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mercoledì 16 gennaio 2013

Perché i ¾ dei consumatori sono contrari all’acquisto di OGM?


Secondo le ultime indagini di mercato i ¾ degli intervistati avrebbe affermato di non voler acquistare e di non voler consumare cibo proveniente da piante OGM. Trattasi di una affermazione che evidenzia una certa disinformazione del consumatore, poiché è risaputo che tutti quanti noi, inconsapevolmente, mangiamo OGM tutte le volte che ci alimentiamo con prodotti derivati dall’allevamento animale (latte, carne, uova, ecc.), poiché nell’allevamento animale i mangimi OGM sono utilizzati in grande quantità e la Legge non prevede l’etichettatura dei derivati ottenuti dall’allevamento zootecnico.
Occorre comunque rilevare che in un momento in cui non sono ancora chiari gli effetti degli Organismi Transgenici (OT) sulla salute umana e sull’ambiente, è recentissima una ricerca francese che sembra mettere in dubbio le proprietà salutistiche degli OGM, il consumatore potrebbe affrontare una certa dose di rischio nel consumo di Cibi Transgenici (CT) nel caso in cui essi comportassero vantaggi economici e non soltanto economici.  In particolare, nel caso in cui:

1)    i CT avessero le stesse caratteristiche qualitative di quelli convenzionali ed avessero un prezzo di acquisto inferiore;

2)    i CT avessero lo stesso prezzo di acquisto di quelli convenzionali, ma offrissero migliori caratteristiche qualitative;

3)    i CT aumentassero la variabilità degli alimenti presenti sul mercato;

4)    i CT aumentassero la sicurezza alimentare;

5)    i CT aumentassero la sicurezza ambientale;

6)    i CT fossero in grado di risolvere i problemi della fame nel mondo;

7)    i CT consentissero di diminuire le differenze sociali tra le diverse persone.



1. - A proposito di medesime caratteristiche qualitative e minori prezzi


Da un punto di vista strettamente economico il consumatore tende sempre più a risparmiare nelle operazioni di acquisto dei singoli beni, al fine di poter aumentare, con lo stesso reddito, i consumi totali. Pertanto, non vi è alcun dubbio sul fatto che egli potrebbe rivolgere l’attenzione verso i CT se, rispetto a quelli convenzionali, essi avessero le stesse caratteristiche organolettiche ed avessero un prezzo di acquisto inferiore.

Relativamente alle caratteristiche organolettiche, occorre, però, evidenziare che l’equivalenza qualitativa tra l’alimento transgenico e quello convenzionale è ancora tutta da dimostrare, in quanto il CT contiene sia il transgene o i transgeni, sia la proteina o le proteine espressione del transgene. Si aggiunga poi che alcuni studi avrebbero evidenziato caratteristiche nutrizionali sensibilmente diverse tra il prodotto OGM e il suo omologo convenzionale. Così, per esempio, secondo specifiche ricerche, il mais BT avrebbe un maggior contenuto di lignina rispetto al mais convenzionale, mentre il pomodoro arricchito di Vitamina A avrebbe un minor contenuto di licopene. In particolare, l'introduzione del transgene sembra cambiare il metabolismo della pianta, cambiando così le caratteristiche finali della pianta stessa. Ci sarebbero degli effetti a cascata dei quali ha parlato anche il prof. Dulbecco.
Non v'è dubbio che, a parità di qualità, nel caso in cui si verificasse una reale contrazione dei prezzi dei beni alimentari, si potrebbe determinare un incremento di benessere per la società, in relazione alla possibilità di consentire alle popolazioni più povere di poter acquistare una maggior quantità di beni necessari a soddisfare il loro fabbisogno alimentare e alla possibilità da parte dei consumatori dei Paesi ricchi di risparmiare nell'acquisto di alimenti, per poi destinare la restante parte del loro reddito ad altri consumi di livello superiore.

Da rilevare, però, che nel caso di prezzi di vendita inferiori rispetto a quelli convenzionali, ma in presenza di incertezze in merito alle caratteristiche qualitative, il consumatore pagherà meno questi alimenti, ma gli rimarrà comunque l'incertezza sulle loro reali capacità nutrizionali. Tale incertezza determina una diminuzione del grado di soddisfacimento dei bisogni, in quanto l'eventuale minor prezzo di acquisto dei CT, potrebbe essere visto come un vantaggio virtuale, non reale, caratterizzato da un livello di utilità inferiore rispetto a quello che avrebbe ottenuto dal consumo di cibi dei quali conosce le reali proprietà organolettiche e nutrizionali (costa meno, ma probabilmente vale anche meno!!). Non si spiegherebbe altrimenti il forte aumento del consumo di prodotti biologici e dei prodotti tipici che si è verificato negli ultimi anni (il consumatore paga di più un prodotto che secondo il suo giudizio è caratterizzato da una maggior utilità e che, pertanto, ritiene maggiormente idoneo a soddisfare i suoi bisogni, che, oggigiorno, fanno riferimento alla qualità, alla genuinità, alla sicurezza alimentare e alla tracciabilità).

A conclusione di queste considerazioni relative all’ipotesi che il consumatore possa ottenere dei benefici dalla riduzione dei prezzi dei prodotti alimentari transgenici, occorre rilevare che nella realtà i fatti dimostrano il contrario, ovvero che l’introduzione di alimenti transgenici non ha portato ad una riduzione dei prezzi dei rispettivi prodotti, ma ha determinato un aumento dei prezzi dei corrispondenti prodotti “non transgenici”. Tale effetto, sotto molti punti di vista paradossale, è dovuto al fatto che nei Paesi dove lo scetticismo nei confronti di questi alimenti è maggiore, sono state create due filiere per il medesimo prodotto: una per quello transgenico, e una per quello non transgenico. Questa suddivisione, effettuata al fine di consentire al consumatore di operare una scelta di acquisto consapevole, comporta dei costi di distribuzione (di segregazione, di conservazione, di lavorazione, di etichettatura, di analisi, ecc.), che riducono sensibilmente i vantaggi economici ottenibili durante la fase di produzione agricola. E’ ovvio che l’aumento del prezzo andrà a ripercuotersi sul consumatore, il quale già ora è costretto a spendere di più (per acquistare i tradizionali prodotti non transgenici) per la sola ragione che qualcuno ha voluto introdurre questi nuovi alimenti, senza affrontare preventivamente le problematiche economiche e sociali ad essi connesse (secondo informazioni assunte presso operatori del settore, per avere soia certificata “GMO free” occorre pagare una maggiorazione del 15% circa).

         In questo contesto, in cui i prezzi degli alimenti transgenici non sono sostanzialmente inferiori a quelli dell'omologo prodotto convenzionale, non si capisce perché mai il consumatore dovrebbe sostituire un alimento tradizionale, che da sempre fa parte della sua alimentazione e che ha dato dimostrazione nel tempo di essere sicuro, con un alimento che presenta, anche solo potenzialmente, dei rischi per la sua salute, per quella delle generazioni future e per l'ambiente.

E’ necessario che la ricerca chiarisca questi dubbi prima di adottare CT per l’alimentazione umana.


2. – A proposito di stessi prezzi e migliori caratteristiche qualitative


In presenza di incertezza in merito alle caratteristiche qualitative degli alimenti transgenici, il consumatore potrebbe essere disposto a correre qualche rischio nel loro consumo se, a parità di prezzo di acquisto rispetto a quelli convenzionali, essi manifestassero migliori caratteristiche qualitative (nutrizionali, di modalità di consumo, di reperibilità ecc.).

Economicamente parlando si tratta di una situazione che difficilmente potrà verificarsi, in quanto se il nuovo alimento avrà caratteristiche qualitative superiori a quello convenzionale, difficilmente in un medesimo mercato potrà avere lo stesso prezzo; sicuramente avrà un prezzo superiore, che terrà conto dell’elemento differenziale.

         A proposito di miglioramento qualitativo, occorre rilevare, però, che al momento attuale la ricerca ha lavorato solo ed esclusivamente alla creazione di piante semplici da ottenere (pochi geni specifici) e in grado di massimizzare i profitti delle imprese che detengono il brevetto su questi vegetali (piante resistenti ai diserbanti, agli attacchi di insetti, ecc.). Il consumatore finora non ha ottenuto alcun vantaggio da questi prodotti, in quanto ai fini nutrizionali essi non comportano nessun beneficio rispetto a quelli non modificati. Purtroppo, dai primi elementi a disposizione sembra anche che questi nuovi alimenti non siano migliori da un punto di vista organolettico rispetto a quelli già presenti sul mercato (il pomodoro che non marcisce, al di là dei problemi legati ai maggiori costi di produzione, è stato eliminato dal mercato per il consumo allo stato fresco, in quanto sembra che avesse un forte sapore metallico). Va detto, però, che siamo alle prime applicazioni e che le piante transgeniche attualmente coltivate sono destinate per la gran parte alla produzione di alimenti per il bestiame e di derivati industriali di prima trasformazione, per cui è estremamente difficile esprimere un giudizio razionale e oggettivo sulle loro caratteristiche qualitative.



3. – A proposito di aumento della variabilità alimentare


Il consumatore potrebbe accettare i CT nel caso in cui essi aumentassero la variabilità degli alimenti presenti sul mercato, al fine di avere a disposizione una maggior scelta di cibi e, quindi, una maggior variabilità nutrizionale. A questo proposito occorre rilevare che, al contrario, l’introduzione di OT determinerà con ogni probabilità una riduzione della variabilità genetica e, conseguentemente, una perdita in termini di variabilità nutrizionale. Tale situazione sarà determinata dal fatto che le poche piante trasformate (da un punto di vista economico ai costitutori non conviene ampliare la gamma delle piante “brevettate” di una stessa specie, in quanto costerebbe molto ottenerle e sarebbero tra loro concorrenti sullo stesso mercato), in relazione all’automazione del processo produttivo che metteranno in atto, saranno utilizzate su vasta scala dagli agricoltori. In questa situazione, anche le piante migliori da un punto di vista di talune caratteristiche qualitative (cultivar locali, cultivar con sapori particolari o con contenuti nutrizionali particolari, cultivar resistenti alle malattie, ecc.) potrebbero essere sostituite da quelle transgeniche. Un primo esempio di questa evoluzione l’abbiamo avuto dalla fortissima espansione delle superfici coltivate a mais e soia transgeniche negli U.S.A, in Canada e in Argentina. In pochi anni, in relazione al fatto che non essendoci segregazione di filiera (in questi Paesi il prezzo di mercato della materia prima transgenica e  convenzionale è uguale) il prezzo di mercato del mais e della soia è determinato dal minor costo di produzione delle piante transgeniche, gli agricoltori, al fine di mantenere un certo margine di redditività dall’attività di coltivazione, sono stati “obbligati” (ovviamente dal mercato) a sostituire le cultivar convenzionali (non più competitive da un punto di vista dei redditi) con quelle transgeniche. Pertanto, l’introduzione di piante transgeniche, soprattutto nel caso in cui non vi sia segregazione di filiera con l’analogo prodotto non transgenico, determina un percorso obbligato anche per l’agricoltore che non vuole coltivare queste piante. Egli sarà “costretto” a coltivare queste piante se vorrà mantenere una certa redditività  dall’attività agricola, poiché non potrà coltivare ai costi del convenzionale (più alti) per poi vendere ai prezzi del transgenico (più bassi).

La perdita di variabilità qualitativa determinerà poi una modificazione e una omologazione dei gusti del consumatore, che non sarà più in grado di distinguere i sapori tradizionali (i relativi alimenti saranno più rari e con ogni probabilità con un prezzo superiore), dai sapori tecnologici (alimenti maggiormente diffusi e con prezzi, forse, inferiori). Del resto la globalizzazione dei mercati svolge in questo senso un ruolo trainante, in quanto i sapori sono legati ai luoghi di produzione con le relative cultivar locali e rappresentano un limite alla globalizzazione delle aree di produzione.

A conclusione di queste poche considerazioni, occorre rilevare che il giudizio qualitativo è sempre un fatto soggettivo, per cui è difficile affermare che l’introduzione di un gene che aumenta il grado zuccherino o impedisce la maturazione rappresenti un miglioramento o un peggioramento qualitativo: il giudizio è sempre personale, legato a gusti e ad abitudini alimentari consolidate nel tempo. In questo contesto occorre soprattutto preservare il diritto fondamentale del consumatore di poter scegliere consapevolmente il cibo che intende acquistare. Da questo punto di vista l’etichettatura appare elemento di primaria importanza. Deve, però, essere un’etichettatura semplice, chiara e non fuorviante e, soprattutto, deve essere data la possibilità al consumatore di acquistare cibo sicuramente non transgenico, senza alcuna soglia di tolleranza.



4. – A proposito di sicurezza alimentare


I sostenitori dei CT affermano che essi aumenteranno la sicurezza alimentare, in quanto le piante saranno più sane e presenteranno una minor quantità di micotossine. Trattasi di un elemento importante da tenere nella dovuta considerazione, allorchè si tratterà di valutare rischi e benefici del CT. Purtroppo, però, anche nel caso delle produzioni transgeniche, così come per altri prodotti che non hanno mai fatto parte della nostra dieta, ci troviamo di fronte a nuovi alimenti dei quali non sono ancora conosciuti gli effetti sulla salute umana. Che qualche rischio sia presente lo possiamo rilevare dal fatto che la legislazione comunitaria ha vietato l’impiego di OT per la produzione di alimenti destinati alla nutrizione dei lattanti e dei bambini al di sotto dei tre anni e che le compagnie di assicurazione si rifiutino di stipulare contratti nei confronti dei rischi da OT.

Le incertezze nutrizionali per i consumatori aumenteranno poi quando saranno introdotti gli OT di seconda generazione, ovvero quelli che presentano un “arricchimento” in termini di vitamine e/o di proteine, ecc. (cibi arricchiti, cibi funzionali, nutraceutici, ecc.). Tale affermazione è supportata dal fatto che essi esteriormente sono identici a quelli convenzionali, per cui potrebbe accadere che al consumatore possano essere venduti come alimenti non transgenici, alimenti transgenici “arricchiti”. Trattasi di un aspetto molto importante, in quanto, per esempio, nel caso di alimenti che contengono più vitamine, sappiamo che è dannoso per la salute umana sia una carenza di vitamine, sia un eccesso delle stesse (soprattutto le liposolubili). Pertanto questi prodotti dovranno essere segregati da quelli convenzionali e venduti sotto stretto controllo.

A proposito delle precedenti affermazioni, dobbiamo dire che il primo incidente alimentare causato da OT si è già verificato. Negli U.S.A. una partita di STARLINK, un mais transgenico autorizzato solo per l’alimentazione animale, è stato erroneamente avviato all’alimentazione umana; risultato, circa 50 persone hanno accusato malesseri e sono ricorse alle cure mediche, alcuni prodotti trasformati a base di mais sono stati ritirati dal mercato, alcuni stabilimenti di lavorazione del mais hanno dovuto interrompere la lavorazione, si sono avuti danni economici per milioni di euro.

Pertanto il problema della rintracciabilità e dell’etichettatura dei prodotti transgenici è un elemento da non sottovalutare, in quanto sempre più frequentemente il consumatore vorrà conoscere l’origine ed il percorso produttivo e commerciale del prodotto che intende acquistare. 

Tra gli altri elementi che inducono a pensare che vi possa essere qualche altra probabilità di rischio per la salute si ricordano:

-         gli effetti allergici che possono essere provocati da talune sostanze presenti nell’alimento transgenico e normalmente assenti nell’alimento convenzionale;

-         il passaggio del gene che codifica per la resistenza ad alcuni antibiotici (utilizzato durante la fase di creazione dell’OT) alla flora batterica intestinale e da questa ad alcuni batteri patogeni che diventerebbero essi stessi resistenti all’antibiotico;

-         gli effetti e le interazioni dovuti alla presenza della proteina espressione del transgene che è stato introdotto e che si trova nell’alimento;

-         gli effetti e le interazioni dovuti alla presenza del transgene introdotto e che si trova nell’alimento;

-         gli effetti prodotti dai promotori e dai terminatori sull’alimento e sull’ambiente.

Molto difficile è risolvere il problema delle allergie, in quanto anche una minima parte della popolazione che si nutre di questi alimenti potrebbe, senza esserne a conoscenza, risultare allergica a quella particolare proteina e avere quindi delle conseguenze sulla salute (anche senza arrivare allo shock anafilattico).

Ancora una volta di estrema importanza è lo sviluppo della ricerca in merito agli effetti sulla salute e sull’ambiente degli OT e l’etichettatura di questi prodotti, al fine di consentire al consumatore una scelta consapevole.



5. – A proposito di sicurezza ambientale


Il consumatore potrebbe correre qualche rischio nel consumare CT, nel caso in cui essi fossero prodotti con un minor impatto sull’ambiente e fossero in grado di aumentare la sicurezza ambientale. In particolare, la coltivazione di OT resistenti alle più svariate patologie, potrebbe sicuramente contribuire alla diminuzione degli effetti negativi prodotti dall'utilizzazione in agricoltura convenzionale di taluni formulati chimici.

Trattasi di un elemento di estrema importanza, poiché questi effetti sono per lo più di tipo diffuso, difficilmente controllabili con progetti puntuali sul territorio (filtri, depuratori ecc.). Anche in questo caso, però, i ricercatori non hanno fatto i conti con la complessità del “sistema naturale”, in quanto specifiche ricerche hanno verificato che, col tempo, gli insetti, ma così anche i patogeni vegetali, maturano una naturale resistenza genetica, per cui si creano generazioni di insetti resistenti alla tossina (sembra ogni 4-5 anni per la piralide), mentre le piante infestanti possono divenire geneticamente resistenti al diserbante o acquisire, mediante impollinazione incrociata, il gene di resistenza all’erbicida, vanificando così, di fatto, gli sforzi operati per rendere resistenti al diserbante soltanto le piante coltivate (secondo taluni autori, nei Paesi che per primi hanno  introdotto OT esistono già piante infestanti resistenti al ROUNDOP).

Da queste semplici considerazioni risulta evidente che la trasformazione genetica non è in grado di risolvere il problema, in quanto dopo pochi anni esso si ripresenta nella medesima condizione, se non addirittura in termini peggiori, in quanto l’insetto o la pianta infestante da controllare sarà caratterizzata da una maggior variabilità genetica e, quindi, sarà ancor più difficile da contenere (di tale eventualità non saranno certo entusiasti i coltivatori biologici, che si troveranno a dover contrastare senza mezzi chimici di sintesi insetti con patrimoni genetici diversi e, quindi, caratterizzati da una maggior virulenza).

Da un punto di vista ambientale il problema di maggior rilievo è quello relativo all’inquinamento genetico. Questi OT, infatti, hanno i transgeni contenuti nel nucleo per cui si esprimono in ogni parte della pianta, anche nel polline (è già disponibile una tecnologia che consentirebbe di inserire il transgene nei cloroplasti ed eliminerebbe questo problema, ma non è ancora applicata), che, ovviamente, si disperde nell’ambiente mediante il vento e gli insetti. Il polline di OT, quindi, può fecondare piante parentali selvatiche non transgeniche (colza RR e senape selvatica per esempiuo), che darebbero così origine a semi che contengono il transgene. Ovviamente in un’annata successiva, anche nel caso in cui decidessimo di non coltivare queste piante, il transgene potrebbe passare dalle piante parentali selvatiche a quelle coltivate e via di seguito. Così il transgene potrebbe autonomamente replicarsi senza l’ausilio dell’uomo.

         In relazione alla diffusione aerea del polline, andrebbero verificate anche le possibilità di inquinamento genetico delle coltivazioni convenzionali attuate in prossimità di coltivazioni transgeniche (problematica della coesistenza). Quali conseguenze si avranno per le colture tipiche che non prevedono nel loro disciplinare di produzione la possibilità di utilizzare individui transgenici? Quali conseguenze si avranno per le produzioni biologiche che bandiscono completamente l’utilizzo agricolo e zootecnico degli OT? Chi sarà responsabile dei danni economici prodotti? Quali e quanti contenziosi si apriranno?

In merito alle piante transgeniche resistenti ai patogeni, siano essi animali o vegetali, è già stato verificato che col tempo si potrebbe avere una naturale selezione genetica di insetti e di piante infestanti resistenti. Cosa accadrà quando questi insetti o queste piante divenute resistenti inizieranno a produrre danni? Fondamentalmente si potrà andare in due direzioni:

- introduzione nella medesima pianta transgenica di altri geni in grado di renderla di nuovo resistente ai patogeni (ed è la strada che potrebbe essere  perseguita, al fine di brevettare ogni 5-6 anni una nuova pianta transgencia e consolidare così la dipendenza dell’agricoltore dall’industria sementiera per l’acquisto dei semi);

- studio e produzione di specifici formulati chimici in grado di eliminare l’antagonista (nuovi antiparassitari, nuovi diserbanti ecc.).

Nessuna delle due soluzioni appare sostenibile, in quanto nel primo caso, col tempo, avremmo una proliferazione di geni estranei contenuti nella medesima pianta (quando nella stessa pianta i transgeni saranno 10, 20 o 1.000 sarà ottenuto lo stesso cibo o qualcosa di diverso?), mentre nel secondo caso ci troveremmo dopo pochi anni nella situazione di partenza, ovvero ad un punto in cui sarà necessario studiare e applicare nuovi formulati chimici per “controllare” le generazioni di insetti resistenti.

Per quanto attiene specificamente alle piante resistenti agli insetti, occorre poi considerare che la proteina insetticida sembra non si limiti a contenere gli attacchi degli insetti "bersaglio" dannosi, ma potrebbe colpire indiscriminatamente anche altri insetti, alcuni dei quali svolgono funzioni utili per la produttività della stessa pianta (impollinazione, per esempio) o funzioni diverse nel terreno. Trattasi di un elemento di estrema importanza, da tenere nella dovuta considerazione, in quanto potrebbe portare alla riduzione o, addirittura, all’eliminazione di alcune specie di insetti che svolgono il loro ruolo all’interno della catena alimentare. Cosa accadrà, quando il transgene che produce la proteina insetticida si trasferirà in altre piante selvatiche parentali? Quali insetti saranno eliminati da questa proteina? Quali effetti vi potranno essere per gli altri animali che fanno parte della medesima catena alimentare? Occorre dare una risposta a queste domande prima di immettere deliberatamente nell’ambiente piante transgeniche.



6. – A proposito di fame nel mondo

         “Gli OT rappresentano l’unico modo per risolvere il problema della fame nel mondo”. La precedente affermazione, cara ai sostenitori degli OT per scopi alimentari, contrasta però con la realtà. Infatti, occorre considerare che molto spesso i problemi di sottoalimentazione di determinate aree del pianeta sono legati non solo ed esclusivamente ad una carenza di quantità, ma anche a problemi interni di carattere economico e politico. Pertanto, alleviare il problema alimentare di queste popolazioni, significa prima di tutto eliminare la povertà (consentire loro di avere un reddito adeguato mediante il quale acquistare il cibo necessario) e le motivazioni politiche che impediscono loro di raggiungere accettabili livelli di reddito. Non troverebbe altra spiegazione il fenomeno per cui, in questi ultimi anni, molti Paesi che manifestano problemi di sottoalimentazione (per esempio l’India) sono divenuti i principali esportatori mondiali di cereali.

In questa situazione, occorrerà verificare anche la possibilità che la coltivazione di OT possa addirittura aggravare i problemi di sottoalimentazione di determinate aree del pianeta. Tale situazione potrebbe essere determinata dalla lievitazione dei prezzi interni del cibo, in relazione all’aumento delle esportazioni.   

Eliminazione della fame nel mondo significa sicuramente produrre maggiori quantità di cibo, ma significa anche modificare le abitudini alimentari dei Paesi ricchi, che in nome della fettina e degli hamburger a basso prezzo, destinano gran parte delle calorie di origine vegetale all’ingrasso degli animali da carne. E’ risaputo, infatti, che per produrre una caloria di origine bovina, occorrono mediamente sette-otto calorie di origine vegetale. Questo, ovviamente, non vuol dire che per sconfiggere la fame nel mondo dobbiamo diventare tutti vegetariani, ma evidenzia una richiesta di maggior consapevolezza nei confronti dell’alimentazione. Consapevolezza anche degli effetti ambientali prodotti dall’allevamento intensivo (sul suolo e sulle acque) e delle caratteristiche qualitative delle carni, in relazione alla sfrenata ricerca dei bassi prezzi (carne agli ormoni, carne con antibiotici, carne bovina ottenuta con proteine di origine animale o con l’utilizzazione di sottoprodotti e di scarti di lavorazione, ecc.).



7. – A proposito di differenze sociali


Il consumatore potrebbe avere un atteggiamento favorevole nei confronti dei CT se essi consentissero di diminuire le differenze sociali tra le diverse persone e consentissero un miglioramento del livello di benessere degli strati sociali più deboli.  Ad un primo sommario giudizio si può affermare, al contrario, che essi contribuiranno ad aggravare ulteriormente le differenze sociali esistenti all’interno della nostra società. Infatti, il loro acquisto, in relazione ai probabili rischi ed agli auspicati minori prezzi di mercato, sarà effettuato in prevalenza dalle classi sociali economicamente più deboli, mentre le classi sociali più ricche continueranno ad alimentarsi con prodotti biologici, prodotti a denominazione di origine controllata, prodotti tipici, ecc., creando dall’altra parte una sorta di proletariato alimentare. Tale eventualità, soprattutto nel momento attuale in cui non sono ancora chiari gli effetti sulla salute umana, pone problemi di sicurezza sociale non indifferenti, che potrebbero avere forti ripercussioni a lungo termine.



8. - Conclusioni

        

Come si è potuto osservare, le problematiche relative all'introduzione di coltivazioni transgeniche di prima generazione sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. In particolare, come per le altre innovazioni tecnologiche, se da un lato il tipo di sviluppo attuato in agricoltura in questi ultimi anni, improntato soprattutto all'esasperante ricerca del massimo profitto, ha consentito di massimizzare la produttività dei fattori della produzione, dall'altro non è sempre stato in grado di garantire sia un'equa ripartizione delle produzioni tra le diverse aree del pianeta, sia modalità di produzione compatibili con l'esigenza di salvaguardare l'ambiente e lo sviluppo sostenibile del territorio rurale. A questo proposito si auspica che le moderne biotecnologie, così come gran parte delle innovazioni tecnologiche introdotte in agricoltura in questo secolo (diserbanti, insetticidi, anticrittogamici, regolatori di crescita, ecc.), non siano viste come un ulteriore strumento "necessario" per incrementare la produttività del lavoro, a scapito, ancora una volta, dell'ambiente. Se si parte dal presupposto che occorra incrementare il reddito da lavoro in agricoltura, mantenendo inalterato o, meglio, abbassando il prezzo di vendita dei prodotti agricolo-alimentari, affinché, con motivazioni di tipo ricardiano, il consumatore incrementi il suo reddito reale e possa così destinare la parte eccedente ad altri consumi non primari, l'"individuo biotecnologico" diventa strumento fondamentale per attuare tale strategia.

Occorre, inoltre, considerare che anche nel caso delle tecniche che prevedono l’utilizzazione di DNA ricombinante, così come del resto per gran parte delle tecnologie fortemente innovative, l’applicazione può essere buona, mediocre o, addirittura, cattiva. Per il momento, le moderne biotecnologie hanno riguardato solo ed esclusivamente applicazioni finalizzate all'automazione del processo produttivo agricolo e all'incremento dei profitti privati. In particolare, l’adozione di questa tecnologia è avvenuta senza prima verificare se vi possano essere delle controindicazioni sia da un punto di vista degli effetti biologici che essa può determinare (sulla salute umana, sugli ecosistemi, sulla biodiversità, ecc.), sia da un punto di vista degli effetti economici che la sua applicazione può avere su sistemi produttivi agricoli sensibili come quelli presenti in Paesi ad elevata pressione antropica come l’Italia, che, come è risaputo, non sono particolarmente competitivi da un punto di vista dei costi di produzione e dove l’agricoltura svolge altre importanti funzioni che vanno al di là della semplice produzione di materie prime e alimenti.

Pertanto, le problematiche relative all'introduzione di queste coltivazioni transgeniche per scopi alimentari sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. Certamente la nostra agricoltura da sempre basata su presupposti di tipicità e di qualità non ha per il momento bisogno di questa  biotecnologia, che per essere considerata sostenibile dovrebbe avere possibilità applicative decisamente migliori.

Occorrerà poi valutare attentamente se questi "nuovi alimenti" rispondono ad una reale esigenza del consumatore. Soprattutto nell'attuale momento in cui quest'ultimo tende a privilegiare la tipicità, la salubrità e, più in generale, la naturalezza dei prodotti alimentari (il forte aumento del consumo di produzioni biologiche ne è una conferma), si può affermare che il loro sviluppo è sicuramente controtendenza. Una controtendenza che andrà valutata attentamente, al fine di non impiegare risorse e capacità umane nello sviluppo di produzioni delle quali, forse, non abbiamo una reale necessità.

In definitiva, possiamo affermare che con troppa fretta si cerca di applicare una tecnologia fortemente innovativa, che potrebbe avere ripercussioni significative sulla salute umana ed animale, sull’ambiente, sulla sicurezza alimentare e sullo sviluppo delle generazioni future e della quale l’attuale società non ne sente la necessità, in quanto siamo in presenza di produzioni eccedentarie rispetto al fabbisogno. In particolare, occorre essere  consapevoli del fatto che:

-         nell’Unione Europea non ci sono problemi di carenza alimentare, anzi, al contrario, ci sono problemi di eccedenze produttive. Gli agricoltori vengono pagati per non coltivare i terreni (set-aside), per gran parte dei prodotti sono applicate quote di produzione che non devono essere superate e molto spesso si è costretti a ritirare, a stoccare o a distruggere parte delle produzioni in eccesso (vino, burro, riso, ecc.) al fine di non far crollare i prezzi di mercato;

-         la domanda di prodotti alimentari è sempre più orientata verso cibi caratterizzati da un elevato standard qualitativo, intendendo con questo termine tipicità e naturalezza dei prodotti, assenza di residui di antiparassitari e assenza di manipolazioni genetiche;

-         siamo in presenza di rischi alimentari, in quanto la comunità scientifica non ha ancora chiarito gli effetti degli OT sulla salute umana, sulla salute degli altri animali e sull’ambiente.

Purtroppo, nel caso delle piante transgeniche ad uso alimentare, siamo di fronte ad una tecnologia che non ha subito il vaglio di adeguate sperimentazioni basate sul “principio di precauzione” e che determinando incertezza ed irreversibilità potrebbe condizionare le possibilità di sviluppo delle generazioni future. Pertanto compito dell'attuale generazione, se ritiene veramente che questa tecnologia possa in futuro essere determinante per il benessere delle generazioni future, è quello di potenziare la ricerca in questo settore, al fine di verificare gli impatti che essa può avere sull'uomo e sull'ambiente, posticipandone lo sfruttamento economico fino a quando le incertezze applicative non saranno definitivamente chiarite.