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giovedì 28 maggio 2015

Piante OGM - Rischi per l’ambiente



prof. Raffaele Testolin, Direttore del Dipartimento Produzione Vegetale e Tecnologie Agrarie Università di Udine

4.3 Rischi per l’ambiente

Abbiamo visto che i rischi sono parecchi e tipici a volte di un singolo OGM. Vediamo alcuni casi che rappresentano i temi di discussione più dibattuti nel mondo scientifico (tab. 2).
Nel 1996 James Kling, un divulgatore scientifico, avviava una riflessione sulla rivista Science sul pericolo che colture transgeniche potessero trasferire geni di resistenza ad erbicidi, a virus, ad antibiotici ecc. a piante spontanee rendendole delle ’super-infestanti’ (superweeds è il termine coniato da Kling e diventato poi famoso nella letteratura giornalistica). Kling rappresentava con una notevole obiettività le posizioni del momento. Ecologisti e specialisti di genetica di popolazione ammonivano che il trasferimento di geni eterologhi presenti in colture transgeniche a specie selvatiche sarebbe stata solamente una questione di tempo, dato il ritmo con cui i permessi di coltivazione venivano rilasciati negli USA. Quelli che rilasciavano i permessi, rassicuravano che il problema del trasferimento genico all’ambiente (gene flow) era tenuto in attenta considerazione e che i permessi di coltivazione venivano accordati solamente quando il rischio era nullo. Nel giro di qualche anno s’è accumulata una copiosa quanto inutile letteratura scientifica sulla valutazione del rischio (Gressel e Rotteveel 2000) e sulle distanze di sicurezza per evitare inquinamenti a colture attigue o a specie spontanee (Scheffler e Dale 1994; McPartlan e Dale 1994; Scheffler et al 1995; Conner e Dale 1996). Le pubblicazioni scientifiche sull’argomento ammontano ormai ad oltre un centinaio. E’ chiaro, tuttavia, che quando una coltura transgenica assume le dimensioni che hanno assunto il mais, la soia o il colza (Figg. 2 e 3), la speranza di non contaminare l’ambiente e le specie botaniche selvatiche non ha fondamento scientifico. Molto dipende dalle aree in cui si coltiva. Il mais coltivato in Europa probabilmente non darà luogo a flussi genetici nell’ambiente al di fuori delle aree agricole, perché non ci sono specie spontanee che possano ibridare con il mais coltivato; lo stesso non si può dire per il riso transgenico coltivato in Asia o il colza coltivato in Europa o la soia coltivata in Cina. Per inciso, è utile sottolineare che casi di negligenza nella sperimentazione con colture transgeniche (distanze di sicurezza, scelta della coltura successiva, notifiche alle autorità competenti ecc.) sono stati segnalati anche per test preliminari, cioè quelli condotti dalle compagnie costitutrici degli OGM, che avrebbero dovuto operare con la massima cura (Anonymous 1998).
A completamento dell’argomento possiamo dire che colture transgeniche a larga diffusione creano problemi anche agli agricoltori. Per esempio, chi produce mais non transgenico vicino ad un produttore di mais transgenico avrà il proprio prodotto inquinato, che dovrà vendere come prodotto transgenico. Il fatto è ancora più grave per gli agricoltori che fanno produzioni biologiche, ma questi sono ovviamente problemi di natura sociale piuttosto che scientifica.
La riduzione del rischio di trasferimento di geni eterologhi da colture transgeniche a specie selvatiche viene perseguito dalle compagnie attraverso due vie:
- inserimento dei costrutti transgenici nel DNA cloroplastico piuttosto che in quello nucleare, sfruttando il fenomeno dell’eredità materna dei cloroplasti, che è piuttosto comune nelle angiosperme. Questo impedisce la dispersione del costrutto attraverso il polline, che non porta generalmente plastidi;
- riduzione della competitività naturale nei semi della generazione successiva, utilizzando le tecniche del tandem construct, cioè l’inserimento di un secondo gene che si manifesta nella generazione successiva, dando ad esempio maschiosterilità, scarsa vigoria alle piante, nanismo ecc. (Gressel 1999)
Un altro caso dibattuto è l’uso di geni che codificano per proteine del capside di alcuni virus.
La resistenza ad un determinato virus si può ottenere inserendo nella specie ospite il gene che codifica per le proteine del capside di quel virus. La pianta codificando le proteine del capside diventa resistente al virus. E’ il caso delle resistenza alla sharka (o PPV = Plum Pox Virus) ottenuta in susino con questa tecnica. Gli stessi ricercatori che hanno ottenuto il risultato di rendere il susino resistente alla sharka hanno anche dimostrato, lavorando con una specie modello di tabacco in grado di esprimere il capside del PPV, che questa proteina prodotta dal tabacco è in grado di incapsidare un altro virus, il virus del mosaico giallo degli zucchini. Questo potyvirus non trasmissibile attraverso gli afidi, una volta incapsidato con il capside prodotto dal tabacco, viene trasmesso dagli afidi come il PPV. Questo significa che è possibile produrre attraverso il rilascio di piante transgeniche nuovi tipi di virus, con caratteristiche epidemiologiche diverse (Lecoq et al 1998). Il rischio per l’ambiente è evidente e i ricercatori francesi stanno lavorando alla sequenza del capside per togliere ad essa le proprietà negative viste sopra, conservandone le caratteristiche che rendono la pianta transgenica immune al virus.

Piante OGM - Rischi relativi agli insetti utili



prof. Raffaele Testolin, Direttore del Dipartimento Produzione Vegetale e Tecnologie Agrarie Università di Udine

4.2 Rischi relativi agli insetti utili

Il problema ha due facce: la prima riguarda la creazione di resistenze in insetti contro i quali è stata prodotta la pianta transgenica; la seconda riguarda il danno che piante con geni che codificano per biopesticidi (tossine ecc.) possono recare alla entomofauna ‘non-target’, cioè agli insetti non direttamente obiettivo del biopesticida come i predatori e i visitatori occasionali.
Per entrambi gli aspetti, molte ricerche hanno riguardato e riguardano tuttora l’uso di geni che codificano per tossine Bt, derivanti da Bacillus thuringiensis.
Nel primo caso sono ormai documentate resistenze selezionate in alcuni lepidotteri dall’uso di piante Bt. In particolare sono state trovate resistenze nella tignola delle crucifere (Plutella xylostella) allevata su broccoli Bt e colza Bt (Ramachandaran et al 1998 e Tang et al 1999 citati in Tabashnik et al 2000), nel verme rosa delle capsule di cotone (Pectinophora gossypiella), mentre per quanto riguarda le resistenze rilevate in popolazioni di piralide allevata su mais Bt i dati sono contrastanti. Prevalgono i lavori che riportano il superamento di resistenze e in tali lavori il dibattito è relativo al tipo di resistenza: dominante o recessiva. Come è noto i due tipi di resistenza hanno effetti molto diversi sulla possibilità di diffusione del gene stesso (Huang et al 1999; Tabashnik et al 2000).
Per quanto riguarda il secondo aspetto, al di là delle ormai note vicende della farfalla monarca (Danaus plexippus) e del dibattito creatosi attorno a questa vicenda, i risultati riportati in bibliografia sono piuttosto contrastanti. Ciò è dovuto soprattutto all’eterogeneità dei protocolli e a qualche ‘ingenuità’ come l’uso di individui adulti come soggetti sperimentali, quando è noto che la tossina del B. thuringiensis è molto più efficace sugli stadi larvali. Molti dei dati che si trovano in bibliografia poi riguardano tests preparati per la registrazione di formulazioni a base di B. thuringiensis da utilizzare nei trattamenti alle colture e sono poco pertinenti al caso (Croft 1990). Solo recentemente si è operato alimentando predatori con prede cresciute su prodotto transgenico contenente la proteina Bt. I primi risultati non hanno riportato effetti negativi, ad eccezione di un caso in cui si sono registrate mortalità elevate in larve di crisopa (Chrysoperla carnea) alimentate con prede allevate a loro volta su mais Bt (Hilbeck et al 1998). Al di là dei risultati, è importante notare come le prime segnalazioni di resistenze siano comparse in letteratura già nel 1998, cioè ad appena due anni dall’inizio della coltivazione di mais, cotone e patata Bt negli USA. L’allarme è stato preso in seria considerazione da diverse società scientifiche e le perplessità che queste società avanzano con i loro documenti possono essere così riassunte (Wallimann 2000; Saxena et al 1999):
1. la coltivazione su grandi aree a monocoltura di specie come mais o cotone, che esprimono costitutivamente composti ad azione insetticida come la tossina Bt, crea un ecosistema omogeneo con una grande pressione selettiva e quindi facilmente orientato a creare resistenze;
2. creando resistenze si rischia di perdere un bio-pesticida, come il Bt, di grande valore, in uso con successo ormai da 30 anni;
3. la tossina Bt, oltre ad agire sui parassiti, sui loro predatori e su visitatori occasionali, viene essudata nel terreno e rimane attiva per oltre 200 giorni, avendo effetti non prevedibili su una miriade di insetti del suolo.

Piante OGM - Rischi per l’uomo e per gli animali che si alimentano con prodotti di OGM



prof. Raffaele Testolin, Direttore del Dipartimento Produzione Vegetale e Tecnologie Agrarie Università di Udine


“4.1 Rischi per l’uomo e per gli animali che si alimentano con prodotti di OGM



I costrutti utilizzati per il trasferimento di geni a piante, contengono – come abbiamo visto – una copia di un gene che permette la selezione dei trasformati. Molti costrutti contengono come gene marker per la selezione dei trasformati un gene che conferisce resistenza alla kanamicina. Questo gene di origine batterica, noto anche come nptII (neomicina fosfotransferasi II), è ovviamente presente in tutte le cellule di una pianta transgenica.
La paura che il gene nptII possa essere tossico per l’uomo e gli animali sembra infondata, ma esistono un paio di altre questioni che non hanno ancora ricevuto risposta. La prima riguarda la possibilità che il gene nptII possa essere passato ai batteri dell’intestino umano, rendendoli resistenti alla kanamicina e ad altri antibiotici. La seconda riguarda la possibilità che il gene venga trasferito ad altri organismi e quindi rilasciato nell’ambiente con rischi per l’ecosistema.
Nessuna delle questioni ha per ora ricevuto risposta. Sappiamo che i processi digestivi dovrebbero distruggere qualsiasi sequenza codificante prima che questa raggiunga la flora batterica dell’intestino (guai se non fosse così!). Sappiamo anche che un gene che evitasse la distruzione nello stomaco avrebbe comunque poche possibilità di essere trasferito ad un batterio nell’intestino umano. Tuttavia il rischio non è nullo. Le preoccupazioni riguardano soprattutto la possibilità che batteri GM utilizzati come colture starter in formaggi o yoghurt possano trasferire questi geni a specie di batteri relativamente prossime (es. batteri lattici) presenti nell’intestino. Per questo pericolo, le legislazioni dei vari paesi – per quanto è noto – stabiliscono che organismi GM prodotti per alimenti da consumare a crudo non debbano contenere geni di resistenza agli antibiotici.
Per quanto riguarda il pericolo di trasferimento all’ambiente, sappiamo che il gene di resistenza alla kanamicina è piuttosto diffuso in natura e tuttavia un evento imprevisto che possa in qualche maniera causare un danno all’ambiente non può essere escluso a priori.
La presenza di questi rischi è tanto vera che i ricercatori, su sollecitazione delle imprese, si sono preoccupati di mettere a punto una nuova cassetta di espressione contenente un secondo gene (il gene Cre), in grado, una volta avvenuta la trasformazione, di excidere il gene nptII dalla pianta (Brown 1995).
Poiché il gene Cre viene caricato su un vettore diverso da quello preparato con il gene di interesse assieme al gene nptII, i due costrutti verrebbero trasferiti in zone diverse del genoma e segregherebbero alla prima generazione, permettendo così di selezionare piante contenenti il gene di interesse ma non il gene Cre. Il gene nptII non dovrebbe essere presente perché già eliminato da Cre.
Un secondo approccio è stato quello di usare geni marker/eporter diversi dai geni di resistenza ad antibiotici. Tra i nuovi geni un largo spazio hanno trovato alcuni geni di resistenza ad erbicidi, ma sono stati sperimentati anche geni che conferiscono tolleranza a metalli, metodi di complementazione vari, geni che demoliscono zuccheri artificiali come per esempio il lattosaccarosio ecc. (Yoder e Goldsbrough 1994; Gressel 1999). Per questi restano i rischi di diffusione nell’ambiente che vedremo nel prossimo paragrafo.
Per quanto riguarda la tossicità dei prodotti di origine transgenica, la legislazione, data la difficoltà di sviluppare test tossicologici appropriati, ha introdotto il concetto di valutazione della “sostanziale equivalenza” tra il prodotto transgenico e quello non transgenico di analoga origine. Dal punto di vista puramente scientifico, la tossicità di costrutti transgenici è considerata in generale poco verosimile, anche se non può essere esclusa in linea di principio.”

martedì 19 maggio 2015

Diciamo basta al sostegno delle esportazioni industriali in cambio di prodotti agricoli

- gli agricoltori operano in un mercato artefatto, non reale, dove qualche politico ha deciso che occorre sostenere l’industria e, pertanto, c’è bisogno di lavoratori, che, per forza, devono provenire dall’agricoltura;

- sostenere l’industria significa sostenere le esportazioni industriali;

- sostenere le esportazioni per un Paese significa avere dei prodotti competitivi, ma significa anche trovare delle merci di scambio, poichè molto spesso i Paesi importatori non hanno dollari o euro per pagare (nel dopoguerra la FIAT, poté esportare auto in Jugoslavia in cambio di acciaio);

- le uniche merci che certi Paesi riescono a fornire in cambio di prodotti industriali sono costituite da prodotti agroalimentari;

- questi Paesi, però non hanno le nostre regole produttive …….. fa niente basta abbassare le nostre al loro livello;

- in questa situazione per non far “incazzare” i nostri agricoltori, che non riescono certo ad essere competitivi con i costi di questi Paesi, i politici si inventano i contributi PAC (350-400 euro per ettaro che non fanno mai male);

- contributi PAC che vanno agli agricoltori, ma che, indirettamente, servono all’industria, in quanto se non ci fossero le importazioni come contropartita di prodotti agricoli, col cavolo che le industrie esporterebbero.

Allora, è necessario operare una “Eliminazione degli alimenti dagli accordi del WTO. Nessun Paese deve subire delle conseguenze, sulla base delle scelte agroalimentari di altri Paesi”……… se gli americani amano la carne agli ormoni …… potrò essere libero di non comprarla?

Non è possibile che negli ultimi 30 anni nel nostro Paese siano scomparse il 60% delle aziende agricole di collina e il 70% di quelle di montagna, per il sol fatto che non riescono a competere con il basso prezzo del prodotto di importazione, con tutte le conseguenze sull'assetto idrogeologico del territorio.

domenica 3 maggio 2015

4 - EXPO - carta di Milano

E' necessario che gli alimenti siano esclusi dalle competenze dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, poiché non è accettabile che con il “libero scambio” le politiche alimentari di un Paese siano condizionate dai comportamenti e dalle scelte agroalimentari di altri Paesi;