui quella particolare attività viene abbandonata, inevitabilmente, un aumento dell'impatto ambientale provocato dalle operazioni di condizionamento, trasporto e ridistribuzione, necessarie per far giungere i prodotti dai luoghi di produzione ai mercati di collocamento. In questa situazione verrebbero meno anche gli elementi legati alla "tipicità" delle produzioni agricole, intendendo con questo termine il legame esistente tra tipologia del materiale di propagazione, tecnica di produzione e luogo di produzione. In particolare, con l'introduzione di organismi geneticamente modificati sarà possibile superare il limite naturale che ostacola la diffusione di determinate produzioni in ambiti a loro ostili (è il caso per esempio di gran parte delle produzioni ortofrutticole mediterranee), poichè mediante l'"ingegneria genetica" sarà possibile introdurre geni in grado di conferire alla pianta una specifica resistenza a fattori pedoclimatici avversi. Queste ultime affermazioni pongono problematiche decisamente rilevanti per i Paesi che si affacciano sul mediterraneo:
 - cosa ne sarà degli agricoltori che attualmente ricavano un reddito da queste coltivazioni, una volta che sarà possibile ottenerle anche in altre aree del pianeta? - cosa ne sarà del paesaggio rurale tipico di determinati territori, allorchè la diminuita domanda di questi prodotti determinerà il loro abbandono da parte degli agricoltori?- cosa ne sarà degli elementi di cultura tradizionali legati a determinate produzioni tipiche?- cosa ne sarà delle tradizionali filiere legate alle produzioni agricole localizzate nell’area mediterranea (trasformazione e commercializzazione in primis)?
- quali interventi occorrerà mettere in atto per contrastare l'abbandono di queste coltivazioni, in relazione alla funzione paesaggistica e di contenimento del dissesto idrogeologico da esse determinato?





A decretare la perdita di competitività delle produzioni agricole attuate in aree marginali sarà poi l’inevitabile diminuzione dei prezzi delle materie prime agricole, in relazione all’abbattimento dei costi di produzione generati dagli individui biotecnologici. Infatti, in questo settore economico, al contrario di quanto avviene in quello industriale che opera per la gran parte in condizioni di oligopolio, si è in presenza di un'offerta decisamente atomistica. In questa situazione l'agricoltore non è in grado di controllare il prezzo dei suoi prodotti. E’ forse inutile far osservare che i maggiori danni saranno subiti dalle aziende agricole ubicate in aree marginali, che dovranno continuare ad operare in un mercato in cui troveranno produzioni OGM ottenute in aree molto produttive ed offerte ad un prezzo sempre più basso. Queste aziende, non più remunerative per il mercato, saranno con ogni probabilità abbandonate con tutte le conseguenze di ne potranno derivare in termini di conservazione dell’assetto idrogeologico, di tutela del paesaggio, di presidio del territorio, ecc.
L’inevitabile contrazione dei prezzi indotta dall’utilizzazione di OGM può determinare anche una diminuzione del  reddito reale dell’agricoltore, in quanto i prezzi dei prodotti non agricoli che egli acquista sul mercato rimarranno, nella migliore delle ipotesi, costanti (se il prezzo del grano diminuisce, occorrono più quintali di grano per acquistare un’automobile, un televisore, un abito, ecc.). Addirittura, per la legge di Engel, vi è la possibilità che, in relazione ad un aumento del reddito reale del consumatore, favorito dalla diminuzione del prezzo dei prodotti agricolo-alimentari (se diminuisce il prezzo degli alimenti, a parità di reddito il consumatore può acquistare una maggior quantità di altri beni), si verifichi un aumento della domanda di beni non agricoli, con conseguente aumento del loro prezzo e conseguente ulteriore diminuzione del reddito reale dell'agricoltore. Ecco, allora, che in questa situazione l’agricoltore si sentirà “più povero”, in quanto sarà costretto a produrre di più (anche attraverso un maggior sfruttamento delle risorse naturali) per poter mantenere il precedente livello di benessere, in pratica, per mantenere lo stesso livello di potere d’acquisto. Del resto le moderne biotecnologie in agricoltura incrementando  la  produttività e, soprattutto,  la  produzione agricola, tendono  a  ridurre  i  prezzi  e  a   mettere  in  moto  un   processo  di  "macina  tecnologica"  che  porta,  tra l'altro,  all'espulsione  dal  mercato di una parte di agricoltori  che, nel caso in cui le   condizioni del mercato del  lavoro extra-agricolo lo rendano  possibile, si  spostano su occupazioni extra-agricole  a più alta remunerazione.
Ecco allora che possono venir meno le condizioni che attualmente consentono la permanenza delle aziende agricole anche in territori marginali, dove a fatica l’agricoltore riesce ancora a ricavare un certo reddito dall’attività di coltivazione delle piante e di allevamento degli animali. Cosa ne sarà dell’agricoltura attuata in territori marginali che vedranno diminuire i prezzi dei prodotti agricoli, prezzi che già ora, in molti casi, non sono in grado di fornire un pieno reddito all’agricoltore? La risposta è semplice: con ogni probabilità questi territori saranno abbandonati, con amplificazione dei problemi connessi all’esodo rurale delle famiglie contadine ed al dissesto idrogeologico del territorio. La stessa domanda si può porre in altri termni con conclusioni non dissimili: che cosa  ne sarà  dei fattori  della produzione  liberati dall'adozione degli individui  biotecnologici?  Essi,  con ogni  probabilità, potranno avere due destinazioni:
- potranno essere impiegati in altri settori economici (industriale o terziario) nel caso in cui ve ne sia la necessità;
- potranno  continuare ad  essere impiegati nell'azienda agricola,  nel caso in cui, al contrario della situazione precedente, non vi sia richiesta di tali fattori in altri settori economici.Nel primo caso si avrebbe un aumento dell'esodo rurale, con aumento quindi delle problematiche relative al presidio ed alla manutenzione del    territorio.  Nel secondo caso si assisterebbe ad un aumento dell'offerta di  questi fattori  della produzione,  con conseguente  abbassamento delle relative remunerazioni  e creazione  di aziende agricole extramarginali; aziende che  con  la  loro  attività non   sono  più  in  grado  di  remunerare adeguatamente i fattori della produzione (in esubero) impiegati.
Il minor reddito per il produttore agricolo delle aree marginali è anche conseguenza del fatto che gli OGM sono sostanzialmente disattivanti nei confronti dei fattori della produzione che egli apporta direttamente (manodopera soprattutto) e richiedono, nello stesso tempo, un maggior apporto di fattori esterni all’azienda agricola, fattori produttivi di origine industriale (sementi che offrono dei vantaggi ma che costano di più e fattori produttivi in grado di far produrre le stesse sementi), che l’agricoltore è costretto ad acquistare sul mercato. Questa situazione è particolarmente dannosa per le aziende agricole di modeste dimensioni come quelle italiane, nelle quali il lavoro manuale rappresenta ancora una componente importante del reddito netto derivante dall’attività agricola. Una  politica di  questo  tipo,  operata soprattutto dall'industria produttrice dei mezzi tecnici per  l'agricoltura, è nota  come politica di "appropriazionismo",  mediante la  quale viene perseguita una  strategia che mira  ad aumentare  il grado  di industrializzazione  del processo   produttivo  agricolo  tramite l'espropriazione  di  attività tradizionalmente svolte all'interno  dell'azienda agricola e la loro sostituzione con  input di origine industriale.   Anche in  questo caso si  assisterebbe ad  una perdita di importanza del settore agricolo, che vedrebbe diminuire il  fabbisogno di manodopera,  per lo più  di tipo familiare, necessario  per portare a termine  le produzioni,  con   conseguente  aumento   delle  problematiche   relative  all'esodo rurale, all’occupazione ed al  presidio ed alla  conservazione del  territorio. A questo proposito possiamo affermare che, soprattutto per le coltivazioni erbacee annuali, la semente biotecnologica potrebbe rappresentare il primo passo per consentire la completa automazione del processo produttivo agricolo (piante autosufficienti, resistenti a tutti i tipi di malattie e che crescono ovunque), un processo produttivo che sarà controllato dai satelliti,  che non avrà più bisogno dell’agricoltore o, per lo meno, ne avrà bisogno in modo molto limitato. E’ in questo contesto, ovvero in un contesto in cui il reddito da capitale prevarrà sul reddito fornito dagli altri fattori produttivi (terra e lavoro che molto spesso sono di proprietà dello stesso imprenditore agricolo), che si creano i presupposti per il passaggio del controllo del territorio rurale dall’agricoltore, che non riesce più a ricavare un reddito adeguato dall’attività agricola poiché i fattori della produzione di cui dispone non sono più necessari e quindi non sono più remunerati, ad individui estranei all’attività agricola, che con i propri capitali, o con i capitali di terzi, saranno in grado di subentrare non soltanto nell’attività di coltivazione, ma anche nella proprietà delle aziende agricole.  Tale situazione, inevitabilmente, darà origine a gravi problemi di sostenibilità del territorio rurale, in quanto le tecniche di produzione che questi “nuovi agricoltori” adotteranno saranno sicuramente indirizzate alla massimizzazione del reddito da capitale da loro stessi fornito.
Con  l'introduzione di  individui geneticamente modificati l'agricoltore   potrebbe  perdere parte delle funzioni imprenditoriali, poichè  verrà ad assumere sempre più importanza il settore industriale, quale  fornitore del materiale di  propagazione (semente transgenica resistente ad un determinato diserbante) e dei mezzi tecnici necessari  per portare  a  termine  il processo  produttivo (diserbante complementare alla semente transgenica),  nonchè quale utilizzatore  del prodotto  agricolo ottenuto.  In  particolare, sarà  sempre più  possibile modificare  il  pacchetto  di  informazioni  genetiche  che  controllano  la   crescita  delle  piante  e  le loro  reazioni  nei  riguardi  dell'ambiente.   I programmi di  riproduzione  renderanno  l'agricoltura sempre  più indipendente  dall'ambiente  naturale.  Il raccolto  agricolo non  sarà più  determinato fondamentalmente  dalle specifiche  condizioni   naturali  (natura  del suolo,  clima,  ecc.)  ma dall'ammontare  delle conoscenze scientifiche e  tecnologiche che sono incorporate  nei prodotti di base  (sementi, metodi di difesa), destinati a determinare  dove, come  e  quando   l'agricoltore deve seminare, raccogliere  e quali  cure deve dedicare  alle sue colture.A proposito delle precedenti affermazioni, occorre rilevare che l'introduzione di  individui geneticamente  modificati potrebbe  comportare anche  una diminuzione dell'importanza di questo settore economico in  relazione alle   strategie  di  "sostituzionismo" messe  in  atto dal  settore  industriale  legato  alla  trasformazione dei  prodotti agricoli.  In  particolare,  la  possibilità  recentemente  offerta dalle  biotecnologie  avanzate di  intervenire sulla  base organica    del   processo  produttivo  agricolo,  manipolandola   e controllandola,  consente per  la prima  volta di  rimuovere l'ostacolo che ha finora   impedito  la  completa  industrializzazione  del processo  produttivo agricolo  e la  produzione  industriale di  materia  organica,  in tal  modo permettendo l'unificazione delle varie fasi di produzione di   prodotti alimentari in un  unico processo produttivo di tipo    industriale.  Questa  opportunità è resa  possibile  dallo   sviluppo  di  organismi  fortemente specializzati  nella produzione  di  materie  prime di  base  (vitamine,  carboidrati,   grassi,  ecc.).    Tali  sostanze   potranno poi  essere utilizzate dall'industria  per produrre  beni alimentari e non.
Per lo "sviluppo sostenibile" della nostra agricoltura occorrerà poi rivedere le norme relative alla brevettabilità dei prodotti transgenici, in quanto non è possibile accettare che colui che ha inserito un gene in una pianta acquisisca il “monopolio di fatto” su quella pianta, impedendone, così, la libera coltivazione.

Qualcuno potrebbe affermare che i precedentI scenari sono in contrasto con quello che è accaduto in alcuni Paesi (U.S.A., Canada, Argentina), nei quali, a “testimonianza del gradimento degli agricoltori”, si è avuto un forte incremento delle superfici destinate alla coltivazione di piante transgeniche. A tal riguardo occorre osservare che l’incremento delle superfici si è avuto solo nei Paesi in cui si è in presenza di un’unica filiera di distribuzione per il medesimo prodotto, sia esso transgenico o  non transgenico. In presenza di un’unica filiera, e con prezzi flettenti dei prodotti così come si è verificato per la soia e per il mais transgenici, è ovvio che se l’agricoltore vuole conservare un certo margine di redditività dall’attività di coltivazione, sarà “costretto”, anche suo malgrado, a seminare le cultivar caratterizzate dal minor costo di produzione (ovvero quelle transgeniche). Ecco allora che l’incremento delle superfici coltivate è dovuto, non tanto ad un gradimento dell’agricoltore nei confronti di queste piante, ma alla necessità da parte dello stesso di mantenere un certo margine di redditività dall’attività agricola (è ovvio che se il prezzo del mais transgenico è uguale a quello del mais convenzionale, egli coltiverà quello caratterizzato dal minor costo di produzione, ovvero quello transgenico).
A questo  punto, e sulla  base delle considerazioni precedenti, occorre  valutare attentamente se l’introduzione di OGM in agricoltura  risponde  a  presupposti di  "sviluppo sostenibile", sia da un punto  di vista dei "reali vantaggi"         ottenibili dall'attuale società  e dalle generazioni future,   sia da un punto di vista dei "reali vantaggi" ottenibili dal   settore agricolo.
Occorre rilevare poi che in un futuro ormai prossimo, le nostre produzioni dovranno confrontarsi con quelle provenienti da Paesi caratterizzati da costi di produzione decisamente inferiori ai nostri, da Paesi che non hanno limitazioni nell’utilizzazione di determinati prodotti chimici, siano essi concimi e/o antiparassitari, da Paesi nei quali il lavoro minorile non è tutelato o è, addirittura, incentivato e/o sfruttato, da Paesi che non saranno in grado di garantire il materiale genetico da cui deriva la produzione e l’elenco potrebbe continuare ancora. Ecco allora che nei prossimi anni i problemi per l’agricoltura nazionale deriveranno con ogni probabilità anche dalla globalizzazione dei mercati e dalla conseguente realizzazione di un grande mercato mondiale dei prodotti alimentari, un mercato dove con ogni probabilità l’imperativo sarà produrre di più (non importa con quale tecnica e/o con quale materiale genetico) ai più bassi costi possibili, per poi vendere i prodotti ottenuti laddove ci sono i soldi per acquistarlo.
In un contesto come quello delineato occorre chiedersi: ma i bassi costi e la globalizzazione dei mercati si conciliano con la qualità della produzione da tutti auspicata? Si adattano alla necessità di assicurare un reddito anche agli agricoltori delle aree “svantaggiate” da un punto di vista dei costi di produzione? Si conciliano con lo sviluppo sostenibile del territorio? Riescono a preservare l’identità culturale, economica, sociale e professionale di un territorio?
E’ a queste domande che occorre fornire una risposta, al fine di verificare se nel lungo periodo gli OT e il conseguente processo di globalizzazione dei mercati rappresenti per il territorio rurale del nostro Paese un’opportunità o, al contrario, una strada pericolosa, che potrebbe determinare effetti dannosi per il benessere della nostra società e per quello delle generazioni future.
Pertanto, le problematiche relative all'introduzione di coltivazioni transgeniche di prima generazione sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. In particolare, come per le altre innovazioni tecnologiche, la loro applicazione può essere buona, mediocre o, addirittura, cattiva. Per il momento, le moderne biotecnologie hanno riguardato solo ed esclusivamente applicazioni finalizzate all'automazione del processo produttivo agricolo. Certamente la nostra agricoltura da sempre basata su presupposti di tipicità e di qualità non ha bisogno dell'attuale biotecnologia, che per essere considerata sostenibile dovrebbe avere possibilità applicative decisamente migliori.
Occorrerà poi valutare attentamente se questi "nuovi alimenti" rispondono ad una reale esigenza del consumatore. Soprattutto nell'attuale momento in cui quest'ultimo tende a privilegiare la tipicità, la salubrità e, più in generale, la naturalezza dei prodotti alimentari (il forte aumento del consumo di produzioni biologiche ne è una conferma), si può affermare che il loro sviluppo è sicuramente controtendenza. Una controtendenza che andrà valutata attentamente, al fine di non impiegare risorse e capacità umane nello sviluppo di produzioni delle quali, per il momento, non abbiamo una reale necessità.
In definitiva, compito dell’attuale generazione, se veramente crede che questa tecnologia possa essere determinante per lo sviluppo sostenibile, è quello di fugare ogni dubbio applicativo, in ossequio al principio di precauzione, demandandone l’applicazione in campo aperto alle future generazioni.   

lunedì 17 dicembre 2012

Supersalmone: cresce il doppio in metà tempo e, forse, sarà anche più buono di quello naturale


Il primo animale OGM, geneticamente modificato, in grado di crescere ad una velocità doppia rispetto alle specie selvatiche, è già stato “creato”…..è un pesce…….un salmone. 

I creatori di questo Supersalmone affermano che, grazie all'introduzione nel suo DNA di un transgene che regola la  produzione di un ormone della crescita, ogni individuo sarà in grado di raggiungere la maturità in due anni anziché in tre-quattro, garantendo un'efficienza maggiore nella conversione del mangime in carne. 

L’avventura di coloro che si sono cimentati in questa  impresa, ovviamente fatta allo scopo di alleviare i problemi alimentari che affliggono il nostro Pianeta, è iniziata nel 1991 e ancora non si è conclusa, in quanto la FDA (Food and Drug Administration), pur essendosi pronunciata positivamente sulle qualità nutrizionali e ambientali di questo pesce nel 2010, non è ancora completamente convinta delle sue caratteristiche. 

 Una forte opposizione al supersalmone arriva dalla Food & Water Wathc, una delle più grandi associazioni ambientaliste americane, che denuncia i tentativi di addomesticare i regolamenti dell'FDA in senso favorevole all'approvazione di animali GM, e definisce il supersalmone inutile e rischioso. 

Occorre infine ricordare che presupposto indispensabile per lo sfruttamento della Transgenesi (OGM) Animale è la Clonazione degli animali stessi, poiché  la riproduzione sessuale tende a far scomparire la modifica introdotta, mentre la riproduzione clonata la rende stabile, consentendo di ottenere animali tutti identici.

A questo punto varrebbe la pena di riflettere almeno sulla perdita di biodiversità….una perdita di non poco conto. 

Ancora una volta, anche nell’ambito degli “animali OGM clonati”, si spera che gli interessi economici non prevalgano su quelli dei cittadini e si auspica che il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) non ci obblighi ad importare carne ottenuta da “Animali OGM Clonati”, poiché ritenuta “Sostanzialmente equivalente” a quella naturale. 


martedì 11 dicembre 2012

Il brevetto sul cibo. Aumenterà o diminuirà la libertà dell’uomo?


In questa sede non si vuole entrare nel merito dell’utilità del Brevetto per lo sviluppo della nostra Società. E’ risaputo, infatti, che la tutela brevettuale può rappresentare un incentivo allo sviluppo tecnologico e che molti prodotti di uso comune, e quindi di elevata utilità, sono stati studiati, creati e diffusi solo grazie alla tutela brevettuale. In particolare, il Brevetto è lo strumento giuridico che conferisce all'autore di un'invenzione il monopolio temporaneo di sfruttamento dell'invenzione stessa, ossia il diritto di escludere terzi dall'attuare l'invenzione e dal trarne profitto.

Il brevetto, pertanto, rappresenta una sorta di  monopolio legale, seppur limitato territorialmente e temporalmente. Tale monopolio legale si giustifica con il fatto che il sistema brevettuale è basato su una forma di scambio: il titolare del brevetto riceve protezione per la propria invenzione e in cambio è obbligato a svelare e a descrivere l'invenzione stessa. Durante il periodo di applicazione del Brevetto, il detentore può sfruttare economicamente la protezione brevettuale, al fine di ottenere un ritorno economico per le spese di ricerca e sviluppo sostenute.

In un contesto di questo tipo si riscontrano tutti gli effetti del monopolio. In particolare, in un primo momento il Brevetto determina una tenuta dei prezzi di vendita del prodotto brevettato, in relazione al fatto che il monopolista è protetto dalla Legge e può applicare o una “politica dei prezzi”, mantenendo alti prezzi di vendita del prodotto (sarà poi la domanda ad adeguarsi a questi prezzi) o una “politica delle quantità”, attraverso un contingentamento volontario delle quantità immesse sul mercato (in questo caso sarà la domanda che sulla base della quantità richiesta stabilirà il prezzo di mercato). Solo in un secondo momento, ovvero trascorso il periodo di tutela brevettuale, la Società otterrà reali benefici dal consumo dei beni coperti da brevetto, in quanto si aprirà il mercato alla concorrenza, i costi di produzione scenderanno e con loro i prezzi di mercato. A questo, e con particolare riferimento ai brevetti in ambito agroalimentare, occorre evidenziare che per le nuove varietà vegetali i diritti esclusivi nascenti dal brevetto durano 15 anni dalla concessione del brevetto stesso (30 anni nel caso di piante arboree). Soprattutto in ambito agroalimentare, è facile immaginare che dopo 15 anni quella determinata varietà sarà obsoleta, sarà superata, per cui sarà sostituita da un’altra varietà che a sua volta sarà tutelata dal brevetto per altri 15 anni! E’ facilmente intuibile che in questo modo il costitutore, mediante una attenta analisi dei tempi tecnici di introduzione di nuove cultivar, sarà  in grado di mantenere il brevetto sul seme di una determinata pianta per un tempo illimitato.

Dobbiamo essere convinti del fatto che l’introduzione di Organismi Transgenici (OT) in agricoltura è fortemente correlato, se non addirittura condizionato, dalla possibilità di brevettare il risultato della manipolazione genetica; se non ci fosse il brevetto, con ogni probabilità, non ci sarebbero nemmeno OT e oggigiorno, forse, non si parlerebbe di questo argomento. Relativamente alla tutela brevettale delle innovazioni tecnologiche, ciò che lascia maggiormente perplessi è l’utilizzazione del brevetto in ambito agricolo, soprattutto nel caso in cui riguardi piante o animali di fondamentale importanza per l’alimentazione umana. Nella fattispecie, non stiamo parlando di una funzione fisiologica della quale ognuno di noi, volendo, potrebbe farne a meno; stiamo parlando di alimentazione, un’azione che bene o male ognuno di noi deve compiere obbligatoriamente almeno tre volte al giorno. Sono queste considerazioni che differenziano sostanzialmente i brevetti su materiale elettronico o su capi di abbigliamento, da quelli su piante ed animali ad uso alimentare, in quanto essi potrebbero mettere in discussione anche la sovranità alimentare di un Paese. E di questo, ovviamente, si sono accorte le grandi multinazionali del seme, che stanno facendo di tutto per ottenere il monopolio nella produzione e nella distribuzione del seme, poiché non si tratta del solo seme, ma anche di tutto ciò che è possibile trovare a monte e a valle della produzione del cibo. In particolare, alcune domande sullo sfruttamento del brevetto esigono una risposta prima di adottare piante ed animali transgenici in agricoltura:

 - esistono delle limitazioni allo sfruttamento economico del brevetto? 

- chi decide in merito alla qualità dell’alimento?

- il detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento le caratteristiche intrinseche del prodotto alimentare?

- come potranno essere modificate le caratteristiche nutrizionali?

- il detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento il legame esistente tra qualità del prodotto e luogo di produzione?

- da un punto di vista etico, sarà tutto consentito o vi saranno delle limitazioni?

In questa sede non si vuole affrontare la problematica, tutta ancora da chiarire, relativa alla liceità o meno dell’utilizzazione del brevetto per affermare un diritto privato di proprietà su piante ed animali, ma si vogliono esclusivamente evidenziare gli effetti che l’applicazione della tutela brevettuale potrebbe avere sul settore agricolo nazionale. Cosa significa "brevetto" per il settore agricolo italiano e, in particolare, quali effetti potrebbe avere per il reddito dell’agricoltore?

In primo luogo, il brevetto sulle piante e sugli animali contribuirà ad aumentare la dipendenza economica del settore agricolo nei confronti di quello industriale, in quanto l'agricoltore sarà costretto ad acquistare tutti gli anni la semente che intende coltivare o l’animale che intende allevare. Qualcuno potrebbe far rilevare che, di fatto, questo già accade per la gran parte delle sementi oggi coltivate. Vero! Nel caso degli OT, a parte la situazione di monopolio che si verrebbe a determinare, il brevetto significa qualcosa di più, in quanto l’agricoltore, oltre all’acquisto delle sementi, potrebbe essere “obbligato” ad acquistare anche la materia prima in grado di far produrre queste sementi (è il caso delle piante di soia e di mais resistenti ad uno specifico diserbante). In futuro il problema potrebbe essere amplificato dal fatto che le ditte che propongono questi nuovi organismi, per proteggersi dall’utilizzazione illecita di sementi brevettate, potrebbero inserire geni che consentono la germinazione del seme solo nel caso di contemporanea presenza di una sostanza particolare, che sarà venduta insieme alla semente. Se sarà vero poi, come ovviamente si spera, che questi nuovi organismi non avranno alcun effetto sulla salute umana e sull’ambiente, occorrerà considerare che la loro completa accettazione da parte del mercato  (presenza di una sola filiera di distribuzione, assenza di etichettatura obbligatoria dei prodotti OGM, ecc.) determinerà un forte vantaggio competitivo per le ditte sementiere, con creazione di un mercato in condizioni di monopolio o “quasi monopolio”. Si verrebbe a determinare ciò che, di fatto, è già avvenuto nei Paesi dove si registra un’accettazione incondizionata di questi nuovi alimenti: la presenza di un’unica filiera di distribuzione (per esempio per il mais significa un unico prezzo di mercato), associata ad una diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti transgenici, ha determinato un’esplosione delle superfici coltivate con questi nuovi organismi. In pratica, cos’è accaduto? Il minor costo di produzione delle coltivazioni transgeniche ha determinato un abbassamento dei prezzi di mercato dei relativi prodotti, siano essi transgenici e non. Pertanto, anche gli agricoltori che in un primo momento non volevano coltivare transgenico sono stati costretti a farlo dal mercato, se volevano mantenere un certo grado di redditività dall’attività agricola.

Da un punto di vista della sfruttabilità economica, il detentore del brevetto potrebbe limitarsi a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, lasciando libertà di scelta all’agricoltore in merito alle diverse opportunità di vendita sul mercato del prodotto ottenuto. Tale somma di denaro potrebbe essere vista come il giusto compenso per colui che ha investito in ricerca e sviluppo ed è riuscito ad ottenere una pianta caratterizzata da un surplus di utilità per l’agricoltore e per il consumatore. Occorre comunque rilevare che, soprattutto nel caso in cui il mercato della semente  sia in condizioni di monopolio, a differenza di quanto precedentemente affermato, l’imposizione di una royalty sulla semente potrebbe limitare il processo di riduzione dei costi di produzione, in quanto il monopolista, con ogni probabilità, sarà portato ad aumentare il prezzo di vendita della semente di un’aliquota  prossima al maggior margine che essa sarà in grado di determinare al produttore agricolo, con annullamento dei potenziali vantaggi economici per il coltivatore e, conseguentemente, per il consumatore (in pratica se la semente transgenica determina una diminuzione dei costi di 100 €/ha, il monopolista della semente potrebbe far pagare la semente 99 € in più ed accaparrarsi tutto il vantaggio). Pertanto, il brevetto potrebbe impedire l’attesa riduzione dei prezzi di mercato dei prodotti alimentari, annullando così anche l’auspicato ampliamento delle possibilità di acquisto di cibo da parte delle classi sociali economicamente più deboli (quelle classi sociali che in molti Paesi soffrono la fame perché non dispongono del reddito necessario per acquistare il cibo).
Rispetto alla situazione precedente, il detentore del brevetto potrebbe andare oltre. In particolare, oltre a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, potrebbe richiedere una royalty anche per ogni chilogrammo di prodotto ottenuto da quella semente. Il brevetto in questo caso porterebbe grandi vantaggi a colui che ne detiene la proprietà  e trasformerebbe l’agricoltore in un “dipendente” della stessa ditta proprietaria del seme, in quanto più l’agricoltore produce e più questa ditta guadagna.

Il detentore del brevetto potrebbe non accontentarsi  e potrebbe riservarsi anche la proprietà della produzione finale, attuando la produzione per conto proprio, sulla base di un rapporto contrattuale con l’agricoltore.  Trattasi di modalità di produzione che già avvengono in agricoltura (contratti di soccida) e che sarebbero amplificate dalla presenza di un forte ricorso al brevetto. In particolare, colui che detiene il brevetto non venderebbe la semente sul mercato e potrebbe sottoscrivere con l’agricoltore un “contratto di coltivazione”, nel quale sono indicate le epoche di semina, le modalità di coltivazione e quant’altro serve per portare a termine il processo produttivo, riservandosi la proprietà del prodotto una volta giunto a maturazione. Ovviamente per l’attività prestata l’agricoltore riceverà un compenso, che sarà commisurato all’impegno richiesto in termini di apporto di fattori della produzione (terra, lavoro, capitale). In una situazione come quella evidenziata, l’agricoltore non avrebbe alcun potere contrattuale, per cui la presenza di un unico  detentore della semente, associata al fatto che i coltivatori non sono in grado di manifestare un’unica controparte, li metterebbe tra loro in concorrenza per l’acquisizione della commessa di coltivazione.  E’ facilmente intuibile che in questa situazione si determinerebbe una tendenza verso il basso del compenso relativo allo svolgimento dell’attività agricola, in quanto, nel peggiore dei casi per la nostra agricoltura, colui che possiede il brevetto potrebbe trovare in altri Paesi migliori condizioni contrattuali per attuare il processo produttivo agricolo.

Ma il grande salto di qualità per le ditte che detengono il brevetto, potrà essere ottenuto allorquando la manipolazione genetica sulle piante consentirà di sfruttare l’”apomissia”, ovvero la possibilità di originare piante identiche alla madre anche nel caso di riproduzione sessuata. In particolare, lo sfruttamento dell’”apomissia” consentirà alle ditte sementiere  di  evitare la produzione e la successiva commercializzazione del seme, mantenendo comunque la possibilità di ricavare le royalty dal seme e dalla produzione di cibo; il seme una volta distribuito sarà annualmente prodotto autonomamente dall’azienda agricola, la quale, mediante un apposito contratto di sfruttamento della semente, sarà tenuta a pagare le royalty al detentore del brevetto, ogni qual volta utilizzerà le sementi apomittiche per una nuova semina. L’”apomissia” semplificherà notevolmente la vita al detentore del brevetto, che dovrà attuare un’unica operazione: distribuire una sola volta la semente e incassare le royalty ogni volta che il seme viene seminato ed il cibo viene prodotto. Qualcuno afferma che questo scenario è irrealizzabile, in quanto alle ditte sementiere non converrebbe mettere sul mercato una semente apomittica, poiché lieviterebbero le frodi e occorrerebbe mettere in atto un sistema di vigilanza decisamente costoso. Purtroppo queste affermazioni si scontrano con la realtà, in quanto le grandi multinazionali del seme stanno cercando di evitare questo inconveniente mediante la creazione di una “Apomissia inducibile chimicamente”. In pratica, che cosa accade? Accade che la semente apomittica germina ed origina una pianta identica alla madre solo in presenza di una sostanza chimica che sarà venduta a parte. Da rilevare che tutto questo non è fantascienza, in quanto il brevetto sull’”Apomissia inducibile” è già stato richiesto 

Il brevetto su una pianta potrebbe consentire ai Paesi che ne detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in località prossime ai mercati di collocamento, rendendo così competitive produzioni che attualmente sono penalizzate dagli elevati costi di trasporto/commercializzazione, evitando nel contempo le problematiche ambientali che queste coltivazioni potrebbero comportare se fossero attuate sul loro territorio. Per alcune produzioni questo già avviene. Cos’è accaduto? Alcuni Paesi, vuoi perché non hanno condizioni pedoclimatiche favorevoli, vuoi perché non sarebbero concorrenziali sul nostro mercato a causa degli elevati costi di trasporto, stanno producendo sul nostro territorio su base contrattuale alcuni prodotti dei quali detengono il brevetto; tali prodotti al momento della raccolta diverranno di loro proprietà. Ecco che in questo modo qualsiasi Paese, anche senza alcuna vocazionalità produttiva, e, al limite, senza disponibilità di territorio agricolo, di strutture e di competenze agricole specifiche, potrebbe divenire un protagonista nel mercato del cibo; la produzione sarebbe attuata nel nostro Paese per conto terzi, ovvero per conto di colui che ha il brevetto del materiale di propagazione, che si approprierà del valore aggiunto di questa coltivazione.
Gli esempi precedenti, costituiscono per il nostro Paese un vantaggio o uno svantaggio? Si adattano a tutte le coltivazioni o solo a quelle brevettate? E il consumatore otterrà dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre rispondere a queste domande prima di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi controproducenti per il nostro Paese.
A conclusione di quanto precedentemente esposto, è possibile affermare che il brevetto su piante ed animali transgenici sarà in grado di sconvolgere il modo di produrre in agricoltura. Lo scenario sarà quello di un settore in cui l’agricoltore avrà perso ogni potere decisionale; egli diverrà semplicemente un fornitore di mezzi di produzione a favore di colui che detiene il brevetto di quel prodotto, che diverrà anche proprietario del cibo. Cibo che potrà essere ottenuto in ogni parte del Globo, non importa con quale materiale genetico, non importa con quale tecnica di produzione, non importa con quali tutele sociali. Tutto questo comporterà la realizzazione di un grande mercato mondiale dei prodotti alimentari, un mercato dove l’imperativo sarà produrre di tutto ovunque, ai più bassi costi possibili, per poi vendere il prodotto laddove ci sono i mezzi economici per acquistarlo. 

lunedì 10 dicembre 2012

Gli OGM del futuro, di nuova generazione. Gli OGM che vorrei


Che sia chiaro! Nessuno è contro la ricerca scientifica. Nessuno è contro lo sviluppo tecnologico. In particolare, la ricerca sugli OGM, se fatta con le dovute cautele, deve andare avanti. Occorre però considerare che lo sviluppo tecnologico, che non attiene certo al campo della ricerca scientifica, non è neutro e deve sottostare a giudizi economici, politici ed etici.

Soprattutto da un punto di vista economico, occorre considerare che il nostro Paese con il 7% circa della superficie agricola utilizzata (12,7 milioni di ettari), produce il 13% circa del fatturato agricolo dell'Ue (50.000 milioni di euro), segno inequivocabile di una produzione di alto valore aggiunto, decisamente apprezzata dal consumatore. Da un punto di vista economico e sociale si tratta di un grande patrimonio da tutelare, in quanto la produzione agricola per il mercato rappresenta solo una parte dei reali benefici che il settore agricolo apporta alla collettività. Non dobbiamo dimenticare che nel nostro Paese il ruolo dell'agricoltura è di fondamentale importanza per il presidio e la manutenzione del territorio, per la conservazione dell'assetto idrogeologico, per la conservazione e la tutela del paesaggio, per la conservazione della biodiversità, per la creazione di spazi ad uso ricreazionale, ecc. Pertanto è riduttivo vedere l'agricoltura solo dal lato produttivo per il mercato, occorre vederla, e tutelarla, per le esternalità positive che fornisce.


In questa situazione, in cui i prodotti tipici giocano un ruolo di rilievo per l'economia agricola del nostro Paese, costruita in anni e anni di  impegno produttivo (Assistenza Tecnica alle aziende, Consorzi dei produttori, ecc.) e legislativo (Leggi sul biologico, sulle denominazioni di origine, sull’etichettatura, IGP, DOP, ecc.), è necessario attuare tutte quelle strategie in grado di preservare e di non disperdere questo importantissimo patrimonio economico/sociale. Tra l’altro, l’unico patrimonio che ci consente di essere competitivi sul mercato globale, poiché, occorre essere molto concreti e riconoscerlo, ad essere competitivi sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita proprio non ce la facciamo.

Pertanto, il vero stallo della situazione, “OGM sì”/”OGM no”, sono gli effetti provocati da una forzata coesistenza tra coltivazioni transgeniche e coltivazioni convenzionali, ovvero la possibilità per chi produce di non essere obbligato a produrli (dal flusso genico, dal mercato, ecc.) e per chi consuma di non essere obbligato ad acquistarli (soprattutto come derivati dai trasformati, ovvero carne, latte, uova, ecc.).

E’ possibile una via d’uscita? Come se ne potrebbe uscire? Come se ne esce?

A molti sembrerà impossibile, ma la tecnologia transgenica ha fatto passi da gigante e si potrebbe trovare una via di uscita che consentirebbe di mettere d’accordo sia coloro che gli OGM proprio non li possono vedere, sia coloro che li vorrebbero mangiare tutti i giorni a colazione, a pranzo e a cena. In particolare, di seguito alcune azioni, già possibili da un punto di vista tecnologico, che se messe in atto potrebbero favorire una soluzione alla problematica della coesistenza tra coltivazioni convenzionali e coltivazioni transgeniche:

1 - transgeni nei cloroplasti. Il Cloroplasto è un organulo presente nelle cellule ed è preposto a svolgere il processo fotosintetico. Pertanto i Cloroplasti si trovano solo nelle parti verdi della pianta e non sono presenti nel polline e, pertanto, se il transgene fosse inserito nei Cloroplasti, non avremmo il fenomeno di "inquinamento genetico" prodotto dal polline. Se le piante OGM avessero il transgene nei cloroplasti, la coesistenza sarebbe sicuramente possibile e, così, chi vuole continuare a produrre biologico o convenzionale può continuare a farlo senza la paura di ottenere alla fine della coltivazione un prodotto che è in parte OGM a causa dell’”Inquinamento genetico” determinato dagli OGM con transgene inserito nel nucleo, così  come hanno gli attuali OGM. Questa strada è stata indicata anche da eminenti studiosi degli OGM, come il prof. Scarascia Mugnozza, il prof. Sala e il prof. Salamini (questo link non funziona più, era dell'Accademia Nazionale di Agricoltura ......... strano, era un documento molto ben fatto sugli OGM! Io l'ho memorizzato e riporto la frase del prof. Salamini ...... "Lo sviluppo, pure recente, di procedure che permettono di trasformare il cloroplasto prefigura la produzione di varietà OGM incapaci di trasmettere, con il polline, il transgene che ospitano, contribuendo così a ridurre i problemi legati alla diffusione di geni ingegnerizzati dall’uomo nei biotopi limitrofi ai campi coltivati.” - T. Maggiore 1, F. Salamini 1,2 - Ricerca, innovazione e progresso dell’agricoltura - 
1 Dipartimento di Produzione Vegetale, Università degli Studi, Facoltà di Agraria, Via Celoria 2, 20133 Milano
2 Dept. of Plant Breeding and Yield Physiology, Max-Planck Institut für Züchtungsforschung, Carl-von-Linné Weg 10, D-50829 Köln, Germany). Se proprio ve la sentite di aprire questo documento curato da Battaglia, potete leggere cosa c’è scritto a pagina 204;

2 - promotori inducibili. I promotori hanno il compito di attivare il transgene e funzionano a grandi linee come degli interruttori della corrente elettrica (acceso/spento). I promotori possono essere Costitutivi (mantengono sempre attivo il transgene) o Inducibili (attivano il transgene solo in determinate condizione, come per esempio la presenza della saliva dell'insetto che sta mangiando e danneggiando il mais). Le attuali piante OGM hanno promotori Costitutivi e questo è un grosso difetto, poichè nel caso del mais Bt gli insetti si "abituano" alla tossina Bt e maturano una resistenza genetica. Pertanto, sarebbe auspicabile creare piante OGM con promotori Inducibili, al fine di limitare l'insorgenza di insetti con patrimonio genetico di resistenza al BT, a tutto vantaggio delle prestazioni del mais Bt e degli agricoltori biologici, che, altrimenti, si troverebbero a contrastare sempre nuovi geni di virulenza degli insetti. Si legga a questo proposito un documento, pag. 208, scritto da un folto gruppo di sostenitori degli OGM. Anche il prof. Sala ne ha parlato di questo difetto degli attuali OGM;

3 - assenza di marcatori antibiotici. I marcatori di resistenza agli antibiotici vengono utilizzati durante l'operazione di selezione delle cellule vegetali trasformate (marcatori di resistenza alla Kanamicina, alla Neomicina, ecc. Antibiotici vecchi, ormai sostituiti da antibiotici più moderni). Alcuni ricercatori hanno manifestato perplessità nell'utilizzazione dei marcatori antibiotici, poichè vi sarebbe la possibilità, tutta da verificare, che questa resistenza possa essere acquisita dai batteri patogeni per l'uomo, con indubbi elementi di preoccupazione. Sarebbe auspicabile anche l'eliminazione dei marcatori antibiotici che l’EFSA ha classificato nel “Gruppo 1” (nel gruppo 1 dell’EFSA sono classificati geni per la resistenza ad antibiotici che (a) sono già ampiamente diffusi nel suolo e nei batteri enterici e (b) conferiscono resistenza ad antibiotici che non hanno o hanno una rilevanza terapeutica minima nella medicina umana e veterinaria), così evitiamo polemiche/discussioni sulla diffusione delle resistenze agli antibiotici anche a batteri patogeni per l’uomo;

4 - libera coesistenza, resa possibile dalle azioni precedenti, poiché se il polline non contiene il transgene e gli insetti non maturano resistenze genetiche, è possibile una pacifica coesistenza produttiva e commerciale, senza la paura che si verifichino effetti indesiderati;

5 - etichettatura degli alimenti e dei derivati OGM, condizione minima per avere un mercato trasparente sia per il produttore, che così riuscirebbe a spuntare i giusti prezzi, sia per il consumatore, che potrebbe fare una scelta consapevole. Essa è già prevista per gli OGM direttamente destinati all’alimentazione umana, mentre non è prevista (almeno al momento in cui si scrive – dicembre 2012) per i derivati ottenuti dalla trasformazione di OGM (carne, latte, uova, ecc.). Questo, ovviamente, è fonte di incertezza per il consumatore, che acquista senza volerlo OGM, e costituisce una sorta di “concorrenza sleale” per il produttore nazionale che decide di non acquistare/utilizzare mangimi OGM per l'alimentazione animale;

6 - libero mercato, allorché il consumatore potrà scegliere tra “alimenti OGM” e “alimenti Non OGM”, siano essi alimenti direttamente utilizzabili nell'alimentazione umana, siano essi derivati dalla trasformazione di OGM (carne, latte, uova, ecc.). Così chi ha il prodotto maggiormente gradito dal consumatore sopravvivrà, l'altro sarà costretto a soccombere.

Come si è potuto vedere, sono piccole/modeste azioni che possono portare alla definitiva risoluzione dell'infinita querelle che ormai da anni caratterizza l'applicazione in ambito agroalimentare di questa innovazione tecnologica.

mercoledì 5 dicembre 2012

Agrobiotecnologie e OGM: una valutazione di ordine etico


Agrobiotecnologie e OGM: una valutazione di ordine etico
Prof. Carlo Mons. Rocchetta
Consigliere Ecclesiastico Nazionale della CNCD

L'utilizzazione delle biotecnologie in campo agro-alimentare rappresenta una rivoluzione tanto rilevante da poter essere paragonata all'invenzione del fuoco alle origini dell'umanità, alla scoperta dell'energia elettrica in epoca moderna o all'utilizzazione dell'energia ato­mica in età contemporanea. Come tale, essa porta con sé una grande quantità di interrogativi etici su cui tutti, e specialmente noi credenti, siamo chiamati ad interrogarci. E' in gioco infatti il futuro stesso della comunità umana e del creato, della qualità della vita, dell'agricoltura e della sicurezza alimentare.
La posizione della Chiesa cattolica è, in questo senso, di grande prudenza, come è stato perfettamente espresso nella parole che il Santo Padre ha pronunciato nel Giubileo degli agricoltori, quando ha invitato gli operatori del mondo agricolo a:
"resistere alle tentazioni di una produttività e di un guadagno che vadano a discapito del rispetto della natura. Da Dio la terra è stata affidata all'uomo 'perché la coltivasse la custodisse' (Gen 2,15). Quando si dimentica questo principio, facendosi tiranni e non custodi della natura, questa prima o poi si ribellerà”.
E aggiungeva:
"E' un principio da ricordare nella stessa produzione agricola quando si tratta di promuoverla con /'applicazione di biotecnologie, che non possono essere valutate solo sulla base di immediati interessi economici. E' necessario sottoporle previamente ad un rigoroso con­trollo scientifico ed etico, per evitare che si risolvano in disastri per la salute dell' uomo e per l'avvenire della terra".
Una posizione non di chiusura, ma di discernimento e di opportuna cautela, in cui sono implicati almeno tre nodi problematici:
. il dialogo tra scienza e morale, evitando ogni fondamentali­smo e operando perché la scienza sia a servizio della persona umana e della collettività, non solo dell'economia e degli inte­ressi di pochi gruppi finanziari;
. la questione del rischio etico in campo agrobiotecnologico, mettendo in primo piano il principio della massima precauzio­ne rispetto a quello del cosiddetto "danno calcolato";
. il rispetto della natura, con interventi che non le facciano violenza, ma che salvaguardino l'unità dell'ecosistema e la biodi­versità.
E' chiaro che la mia riflessione si limita alla questione degli OGM in campo agro alimentare, lasciando da parte tutta la problematica relativa alla biomedicina e alla farmaceutica. Ritengo infatti che si debba porre una netta distinzione tra i due ambiti:
. il campo delle applicazioni biomediche e farmaceutiche è circoscritto alla cura di determinate situazioni di malattia e puòessere tenuto sotto un sufficiente controllo;
. il discorso delle agrobiotecnologie avanzate è invece indirizza­to ad intervenire sulla natura in una forma globale, introducen­do modifiche sostanziali nel sistema-vita e nella relazione tra le specie, con effetti a campo aperto certamente più difficili da controllare.


1.  IL DIALOGO TRA SCIENZA E MORALE

La scienza riveste certamente un compito primario nel cammino dell'umanità, e nessuno si sogna di negarne la validità. Il problema è sapere quale scienza, a servizio di chi e di che cosa? E' questo l'interrogativo di fondo.

1.1. - Si deve in primo luogo distinguere tra ricerca scientifica e applicazioni, tra scienza e tecnologia. Non a caso il Santo Padre parla di "applicazione biotecnologiche", non di "ricerca scientifica".
La ricerca scientifica è necessaria, a condizione ovviamente che si attui con mezzi leciti e sia indirizzata a fini umanistici, e si ponga quin­di a servizio della vita e di una sua migliore qualità, e mai contro.
Le applicazioni biotecnologiche richiedono invece di essere sottoposte al vaglio delle scienze dello spirito (dall'etica alla filosofia della scienza, al diritto e alla stessa politica), evitando ogni forma di integralismo scientifico in base a cui ciò che è tecnicamente possibile diviene ipso facto, sempre e in ogni caso, eticamente valido e legittimo. Non è così!
Se ci si deve guardare dal pregiudizio antiscientifico, ci si deve in pari tempo e con la stessa forza tenere lontani da ogni determinismo scientifico.
Non è corretto, sotto il profilo etico, passare direttamente dalle scoperte scientifiche alle loro immediate applicazioni senza la mediazione delle scienze dello spirito, senza quindi una verifica interdisciplinare sulle implicazioni che esse possono avere sul piano del bene della per­sona e del bene comune.
Non si tratta - come è chiaro - di fermare anacronisticamente la scienza, ma di farle ritrovare il suo vero statuto, la sua vera funzione antropologica, mettendola in dialogo con la comunità civile e con le altre scienze, in modo che si possa attuare:
. come scienza-sapienza, come un "sapere" a servizio dell'uo­mo, e non come un potere illimitato, per lo più in mano ad interessi di parte o di solo mercato;
. come scienza umanistica, cosciente delle sue enormi responsabilità nei confronti della comunità umana e dell' ambiente naturale, dell'oggi e del domani del pianeta terra.

1.2. - Ed è qui che interviene il secondo dato da precisare. A chi e a che cosa deve obbedire la ricerca scientifica e le sue applicazioni: a criteri solo di guadagno o non a criteri più alti? Sta in questo interrogativo uno dei punti nodali da sciogliere.
La quasi totalità della ricerca scientifica è oggi in mano a grandi gruppi privati che mirano ad applicazioni solo (o quasi solo) legate al profitto. E' giusto questo? A quali conseguenze conduce una simile situazione?
Non è giusto e le conseguenze sono che la scienza e le sue applicazioni finiscono per essere solo a servizio del grande capitale o della finanziarizzazione dell' economia.
E' urgente rivedere questa situazione e operare con sempre più forza perché la ricerca scientifica sia affidata anzitutto ad Enti Pubblici che ricerchino, nelle applicazioni, ciò che è il bene della collettività e dell’umanità, e non interessi particolari o di mero guadagno. Penso alla Comunità Europea e ai suoi ingenti fondi. Penso ai singoli Stati: che cosa fanno per promuovere autonoma­mente la ricerca scientifica? Più in particolare è legittimo chieder­si: perché gli enormi investimenti economici utilizzati per la ricer­ca dei prodotti transgenici non sono impiegati in una prospettiva positiva, per la conservazione, il miglioramento e l’incremento delle diverse specie esistenti, invece che per il loro impoverimen­to? Perché, ad esempio, questi enormi investimenti economici non sono utilizzati:
. per il rafforzamento della variabilità genetica naturale e il suo miglioramento?
. per la ricerca di antiparassiti naturali e il controllo delle erbe infestanti?
. per la gestione ecologica dei rifiuti e l'incremento delle tecni­che agronomiche di fertilizzazione?
. per metodi ecologici di produzione e di conservazione degli alimenti?
. per sostenere l'agricoltura ecocompatibile, invece di sottoporla al pericolo di contagio derivante dalle colture transgeniche?
. per l'incremento della qualità e della tipicità dei prodotti regionali e per un miglior equilibrio dell'ambiente?
Evidentemente questi settori non sono remunerativi.
Proprio il caso degli OGM è emblematico a riguardo: la prudenza che molti di noi manifestano, riguarda gli attuali OGM, derivanti da incroci transgenici, ossia dalla combinazione sistematica tra regni e specie diverse. Sono questi OGM che creano forti dubbi sia sul piano del rispetto della natura che per gli effetti che si possono avere sul­l'ambiente, sulla salute e la salubrità dei cibi.
Non è escluso che si possa pensare a OGM, chiamiamoli "eco­compatibili", ossia ad organismi rafforzati usufruendo delle loro stesse risorse o di incroci naturali, come si è sempre fatto in agricoltura, usufruendo per questo delle enormi possibilità che la scienza mette oggi a disposizione. Sarebbe questo un investimento importante, perché eliminerebbe alcuni eccessi di pesticidi e renderebbe la pianta capace, da sola, di difendersi da alcuni parassiti, senza fare violenza alla natura o correre il rischio di determinare effetti non previsti.
Perché non si fa? Evidentemente è un procedimento più lungo e non fa guadagnare come gli attuali OGM. Sono un po' transcent, ma non credo ci siano altre spiegazioni. E' una via percorribile? Personal­mente e concretamente se, a livello di principi, vedo l'opportunità di questa via, ne colgo al tempo stesso la difficoltà di attuazione, dato che tutto il discorso degli OGM è ormai gestito dal grande potere eco­nomico. Ma qualcosa bisognerà pur fare!


2. LA QUESTIONE DEL RISCHIO ETICO IN CAMPO AGROBIOTECNOLOGICO: "DANNO CALCOLATO" O PRINCIPIO DI PRECAUZIONE?

Eticamente quanto più un'azione può avere effetti gravi, estesi, irreversibili e incontrollabili tanto più esige di essere attentamente vagliata e sottoposta al criterio della massima precauzione.
Su questo aspetto la comunità scientifica mondiale è oggi divisa. Un numero sufficiente di scienziati ha sollevato dubbi sugli alimenti a base di OGM, dall' aumento di allergie e di intolleranze, al calo dei valori nutritivi, all'aumento della tossicità e della resistenza agli anti­biotici. Tra i potenziali rischi ambientali, sono segnalati i problemi dell'impollinazione incrociata, l'aumento nell'uso dei pesticidi e la distruzione di molte specie. Non manca perfino chi arriva a paventare una possibile serie di effetti a catena, derivanti dall'uso sempre più esteso di OGM, che potrebbero mettere in crisi lo stesso sistema-vita sul pianeta, come una potenziale "bomba biologica".
Se fossero veri questi pericoli, anche solo una parte, ci troveremmo di fronte a conseguenze devastanti e probabilmente non più sanabili all'interno dell' ecosistema.
Data questa incertezza e finché essa perdura, non è moralmente accettabile sottoporre /'umanità ad un rischio planetario di una tale portata.
L'industria mondiale degli OGM si difende affermando che nessun progresso è privo di rischi: i treni e gli aerei hanno i loro costi in vite umane; eppure nessuno sarebbe disposto a rinunciare ad essi. Ma siamo sicuri che sia la stessa cosa? Treni e aerei dipendono in gran parte dall'uso improprio che se ne fa e se possono comportare degli effetti negativi ciò riguarda generalmente ambiti circoscritti o singoli fruitori.
Gli interventi di ingegneria genetica in campo agro-alimentare concernono invece modificazioni permanenti, probabilmente irreversibili e, a lungo andare, imprevedibili impresse nel quadro della struttura biologica stessa egli esseri viventi, e riguardanti /'universalità del pia­neta e del suo futuro. Non è etico attuare una sperimentazione, di que­sta portata, quando non si è moralmente certi degli effetti che si posso­no generare, non solo nell'immediato, ma anche a medio e lungo ter­mine.
Il principio di precauzione deve prevalere sulla logica del solo rischio o, come si usa dire oggi, del "danno calcolato". Giovanni Paolo II sta ripetendo, in modo instancabile, che non si può fare della vita umana un oggetto di sperimentazioni, tanto più pericolose in quanto minacciano il valore stesso della vita e la sopravvivenza dell'u­manità. La vita non è un oggetto in nostro possesso, e ogni applicazio­ne delle tecniche agrobiotecnologiche non è mai una questione unica­mente scientifica; è sempre una questione di grande responsabilità morale.
L'etica da promuovere è l'etica della responsabilità, fondata:
. su informazione e formazione circa quelli che sono i meccani­smi che stanno subordinando l'etica alla scienza e la scienza a1l' economia;
. su scelte etiche che mettano al primo posto la persona e il suo habitat, e non interessi di parte;
. sull'impegno a prevenire i rischi, e non limitarsi a riparare i danni quando potrebbe essere troppo tardi;
. sulla capacità di andare incontro ai cambiamenti e di governar­li, e non di subirli passivamente.


3. IL RISPETTO DELLA NATURA: INTERVENIRE ENTRO CERTI CONFINI, RISPETTANDO L'ECOSISTEMA E SALVAGUARDANDO LA BIODIVERSITÀ

Ed ecco allora il terzo nodo problematico: fino a che punto è lecito intervenire nel quadro della natura? Qual è il ruolo dell' uomo nel creato: è il ruolo di un padrone assoluto o non piuttosto di un fedele amministratore?
E' noto come non siano mancati storici e ambientalisti che hanno ritenuto o ritengono la tradizione giudaico-cristiana responsabile del degrado ambientale, facendo risalire l'origine di questa responsabilità al comando biblico di Gen 1,28: "Siate fecondi e dominate la terra, soggiogatela e dominatela". Una corretta esegesi dei testi biblici va però in tutt'altra direzione.
Gen 1,26.28. I due verbi aramaici corrispondenti a "soggiogare" e "dominare", contrariamente al significato immediato che sembrano evocare, contengono, nel linguaggio biblico, due immagini estrema­mente significative. Il primo verbo (soggiogare) serve a descrivere il dominio di un re saggio che si prende cura dei suoi sudditi e fa di tutto, perché non manchi loro niente; in quanto tale, il verbo non indica affatto un potere dispotico o sfrenato che fa scempio della terra e dei suoi frutti, ma un compito sapienziale. Non saremmo più di fronte ad un re saggio, ma ad un tiranno. Il secondo verbo (dominare, radah) rimanda ad una missione di guida, come un pastore che conduce il gregge all'ovile, evitando che vada incontro alla morte o alla perdita di sé e descrive il ruolo dell'uo­mo come un ruolo di responsabilità. In entrambi le formulazioni, la signoria data da Dio alle sue creature, a1l 'uomo e alla donna, non rap­presenta mai una potestà assoluta, ma relativa: è una signoria ricevuta da Dio, attenta a proteggere quanto è stato loro affidato.
Gen 2,15. Il testo del secondo racconto è più facile da comprendere e implica un'ulteriore immagine di notevole significato: quella del giardiniere: "Il Signore prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse". I due verbi ("coltivare" e "custo­dire") esprimono il compito di un custode che si prende cura del giar­dino che gli è stato consegnato, coltivandolo e custodendolo appunto. "Coltivare" si oppone ad abbandonare; "custodire" a "distruggere", inquinare o devastare. L'uomo è quindi considerato come il giardiniere di Dio e il fruitore del bene-terra, non un suo despota.
E' quanto viene richiamato, indirettamente, dalla stessa immagine dell'albero del bene e del male, come spiega Giovanni Paolo II, nell'enciclica "Sollicitudo rei socialis": "Il dominio accordato dal Creatore all' uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di 'usare e abusare', o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espres­sa simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto dell' albe­ro" (Gen 2,16), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire" (SRS 34).
Dunque è lecito intervenire nel mondo della natura, ma entro precisi confini, non spadroneggiandola a piacimento o creando condizioni di invivibilità. "Risulta evidente - sottolinea ancora Giovanni Paolo II nell'enciclica appena citata - che lo sviluppo, l'uso delle risorse della terra e la maniera di utilizzarle non possono essere distaccati dal rispetto delle esigenze morali. Una di queste impone senza dubbio limiti all'uso della natura visibile" (SRS 34). La natura è un dono da rispettare e migliorare, non da violentare.
"Dio perdona, la natura non perdona", afferma un antico detto della saggezza cristiana. E' pericoloso far violenza alla natura; essa conserva la memoria di quanto subisce e prima o poi si ribellerà. Oggi questo pericolo non riguarda più solo questo o quel caso particolare, ma il "villaggio globale" dell'umanità del cosmo.
Siamo sicuri, ad esempio, che il mancato rispetto delle diverse specie, l'incrocio fra geni di piante, di animali e geni umani sempre più estesa e capillare non finisca per sconvolgere l'ordine strutturale stes­so della natura e non introduca situazioni di squilibrio non più control­labili?
. Altro è l'intervento per migliorare la natura al suo interno e renderla capace di difendersi da parassiti mortali, come si è detto, ma all'interno del loro stesso essere e utilizzando o incrementando le loro stesse risorse di natura.
. Altro è la violazione sistematica e globale delle leggi biologi­che degli esseri e delle loro relazioni con l'immissione di situazioni nuove che vi si oppongono e possono creare situa­zioni non più controllabili.
Finché l'applicazione delle biotecnologie in campo agro-alimentare non avrà sciolto ogni riserva in questo campo sarà un preciso dovere etico chiedere almeno una moratoria. L'uomo deve guardarsi dal rischio di ridurre il cosmo ad una preda da conquistare o ad una casa da saccheggiare. Già in un discorso del 24.3.97, Giovanni Paolo II aveva denunciato questo pericolo: "L'ambiente è diventato spesso una preda a vantaggio di alcuni forti gruppi industriali e a scapito dell' u­manità nel suo insieme, con un conseguente danno per gli equilibri dell' ecosistema, della salute degli abitanti e delle generazioni future".
Le parole del Santo Padre richiamano due problematiche attualissime, collegate alle agrobiotecnologie: l'unità dell' ecosistema e la salvaguardia della biodiversità.
L'ecosistema rappresenta un 'unità interattiva, dove ogni essere è in relazione dinamica con l'altro da sé e ogni modificazione che vi viene introdotta agisce in modo diacronico e sincronico sul circuito vitale degli esseri e del rapporto uomo-natura. Per questa ragione è sbagliato applicare alle scienze biologiche i principi delle scienze fisiche:
. la fisica è per definizione il campo delle leggi rigide e sempre eguali (posta una causa si dà un effetto);
. la biologia è invece il campo delle interdipendenze: il patrimo­nio genetico del DNA non una semplice fila di perline, dove ne puoi togliere una e sostituirla con ultra, senza che ciò non pro­vochi un cambiamento nella struttura stessa dell'essere. E' peri­coloso trasportare la logica deterministica della fisica all'interno della biologia e delle sue applicazioni in campo agro-alimentare.
L'unità dell'ecosistema è un bene da difendere, non un oggetto da mercanteggiare o da lasciare in balia del business economico. E' in gioco la sopravvivenza stessa della vita e dell'ambiente. Non si può disattendere questa responsabilità, agendo senza una coscienza infor­mata da principi etici. Giovanni Paolo II ha messo ripetutamente in guardia da una simile tentazione e ha parlato di mercanti che ''fanno del mercato la loro 'religione' , fino a calpestare, in nome di dio-pote­re, di dio-denaro, la dignità della persona umana e della sua vita". E' da questa nuova religione del profitto a tutti i costi che occorre guar­darsi, ritrovando un'autentica spiritualità del creato, comprensiva di un atteggiamento estetico verso la natura, che sia in grado di rimanda­re al Creatore di tutte le cose, con meraviglia e gratitudine, e ci orienti verso una dimensione contemplativa, e non distruttiva, del creato.
Lo stesso discorso vale per la biodiversità; essa è un valore da apprezzare e da promuovere, non da impoverire o ridurre sempre più. La questione non è soltanto ambientale; è etica. Non è moralmente lecito impoverire la varietà e la differenza della flora e della fauna, indebolendo o addirittura cancellando le molteplici specie di piante e di animali che la natura ha prodotto in migliaia e migliaia di anni e il Creatore ci ha donato, lasciando alle generazioni future una natura omologata a pochissime specie. Le applicazioni biotecnologiche, se vogliono essere utilizzate in senso umanistico, devono rafforzare la biodiversità, e non accellerarne la diminuzione e la scomparsa.
Intervenire sulla natura è legittimo, come si è detto, ma ciò deve sempre avvenire entro precisi confini e nel rispetto dell'unità dell'ecosistema, delle configurazione delle singole specie e della biodiversità. L'uomo è custode della natura, non despota.
La stessa questione della brevettazione degli OGM andrebbe ripensata in questo quadro. E' noto come il 12 maggio 1998 il Parlamento Europeo e il Consiglio dell' UE abbia approvato la "direttiva sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche"; una direttiva che non è priva di interrogativi etici per le implicazioni che può avere sia in campo agrobiologico e biozoologico che in campo bioagroali­mentare.
Brevettare le sequenze geniche significa brevettare organismi viventi, e brevettare organismi viventi è brevettare la vita, finendo per ridurla ad un manufatto, ad un prodotto fatto dall'uomo e commercia­bile come ogni altro un oggetto di consumo. E' legittimo tutto questo? A che cosa condurrà? Dietro questa scelta, oltre che una questione di soldi (le famose royalties), non si nasconde forse una sorta di "delirio di onnipotenza"?
Il patrimonio genico appartiene a Dio e quindi a tutta l'umanità; e come tale deve essere considerato e valutato. Su questo punto, si è pronunciata la stessa UNESCO, affermando che "il materiale genetico è patrimonio comune dell'umanità" e "non deve produrre alcun gua­dagno economico". Purtroppo questa regola non è affatto rispettata dalla direttiva europea. La stessa distinzione che essa elabora tra "sco­prire" e "inventare" non è per nulla convincente. Anche in questo caso siamo di fronte ad un problema morale di rilevanza mondiale. Le applicazioni biotecnologiche devono salvaguardare il principio che il patrimonio genico (da qualunque essere provenga, umano, animale o vegetale) deve servire al bene di tutti e di ciascuno, senza diventare dominio esclusivo di qualche potentato economico e dell' arbitrio di interessi di parte.


4. CONCLUSIONE

Nei confronti delle agrobiotecnologie è dunque opportuno tenere ­al momento - un atteggiamento critico. La scoperta, di per sé legitti­ma, di nuove possibilità tecnologiche innovative non può indurre automaticamente alloro impiego, senza una verifica che consideri i rischi etici e faccia prevalere sempre e comunque gli interessi della colletti­vità su quello dei grandi potentati economici. Mai come oggi la nostra libertà dev'essere sottoposta al criterio della responsabilità e della pru­denza. Chi non lo facesse, diverrebbe colpevole tra l0 o 20 anni degli eventuali danni che potrebbero essere provocati da un uso degli OGM non sufficientemente vagliato o valutato in tutti i loro effetti. La comu­nità cristiana è oggi in prima fila in questa ricerca, per dare il proprio specifico apporto alla difesa della vita e dell' ambiente e promuovere uno sviluppo integrale e sostenibile dell’umanità.