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lunedì 1 ottobre 2012

Nutraceutici transgenici: quali opportunità per la nostra Società?



La ricerca scientifica sta lavorando per creare "piante OGM arricchite", ovvero piante che dovrebbero dar origine ad "alimenti funzionali", "alimenti potenziati", aventi particolari caratteristiche, alimenti a metà strada tra un nutrimento e un "farmaco". Parliamo di alimenti arricchiti di vitamine e di quant'altro possa servire al "benessere" (sarà vero benessere?) dell'uomo. Cerchiamo di rispondere a questa domanda, con particolare riferimento alle problematiche sociali che l'introduzione di questi nuovi alimenti può avere per la nostra Società.


  1.     Introduzione agli OGM per scopi  alimentari

Per il momento gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM) o Organismi Transgenici (OT), oggetto di coltivazione, di ricerca e/o di sperimentazione, possono essere suddivisi in tre principali categorie:
-         quelli di prima generazione (piante resistenti agli insetti e piante resistenti ad uno specifico diserbante ad azione totale);
-         quelli di seconda generazione (con più vitamine, con meno grassi, a maturazione ritardata, con più antiossidanti, ecc.);
-         quelli di terza generazione, che saranno sviluppati allo scopo di far produrre alle piante vaccini e/o medicinali, che sarebbero altrimenti prodotti mediante sintesi chimica.
Per quanto attiene a quelli di prima generazione, e con particolare riferimento alla situazione europea, dobbiamo rilevare che per il momento essi non sono stati accettati dal consumatore (secondo le ultime indagini di mercato i tre quarti dei consumatori avrebbero manifestato l’intenzione di  non voler acquistare alimenti transgenici), in quanto presentano dei rischi per la salute umana e per l’ambiente (la comunità scientifica è ancora divisa su questi argomenti). Dobbiamo inoltre rilevare che a distanza di dieci anni dall’introduzione sul mercato della prima pianta transgenica, purtroppo, le promesse non sono state per la gran parte mantenute. In particolare, taluni studi effettuati da ricercatori di Università americane, sulla base delle esperienze acquisite dagli agricoltori che hanno coltivato piante transgeniche, avrebbero rilevato che [7]:
- l’aumento produttivo non sempre si è verificato. Soprattutto per la soia, i dati di produttività media per ettaro avrebbero consentito di verificare una diminuzione del 6% circa dei raccolti, mentre per il mais l’aumento produttivo sarebbe limitato al 2,6%. Pertanto, l’auspicato aumento della produttività media per ettaro, così come affermato dai sostenitori di questa tipologia di piante, non si sarebbe verificato e, con ogni probabilità, è ancora lontano dal verificarsi. Interessanti a questo proposito sono le affermazioni di alcuni noti genetisti agrari italiani: “Le piante transgeniche attualmente commercializzate non alzano il tetto di produzione potenziale. A questo scopo, sarebbe necessario rimaneggiare la pianta ex novo, non limitandosi ad introdurre singoli geni ma modificando processi fisiologici che rappresentano il collo di bottiglia dell’aumento di produzione.” [Gavazzi, 2004]. “(omissis) ….. è ancora da dimostrare la superiore potenzialità produttiva delle varietà GM rispetto alle varietà locali adattate in sistemi agricoli sfavoriti da condizioni climatiche ….. o edafiche avverse. In questo caso il miglioramento genetico mediante la classica ibridazione intra e interspecifica seguita da selezione, ha sempre offerto e continuerà ad offrire risultati sorprendenti ed a costi relativamente bassi.” [Scarascia Mugnozza, 2001];


-         l’uso di diserbanti non sarebbe diminuito, a causa di numerosi fattori, tra i quali sono da segnalare la massiccia diffusione delle piante infestanti geneticamente resistenti alla molecola diserbante, l’acquisizione da parte di piante parentali selvatiche del gene di resistenza al diserbante, la presenza nei campi coltivati con piante transgeniche di infestazioni di altre piante transgeniche coltivate in annate precedenti e che sono esse stesse resistenti al diserbante (secondo le esperienze riportate da alcuni agricoltori canadesi, la colza RR è divenuta una delle principali piante infestanti della soia RR e, più in generale,  delle altre coltivazioni transgeniche e/o convenzionali). Anche questa problematica era stata a suo tempo segnalata da alcuni genetisti italiani favorevoli alla diffusione di piante transgeniche. “Un’altra preoccupazione molto sentita riguarda la diffusione del polline e dei semi nell’ambiente. In effetti molte piante in natura sono sessualmente compatibili con piante transgeniche e vi è quindi la possibilità che il loro polline possa fecondarle trasferendovi il gene esogeno. Ciò sarebbe deleterio nel caso dei geni terminator, che causano sterilità o di geni resistenti agli erbicidi. Quest’ultimo è un evento già verificatosi negli Stati Uniti dove è stato necessario ricorrere alla sostituzione dell’erbicida a causa della comparsa di erbe infestanti resistenti a esso.” [Sala, 2000];

- l’utilizzazione di insetticidi non sarebbe diminuita, o, perlomeno, non sarebbe diminuita nella quantità auspicata, a causa della naturale selezione di generazioni di insetti resistenti alla molecola insetticida prodotta autonomamente dalla pianta transgenica. Anche in questo caso, ricercatori italiani avevano a suo tempo fatto presente che ”Limitazioni all’impiego di resistenze genetiche derivano dalle continue modificazioni cui va incontro il patogeno che, come già riportato, sviluppando nuovi geni di virulenza, è in grado di superare rapidamente le resistenze presenti nell’ospite.” [Scarascia Mugnozza, 2001];

-         le  piante transgeniche disponibili presentano dei geni di resistenza gli antibiotici, che possono determinare problemi salutistici all’organismo umano. Questo problema è stato evidenziato anche da taluni sostenitori degli OT. In particolare, “Le biotecnologie avanzate ….. permettono anche il trasferimento di geni tra specie tassonomicamente lontane, superando le barriere naturali; ciò apre prospettive rivoluzionarie dal punto di vista dei benefici potenziali, ma pone anche una serie di problemi di sicurezza, etici, di scelta del consumatore e di impatto ambientale. Uno dei problemi deriva dall’esigenza di utilizzare per la trasformazione costrutti che, oltre al gene da trasferire, portano anche un gene che conferisce la resistenza ad un agente selettivo, in molti casi un antibiotico.” [Scarascia Mugnozza, 2001];
-          
- la presenza sul territorio di coltivazioni transgeniche non consentirebbe la coesistenza con altre forme di agricoltura (convenzionale o biologica), in relazione al fatto che queste piante presentano tutte transgeni di tipo costitutivo, con conseguente presenza di “inquinamento genetico” provocato dal polline transgenico. In particolare, il polline transgenico può fecondare sia piante della stessa specie coltivate, sia piante infestanti parentali, le quali in una annata successiva potrebbero originare piante infestanti transgeniche, che potrebbero diffondere polline transgenico nell’ambiente, con tutte le conseguenze del caso;
- le piante transgeniche non avrebbero consentito l’auspicato incremento di reddito per l’agricoltore, anzi, a volte, avrebbero determinato un abbassamento dei prezzi di mercato dei relativi prodotti, in relazione alla difficoltà di collocamento delle produzioni ottenute, alla diffidenza dei consumatori nei confronti di questi nuovi alimenti ed alla necessità di mantenere separate le filiere di distribuzione (segregazione fisica della produzione, analisi genetiche, etichettatura, ecc.), che avrebbe determinato una lievitazione dei costi di filiera.

Per il momento, gli OT di prima generazione sono gli unici che sono stati introdotti e proposti per la coltivazione in pieno campo. Relativamente alla loro diffusione dobbiamo rilevare che, soprattutto in alcuni Paesi (U.S.A., Canada, Argentina) dove vige il concetto si “sostanziale equivalenza” tra l’alimento transgenico e quello convenzionale (non c’è separazione di filiera produttiva e, quindi, non c’è etichettatura dei due alimenti ed esiste un unico prezzo per la stessa tipologia di prodotto, sia esso convenzionale o transgenico), essi sono stati adottati massicciamente dagli agricoltori. Tale situazione, che potrebbe essere erroneamente accreditata esclusivamente ad un elevato gradimento di queste sementi da parte degli agricoltori,  è determinata anche dal  fatto che in questi Paesi è presente un’unica filiera di distribuzione per il medesimo prodotto, sia esso transgenico o  non transgenico. In presenza di un’unica filiera, e con prezzi flettenti dei prodotti, così come si è verificato per la soia e per il mais transgenici, è ovvio che se l’agricoltore vuole conservare un certo margine di redditività dall’attività di coltivazione, sarà “costretto”, anche suo malgrado, a seminare le cultivar caratterizzate dal minor costo di produzione (ovvero quelle transgeniche). Ecco allora che l’incremento delle superfici coltivate è dovuto, non tanto, ed esclusivamente, ad un gradimento dell’agricoltore nei confronti di queste piante, così come alcuni tendono a far credere, ma alla necessità da parte dello stesso di mantenere un certo margine di redditività dall’attività agricola (è ovvio che se non c’è distinzione di prodotto, ed il prezzo del mais transgenico è uguale a quello del mais convenzionale, egli coltiverà quello caratterizzato dal minor costo di produzione, ovvero quello transgenico).

Gli OT di seconda e di terza generazione per il momento non esistono o, quantomeno, la loro presenza è limitata ai laboratori di ricerca e non sono ancora disponibili per la coltivazione in pieno campo e, quindi, non sono ancora disponibili per l’utilizzazione come alimenti. Le promesse sono entusiasmanti, piante alimentari che produrranno vitamine di ogni tipo e che salveranno dalla cecità milioni di bambini, frutti che potranno rimanere sugli scaffali dei negozi di vendita per settimane senza marcire, alimenti ricchi di licopene che impediranno la formazione di qualsiasi tipo di cancro, alimenti ricchi di “Omega 3” che impediranno l’invecchiamento delle nostre cellule  e ci allungheranno la vita, “frutti particolari” che impediranno la diffusione di malattie fortemente invalidanti, alimenti “ipocalorici” in grado di banalizzare ogni dieta alimentare e l’elenco potrebbe continuare ancora e stupirci ancor di più.


2.     – Quali opportunità per l’agricoltore italiano?

Da un punto di vista dell’agricoltura italiana, l’introduzione di nuove produzioni agricole, come possono essere considerati gli “alimenti funzionali” o “nutraceutici”, potrebbe rispondere alle nuove esigenze della politica agraria comunitaria. Esigenze che possono essere così individuate:
-         mantenimento del tessuto socio-economico delle aree rurali, con particolare riferimento a quelle marginali;
-         protezione dell’ambiente, mediante l’introduzione di incentivi per le aziende che adottano misure agro-ambientali;
-         impostazione di processi produttivi relativi a materie prime non eccedentarie, come possono essere considerati gli “alimenti funzionali”.
La produzione di “alimenti funzionali transgenici” potrebbe rispondere sicuramente a questa terza esigenza, in quanto trattasi di nuove produzioni, caratterizzate da un  mercato ben definito, che potrebbero determinare nuove opportunità di reddito per il produttore agricolo. Il condizionale è d’obbligo, in quanto tali opportunità di guadagno si potranno verificare solo se il mercato di quel prodotto sarà "libero", poiché, nel caso, molto più realistico, in cui la coltivazione fosse attuata "su contratto", i maggiori guadagni sarebbero quasi esclusivamente a favore di colui che detiene il brevetto della pianta transgenica in grado di produrre l’”alimento funzionale”. In particolare, il proprietario del brevetto, al fine di massimizzare i suoi profitti, con ogni probabilità, “appalterà” la coltivazione agricola (con un contratto simile a quello di soccida adottato per l’allevamento avicolo o suinicolo) e pagherà l’agricoltore sulla base delle operazioni colturali e dei fattori della produzione necessari per portare a termine il ciclo produttivo. Tale situazione non è certo favorevole all’agricoltore, in quanto introdurre in agricoltura la coltivazione di “alimenti funzionali” che potrebbero sostituire quelli convenzionali, significa rivedere le norme relative alla brevettabilità di questi “nuovi alimenti”. In particolare, colui che possiede il brevetto, potrebbe acquisire il “monopolio di fatto” su quella pianta, impedendone, così, la libera coltivazione. Occorrerà, pertanto, considerare la diminuzione di potere contrattuale dell'agricoltore, in relazione alle possibili strategie economico-commerciali che si prospettano per colui che è "proprietario" della semente transgenica in grado di produrre “alimenti funzionali”. Il detentore del brevetto:
-         potrebbe limitarsi a richiedere all’agricoltore il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, lasciandogli libertà di scelta in merito alle diverse opportunità di vendita sul mercato del prodotto ottenuto (è quello che avviene oggigiorno per la gran parte delle sementi, la ditta sementiera produce ricerca e sviluppo e l’agricoltore paga le royalty per i servizi che riceve). Trattasi di una situazione che potremmo definire “normale”, una situazione in cui tutti i soggetti che partecipano a questo progetto produttivo apportano le proprie competenze ed acquisiscono i relativi redditi;
-         il detentore del brevetto della pianta che produce l’”alimento funzionale”, potrebbe andare oltre e richiedere il pagamento di una royalty, oltre che per ogni chilogrammo di semente, anche per ogni chilogrammo di prodotto ottenuto da quella semente e immesso sul mercato (avviene già per talune coltivazioni ottenute attraverso miglioramento genetico convenzionale). In questo caso l’agricoltore diverrebbe, in parte, un “dipendente” della ditta che possiede il brevetto di quella pianta, in quanto la sua attività imprenditoriale andrebbe a premiare anche altri soggetti, che non hanno assunto nessun rischio di carattere gestionale nella conduzione dell’attività agricola;
-         il detentore del brevetto potrebbe non accontentarsi ancora e potrebbe riservarsi la proprietà della produzione finale dell’”alimento arricchito”, attuando la produzione per conto proprio, sulla base di un rapporto contrattuale con l’agricoltore. Nel contratto di coltivazione saranno stabilite le operazioni meccaniche da effettuare, il costo delle stesse, nonché le modalità di conferimento del prodotto finale ottenuto (avviene già per talune coltivazioni e allevamenti ed è forse la situazione più realistica per la produzione di “alimenti funzionali”). E' ovvio che in una situazione come questa l'agricoltore diverrebbe esclusivamente un prestatore di manodopera, con conseguente perdita delle sue prerogative imprenditoriali. Da rilevare poi che con una strategia di questo tipo il monopolista otterrebbe due grandi vantaggi. In primo luogo egli metterebbe in concorrenza tra loro gli agricoltori per accaparrarsi la commessa di coltivazione, con conseguente abbassamento del costo del contratto di coltivazione. In secondo luogo egli diverrebbe monopolista di quell’alimento, con tutte le conseguenze del caso (regolazione del mercato attraverso adeguate politiche dei prezzi o politiche delle quantità).  Chi otterrà vantaggi da questa situazione? L’agricoltore? Il consumatore? In detentore del brevetto? Sicuramente quest’ultimo, in quanto potrà trasferire il processo produttivo laddove ha un costo di produzione inferiore (non importa in quale Paese o in quale area del Globo) e vendere il prodotto ottenuto laddove i consumatori sono disposti a pagarlo di più.
Per il produttore agricolo vi è poi il pericolo che questi nuovi alimenti, ottenuti sulla base di una  tutela brevettale, possano sostituire  alimenti convenzionali, in quanto da un punto di vista alimentare essi saranno tra loro sempre più surrogabili. In particolare, attualmente, ogni alimento ha proprie specificità che lo rendono accettabile o meno da parte del consumatore. Così, per esempio, il consumatore è consapevole del fatto che mangiando arance o actinidia ingerisce un alimento ricco di vitamina C, mangiando zucca o carote arricchisce la sua dieta di vitamina A, ecc. In questa situazione si creano opportunità di reddito per l’agricoltore, che, in funzione delle sue capacità professionali e delle opportunità connesse alla localizzazione della sua azienda agricola, produrrà arance, zucche, carote o quant’altro. Quando ci sarà un “alimento funzionale” che sarà contemporaneamente ricco di vitamina C e A o di quant’altro cosa accadrà? Per assurdo, forse, non ci sarà più bisogno della zucca o dell’arancia (forse sarà una patata). E le opportunità di reddito per l’agricoltore? Saranno limitate alla scelta di coltivare questo unico prodotto, che con ogni probabilità sarà brevettato e potrà essere seminato solo sulla base di un rapporto contrattuale con il proprietario del brevetto.
Conseguenza diretta della situazione precedente è che l’introduzione di un “nuovo alimento” in grado di surrogare altri alimenti, sia esso transgenico o meno, determinerà una diminuzione della domanda dei tradizionali alimenti convenzionali, con successiva diminuzione del loro prezzo di mercato, diminuzione delle opportunità di reddito per l’agricoltore e conseguente diminuzione delle possibilità di scelta di coltivazione per il nostro agricoltore. Qualcuno potrebbe pensare che, tutto sommato, per l’agricoltore la situazione non cambia, in quanto egli sposterà la coltivazione sul “nuovo alimento”. Questa affermazione è sicuramente vera, occorre però considerare che questo “nuovo alimento” sarà sicuramente brevettato, per cui si ripropone una situazione produttiva come quella descritta in precedenza (contratti di coltivazione).
Un’evoluzione in questo senso è ancor più accentuata nel caso delle produzioni agricolo/alimentari destinate alla trasformazione industriale. In particolare, da questo punto di vista occorre essere consapevoli del fatto che, la  "possibilità  recentemente  offerta dalle  biotecnologie  avanzate di  intervenire sulla  base organica    del   processo  produttivo  agricolo,  manipolandola   e controllandola,  consente per  la prima  volta di  rimuovere l'ostacolo che ha finora   impedito  la  completa  industrializzazione  del processo  produttivo agricolo  e la  produzione  industriale di  materia  organica,  in tal  modo permettendo l'unificazione delle varie fasi di produzione di   prodotti alimentari in un  unico processo produttivo di tipo  industriale."  [C.  Salvioni,  1991].  Questa  opportunità è resa  possibile  dallo   sviluppo  di  organismi  transgenici fortemente specializzati  nella produzione  di  materie  prime di  base  (vitamine,  carboidrati,   grassi,  ecc.).    Tali  sostanze   potranno poi  essere estratte dai prodotti agricoli ed utilizzate dall'industria per produrre  beni alimentari e non. Al limite, si potrebbe pensare ad una situazione in cui le “vitamine naturali” aggiunte ai succhi di frutta, possano derivare da una specifica coltivazione transgenica di mais, di patata o di soia[2]. Non v’è alcun dubbio sul fatto che il consumo di questi succhi di frutta potrebbe essere considerato un succedaneo del consumo di frutta fresca. Anche in questo caso la produzione agricola di alimenti convenzionali ne risulterebbe svantaggiata su due fronti:
-         da un lato le vitamine contenute in questi succhi di frutta potrebbero determinare una diminuzione del consumo di frutta fresca in quanto l’apporto vitaminico dei succhi vitaminizzati potrebbe essere considerato sufficiente dal consumatore che non è in grado di comprendere il diverso apporto nutrizionale dei succhi di frutta nei confronti della frutta fresca;
-         dall’altro lato il settore agricolo pur di fornire le vitamine da addizionare ai succhi di frutta, potrebbe essere “costretto” a sostituire una coltivazione ad alto valore aggiunto (quella di frutta), con una produzione a basso valore aggiunto (mais e/o patata transgenici o quant’altro, che sono stati geneticamente modificati per produrre vitamine). Trattasi di una strategia di “sostituzionismo”, da sempre messa in atto dall’industria nei confronti dell’agricoltura, una strategia mediante la quale l’industria tende a sostituire prodotti di origine agricola con altri prodotti di origine industriale.
Per il nostro Paese, il fatto che talune piante transgeniche migliorate possano sostituire altre piante convenzionali,  potrebbe determinare situazioni non certo favorevoli per l’economia agricola di determinati territori. Pensiamo, per esempio, alla possibilità prospettata da alcuni ricercatori, di far produrre alle piante erbacee annuali sostanze normalmente prodotte da piante arboree poliannuali. E’ il caso, per esempio, dell’olio di oliva, che potrebbe essere ottenuto dalla coltivazione di una colza transgenica arricchita di acido oleico, simile a quello ottenuto dalla spremitura delle olive. Anche in questo caso lo scenario che si potrebbe determinare per il nostro Paese è sotto certi punti di vista devastante, in quanto la coltivazione dell’olivo, oltre ad essere l’unica economicamente  attuabile in taluni territori marginali,  ha effetti di un certo rilievo sul paesaggio e sull’assetto idrogeologico del territorio.
Per l’agricoltore qualche opportunità economica dall’introduzione di “alimenti funzionali” potrebbe derivare dalla produzione di piante con un elevato contenuto di “sostanze funzionali”, che sarebbero poi destinate alla trasformazione industriale per la produzione di farmaci. In questo caso l’agricoltore sarebbe chiamato a svolgere una funzione normalmente fornita dall’industria, appropriandosi così dei relativi redditi. E’ ovvio che i vantaggi per il settore agricolo saranno commisurati alla possibilità di produrre e vendere autonomamente la pianta in grado di fornire le sostanze farmaceutiche,   in quanto, nel caso di brevetto, con ogni probabilità, il valore aggiunto ritraibile da questa attività sarebbe, ancora una volta, appannaggio del detentore del brevetto.
Da un punto di vista agronomico, occorrerà considerare poi che queste piante destinate a produrre “alimenti funzionali transgenici” possono presentare caratteristiche fisiologiche e metaboliche diverse da quelle convenzionali, tanto da poter rendere necessari trattamenti antiparassitari e tecniche di coltivazione diverse da quelle normalmente utilizzate (per esempio potrebbero essere più sensibili ad alcune malattie fungine). A questo punto le domande sono diverse:
-         le tecniche di coltivazione saranno le stesse, oppure occorrerà modificarle?
-         la dotazione di macchine ed attrezzature sarà la stessa?
-         le piante transgeniche riusciranno ad utilizzare nello stesso modo i fattori produttivi impiegati nelle coltivazioni convenzionali (concimi, soprattutto)?
-         saranno necessari altri interventi antiparassitari?
-         queste operazioni colturali aumenteranno i costi di produzione?
I precedenti scenari costituiscono per l’agricoltura del nostro Paese un vantaggio o uno svantaggio? Si verificheranno per tutte le coltivazioni di “alimenti funzionali” o solo per quelle brevettate? E nel caso in cui le coltivazioni di “alimenti funzionali” possano sostituire da un punto di vista nutrizionale alimenti tradizionali del nostro territorio, la nostra agricoltura otterrà dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre rispondere a queste domande prima di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi irreversibilmente controproducenti per l’agricoltura del nostro Paese.

 


3.     Sintesi conclusiva

Gli alimenti funzionali di origine transgenica, proprio in relazione alle loro potenzialità, possono  rappresentare un vero e proprio stravolgimento delle abitudini alimentari della nostra società. Essi, però, prima di essere utilizzati per la coltivazione in pieno campo dovranno rispondere a requisiti minimi essenziali di sicurezza alimentare ed ambientale, sui quali è impossibile derogare. Tali requisiti possono essere così individuati in ordine di importanza:
-         da un punto di vista nutrizionale essi non dovrebbero avere controindicazioni di alcun tipo, in quanto quello della “sicurezza alimentare del cibo” è un prerequisito del quale non si dovrebbe nemmeno parlare; il cibo, per sua natura e in quanto tale, non deve nuocere alla salute. A questo riguardo siamo consapevoli del fatto che esistono dei nutrimenti convenzionali che assunti in quantità elevata sono nocivi alla salute (noce moscata, prezzemolo, ecc.), ma non per questo possiamo giustificare un ampliamento generalizzato di alimenti di questo tipo, in quanto aumenterebbe la frequenza di eventi dannosi alla salute umana. In particolare, prima di introdurli per il quotidiano uso alimentare, occorrerà valutare attentamente la probabilità che l’assunzione inconsapevole di questa tipologia di alimenti possa determinare effetti negativi alla salute;
-         essi dovranno avere una comprovata azione preventiva, che non dovrà essere inferiore a quella normalmente ottenuta dai consueti farmaci;
-         essi dovranno essere privi di qualsiasi gene di resistenza agli antibiotici;
-         essi, al di là della presenza dell’elemento nutrizionale che conferisce la funzionalità, dovranno mantenere inalterate le altre caratteristiche nutrizionali dell’alimento, al fine di non aumentare ulteriormente le incertezze nutrizionali del consumatore. L’eventualità che vi possa essere anche una modesta modificazione delle altre caratteristiche nutrizionali, potrebbe determinare il rifiuto di questi alimenti da parte del consumatore, in quanto “ciò che è funzionale per alcuni potrebbe non esserlo per altri e ciò che non è funzionale per alcuni potrebbe esserlo per altri”; 
-         l’alimento funzionale dovrà svolgere la sua attività nell’ambito della normale dieta giornaliera e non dovrà essere oggetto di specifica somministrazione come nel caso dei farmaci. Esemplare a questo riguardo è il caso dello iodio nel sale. L’azione preventiva viene svolta in modo inconsapevole, in quanto l’assunzione del sale iodato non modifica le abitudini alimentari del consumatore;
-         da un punto di vista della produzione agricola, essi dovranno manifestare assoluta compatibilità ambientale ed assenza di fenomeni di “inquinamento genetico” nei confronti di altre piante parentali selvatiche, che potrebbero poi originare piante selvatiche caratterizzate anch’esse dalla medesima funzionalità;
-         da un punto di vista della produzione agricola vi dovrà essere comprovata possibilità di coesistenza con altre forme di agricoltura convenzionale e/o biologica, in quanto, proprio al fine di garantire un acquisto consapevole da parte del consumatore, non è ipotizzabile anche un livello minimo di inquinamento genetico della filiera produttiva di un determinato alimento convenzionale destinato alla nutrizione umana;
-         vi dovrà essere separazione netta della filiera distributiva di questi “prodotti arricchiti” da quelli convenzionali (specifica etichettatura);
-         vi dovrà essere possibilità di ricorrere a tecniche di produzione già adottate per altre piante, al fine di semplificare la coltivazione in pieno campo;
-         essi dovranno essere caratterizzati da favorevole grado di redditività per l’agricoltore, a prescindere dalla presenza di contratti di coltivazione;
-         vi dovrà essere una reale accettazione da parte dell’utilizzatore, sia esso privato o industria di trasformazione;
-         non dovranno agevolare comportamenti di consumo parossistici, sia da un punto di vista della sostituzione di altri alimenti convenzionali, sia da un punto di vista della loro utilizzazione per prevenire situazioni patologiche inesistenti.  Relativamente a quest’ultimo aspetto, significativo può essere l’esempio di quanto sta avvenendo in Israele, dove le locali autorità avrebbero pensato di somministrare apporti anche notevoli di iodio alle persone che vivono nelle vicinanze di impianti nucleari, al fine di diminuire la possibilità di contrarre malattie nel caso di fughe radioattive.
Pertanto, le problematiche relative all'introduzione di coltivazioni transgeniche di seconda generazione, così come per quelle di prima generazione, sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. In particolare, la loro adozione dovrà avvenire solo dopo una attenta e precisa verifica delle controindicazioni, sia da un punto di vista degli effetti biologici che si potranno determinare (sulla salute umana, sugli ecosistemi, sulla biodiversità, ecc.), sia da un punto di vista degli effetti economici che la loro applicazione può avere su sistemi produttivi agricoli sensibili come quelli presenti nel nostro Paese.
Occorrerà poi valutare attentamente se questi "alimenti funzionali" rispondono ad una reale esigenza dei consumatori. Tra questi ultimi ne esiste una certa aliquota che potrà sicuramente beneficiare dall’introduzione di “alimenti funzionali transgenici” (soggetti allergici ad alcuni alimenti, soggetti che soffrono di intolleranza alimentare, soggetti che si trovano in particolari condizioni psico-fisiche perché troppo grassi o troppo magri, soggetti che desiderano una dieta ricca di particolari sostanze, ecc.). Per questi soggetti la presenza sul mercato di “alimenti funzionali alle loro esigenze”, non potrà che rappresentare un aumento del loro benessere.
Il discorso è diverso per la gran parte della popolazione, che non si trova nelle precedenti condizioni e per la quale l’introduzione di “alimenti funzionali transgenici” potrebbe modificare una situazione che, dal suo punto di vista, è sostanzialmente accettabile, nella quale potrebbe aumentare il rischio di originare comportamenti nutrizionali errati, a causa della presenza di alimenti che presentano un contenuto nutrizionale diverso da quello a cui era abituata. Trattasi di un pericolo reale che non deve essere sottovalutato. Per questo motivo, al di là dei requisiti minimi di sicurezza che dovranno presentare questi nuovi alimenti e dei quali si è discusso in precedenza, soprattutto durante la vendita al dettaglio, occorrerà prevedere modalità di vendita dei “nutraceutici transgenici” che impediscano in tutti i modi possibili acquisti non consapevoli.  
 



[1] Nel seguito sarà preferita la definizione di  Organismi Transgenici (OT),  al fine di non confondere questi nuovi organismi ottenuti con tecniche di ingegneria genetica, con quelli modificati con altre tecniche di selezione genetica.
[2] Ovviamente questo non è che un esempio, in quanto non necessariamente le vitamine introdotte negli alimenti devono essere di origine naturale; esse potrebbero anche essere sintetizzate chimicamente.