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domenica 4 gennaio 2015

OGM e brevetto, una nuova forma di colonialismo alimentare?

Si vuole iniziare questo post con le parole di Padre Bartolome Sorge S.I.
“Personalmente insisterei maggiormente sulla necessità di un più vasto consenso popolare, se si vuole condurre una campagna efficace sull'uso corretto delle biotecnologie. Infatti, non si tratta solo di prevedere e prevenire le gravi minacce incombenti sulla salute dell'uomo, sull'equilibrio ecologico e a livello sociale, ma anche sul corretto funzionamento del sistema democratico. Si tratta, infatti, ribadendo il primato dell'etica sulla politica, d'impedire che si affermino meccanismi speculativi, soprattutto da parte delle multinazionali, che contraddicono alla logica e alla natura stessa della vita democratica. E' necessario denunciare con forza che non solo è antidemocratico, ma è immorale concedere a pochi privilegiati – attraverso il «brevetto» – il diritto di disporre delle biotecnologie, quasi che le scoperte  riguardanti la vita siano soggette a proprietà privata. Non è lecito legittimare forme di monopolio e di colonialismo, che sono la negazione stessa del bene comune e decretano la morte della democrazia. La vita non è una invenzione industriale. La vita non si fabbrica. La vita non si brevetta.”
In termini generali il Brevetto, rappresenta una sorta di  monopolio legale, seppur limitato territorialmente e temporalmente. Tale monopolio legale è giustificato dal fatto che il sistema brevettuale è basato su una forma di scambio: il titolare del brevetto riceve protezione per la propria invenzione (monopolio temporaneo) e in cambio è obbligato a svelare e a descrivere dettagliatamente l'invenzione.  Pertanto, durante il periodo di applicazione del Brevetto, colui che ne è detentore può sfruttare economicamente la protezione brevettuale, al fine di ottenere un ritorno economico, sia per le spese di ricerca e sviluppo sostenute, sia in termini di profitto.
Da un punto di vista etico, ed in relazione al fatto che stiamo parlando di cibo, bene essenziale per la vita, dobbiamo interrogarci su questa “deriva tecnologica”, al fine di verificare se essa potrà determinare un aumento della libertà per l’uomo, o se, invece, costituirà solo uno strumento per aumentare il profitto privato, a danno delle libertà essenziali della vita stessa e degli elementi che insieme concorrono a costituire i pilastri della pace sociale (verità, amore, giustizia e libertà). In particolare, utilizzando le parole del card. Turkson, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, “E’ azzardato – e in ultima analisi assurdo, anzi peccaminoso – impiegare le biotecnologie senza la guida di un’etica profondamente responsabile.” (Aggiornamenti Sociali, aprile 2014)
In relazione all’ampio dibattito in merito alla tutela brevettuale in ambito agricolo, dobbiamo essere convinti del fatto che l’introduzione di Organismi Transgenici (OT) in agricoltura è fortemente correlato, se non addirittura condizionato, dalla possibilità di brevettare il risultato della manipolazione genetica al fine di ottenerne un profitto; se non ci fosse il Brevetto, con ogni probabilità, non ci sarebbero nemmeno OT e oggigiorno, forse, non si parlerebbe di questo argomento. Relativamente alla tutela brevettale delle innovazioni tecnologiche in ambito genetico, ciò che lascia maggiormente perplessi è l’utilizzazione del Brevetto in ambito agricolo, soprattutto nel caso in cui riguardi piante o animali di fondamentale importanza per l’alimentazione umana. Nella fattispecie, non stiamo parlando di una funzione fisiologica della quale ognuno di noi, volendo, potrebbe farne a meno; stiamo parlando di alimentazione, un’azione che bene o male ognuno di noi deve compiere obbligatoriamente almeno tre volte al giorno. Sono queste considerazioni che differenziano sostanzialmente i brevetti su materiale elettronico o su capi di abbigliamento, da quelli su piante ed animali ad uso alimentare, in quanto essi potrebbero mettere in discussione anche la sovranità alimentare di un Paese. E di questo, ovviamente, si sono accorte le grandi multinazionali del seme, che stanno facendo di tutto per ottenere il monopolio nella produzione e nella distribuzione del seme, poiché non si tratta del solo seme, ma anche di tutto ciò che è possibile trovare a monte e a valle della produzione del seme, con particolare riferimento alla produzione di cibo. In particolare, in questi ultimi anni, a livello mondiale, il più evidente elemento di trasformazione del settore sementiero, è stato il massiccio ingresso in questa attività di grandi imprese multinazionali, che, già attive nel settore chimico e farmaceutico, hanno esteso il proprio campo di azione all’ingegneria genetica applicata alle piante e alla commercializzazioni dei prodotti biotecnologici. In particolare, secondo un rapporto di ETC Group (http://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/ETCCommCharityCartel_March2013_final.pdf), il 59,8% del mercato dei semi e il 76,1% dei prodotti agro-chimici venduti nel mondo sarebbe controllato da sei grandi imprese (Syngenta, Bayer, BASF, Dow, Monsanto e DuPont) che, dal 2007 al 2010, hanno speso 2.2 miliardi di dollari l’anno per la Ricerca e lo Sviluppo di varietà geneticamente modificate. La quota di mercato delle maggiori multinazionali sementiere (Monsanto, DuPont e Syngenta) è passata dal 22% nel 1996 al 53,4% nel 2011, mentre per il settore agro-chimico, dominato al 52% da Syngenta, Bayer e BASF, è cresciuta, nello stesso periodo, dal 33% al 52,5%. Questa situazione di mercato è il risultato di un intenso processo di fusioni e di acquisizioni attuate negli ultimi decenni: Syngenta è, ad esempio, il risultato della fusione parziale tra la britannica Zeneca e l'elvetica Novartis, la quale a sua volta era frutto della fusione tra Ciba Geigy e Sandoz; Monsanto si è ingrandita grazie a una serie numerosa di acquisizioni di compagnie quali Asgrow, Agracetus, Dekalb, Cargil, ecc.; Aventis nasce dalla fusione della francese Rhone Poulenc e della tedesca Hoest; Du Pont ha acquistato la Pioneer.
Come esito finale di tali processi, non soltanto si assiste ad una progressiva assimilazione dell’identità degli operatori presenti nel settore delle sementi e in quello degli agrofarmaci, ma anche ad un’analoga evoluzione delle dinamiche competitive, incentrate in misura crescente sullo sfruttamento e sulla difesa dei diritti di proprietà intellettuale, così come da anni avviene nel settore farmaceutico.
Le strategie di sviluppo attuate dalle multinazionali hanno sostanzialmente determinato due grandi fenomeni:
i) una crescente concentrazione dell’offerta di sementi e di agrofarmaci;
 ii) una crescente osmosi tra il settore delle sementi e quello degli agrofarmaci, nonché tra tali settori e quello farmaceutico.
I processi di concentrazione e di integrazione descritti, funzionali al perseguimento della massima efficienza tecnico-produttiva, pongono tuttavia il problema dei possibili comportamenti strategici dei grandi gruppi multinazionali, diretti a realizzare un maggior controllo dei mercati e a orientare le scelte degli utilizzatori. Da un lato, infatti, l’evoluzione tecnologica e la normativa dei settori in esame ha certamente generato la necessità di disporre di maggiori risorse economiche e dimensioni produttive/commerciali per affrontare gli ingenti costi legati allo sviluppo e alla registrazione delle nuove varietà di piante e delle nuove molecole di agrofarmaci; dall’altro, la concentrazione in poche mani delle risorse destinate alla ricerca e allo sviluppo delle varietà di sementi, nonché delle sostanze più idonee a garantirne la coltivazione e la crescita, consente di esercitare un forte potere di mercato nei confronti degli agricoltori, utilizzatori finali dei prodotti sementieri e fitofarmacologici, aumentandone di fatto il grado di dipendenza dall’industria di produzione degli input. Da rilevare che secondo il Dipartimento USA all’agricoltura, l’aumento dei prezzi dei semi negli ultimi dieci anni ha registrato i maggiori incrementi rispetto ad ogni altro tipo di input agricolo.
Al riguardo, è appena il caso di ricordare, ad esempio, come la diffusione di prodotti transgenici, tutelati dai diritti di protezione intellettuale, ostacoli l'utilizzazione delle sementi di seconda generazione per la semina successiva (anche semi della stessa annata agricola, per i quali è stata pagata una royalty, al fine di effettuare nella stessa annata agraria una seconda coltivazione e un secondo raccolto), decretando così l'impossibilità per gli agricoltori di appropriarsi del seme proveniente dal raccolto dell'anno precedente per seminarlo in una annata successiva, senza corrispondere i relativi diritti brevettuali all'azienda costitutrice (pertanto, non è vero che i semi OGM sono sterili, ma è vero che non si possono riseminare senza ripagare le relative royalty).
Soprattutto in ambito agroalimentare, alcune domande di ordine etico sullo sfruttamento del brevetto esigono una risposta prima di adottare piante ed animali transgenici in agricoltura. In particolare:
-         è lecito brevettare la variabilità genetica delle piante e degli animali destinata ad uso alimentare e attualmente presente sul Pianeta?
-         è eticamente accettabile brevettare gli alimenti?
-         il brevetto sugli alimenti aumenterà o diminuirà il benessere delle persone e della collettività?
-         gli OGM brevettati miglioreranno la condizione umana o sono semplicemente finalizzati ad un aumento dei profitti privati?
-         gli OGM brevettati  determineranno dei vantaggi o degli svantaggi per l’agricoltura del nostro Paese?
-         come potrà essere sfruttato il brevetto nei confronti dell’agricoltore?
-         esistono delle limitazioni allo sfruttamento economico del brevetto, oppure tutto sarà possibile? 
-         chi decide in merito alla qualità dell’alimento brevettato?
-         il detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento le caratteristiche intrinseche, con particolare riferimento a quelle nutrizionali, del prodotto alimentare ottenuto dalla semente transgenica?
-         come potranno essere modificate le caratteristiche nutrizionali?
-         il detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento il legame esistente tra qualità del prodotto e luogo di produzione?
-         da un punto di vista etico, sarà tutto consentito o vi saranno delle limitazioni?
In questa sede, come si è detto in precedenza, non si vuole affrontare la problematica, tutta ancora da chiarire, relativa alla liceità o meno dell’utilizzazione del brevetto per affermare un diritto privato di proprietà su piante ed animali, ma si vogliono esclusivamente evidenziare gli effetti che l’applicazione della tutela brevettuale potrebbe avere sul consumatore e sul settore agricolo nazionale.
Cosa significa "brevetto" per il settore agricolo italiano e, in particolare, quali effetti potrebbe avere sul reddito dell’agricoltore?
In primo luogo, il brevetto sulle piante e sugli animali contribuirà ad aumentare la dipendenza economica del settore agricolo nei confronti di quello industriale, in quanto l'agricoltore sarà costretto ad acquistare tutti gli anni la semente che intende coltivare o l’animale che intende allevare. Qualcuno potrebbe far rilevare che, di fatto, questo già accade per la gran parte delle sementi oggi coltivate (soprattutto per le sementi ibride). Nel caso degli OT, a parte la situazione di monopolio/oligopolio che si verrebbe a determinare, il brevetto significa qualcosa di più, in quanto l’agricoltore, oltre all’acquisto delle sementi, potrebbe essere “obbligato” ad acquistare anche la materia prima in grado di far produrre queste sementi (è il caso delle piante di soia, di colza e di mais resistenti ad uno specifico diserbante, prodotto e venduto anch’esso dalla stessa ditta che ha il monopolio del seme). In futuro il problema potrebbe essere amplificato dal fatto che le ditte che propongono questi nuovi organismi, per proteggersi dall’utilizzazione illecita di sementi brevettate, potrebbero inserire geni che consentono la germinazione del seme solo nel caso di contemporanea presenza di una sostanza particolare, che sarà venduta insieme alla semente (strategia volgarmente chiamata “Traitor”). Se sarà poi vero, come ovviamente si spera, che questi nuovi organismi non avranno alcun effetto sulla salute umana e sull’ambiente, occorrerà considerare che la loro completa accettazione da parte del mercato  (presenza di una sola filiera di distribuzione, assenza di etichettatura obbligatoria dei prodotti OGM, ecc.) determinerà un forte vantaggio competitivo per le ditte sementiere che ne detengono il brevetto, con creazione di un mercato in condizioni di monopolio o “quasi monopolio”. Si verrebbe a determinare ciò che, di fatto, è già avvenuto nei Paesi dove si registra un’accettazione incondizionata di questi nuovi alimenti e nei quali non c’è etichettatura degli alimenti OGM: la presenza di un’unica filiera di distribuzione (per esempio, per il mais un unico prezzo di mercato, sia esso transgenico o convenzionale), associata ad una diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti transgenici, ha determinato l’esplosione delle superfici coltivate con questi nuovi organismi. In pratica, cos’è accaduto? Il minor costo di produzione delle coltivazioni transgeniche ha determinato un abbassamento dei prezzi di mercato dei relativi prodotti, siano essi transgenici e non. Pertanto, anche gli agricoltori che in un primo momento non volevano coltivare transgenico sono stati costretti a farlo dal mercato, se volevano mantenere un certo grado di redditività dall’attività agricola (in assenza di prezzi diversi, agli agricoltori di questi Paesi non conviene certo produrre ai costi del convenzionale, più alti del transgenico, per poi vendere ai prezzi di mercato del transgenico, più bassi di quelli del convenzionale). Da rilevare che da un punto di vista sociale, la completa accettazione degli alimenti OGM (assenza di etichettatura) potrebbe portare ad un aumento del benessere del consumatore, in relazione alla diminuzione dei prezzi dei prodotti alimentari. Ma sarà vero benessere? O aumenterà l’angoscia per l’utilizzazione di un alimento del quale non si conoscono le reali caratteristiche nutrizionali e salutistiche? “Paradiso della Tecnica o angoscia del Paradiso della Tecnica?”

Da un punto di vista agricolo, il brevetto su una pianta potrebbe anche consentire ai Paesi che ne detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in località prossime ai mercati di collocamento, rendendo così competitive produzioni che attualmente sono penalizzate dagli elevati costi di commercializzazione, evitando nel contempo le problematiche ambientali che queste coltivazioni potrebbero comportare se fossero attuate sul loro territorio. Per alcune produzioni questo già avviene. Cos’è accaduto? Alcuni Paesi, vuoi perché non hanno condizioni pedoclimatiche favorevoli, vuoi perché non sarebbero concorrenziali sul nostro mercato a causa degli elevati costi di trasporto, stanno producendo sul nostro territorio su base contrattuale alcuni prodotti dei quali detengono il brevetto; tali prodotti, grazie a specifici “Contratti di coltivazione”, al momento della raccolta diverranno di loro proprietà. Ecco che in questo modo qualsiasi Paese, anche senza alcuna vocazionalità produttiva, e, al limite, senza disponibilità di territorio agricolo, di strutture e di competenze agricole specifiche, potrebbe divenire un protagonista nel mercato del cibo; la produzione di quel particolare alimento sarebbe attuata nel nostro Paese per conto terzi, ovvero per conto di colui che ha il brevetto del materiale di propagazione, che si approprierà del valore aggiunto di questa coltivazione.

In termini generali, quali strategie può attuare il detentore del brevetto sulle sementi transgeniche? Da un punto di vista della sfruttabilità economica, il detentore del brevetto potrebbe limitarsi a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, lasciando libertà di scelta all’agricoltore in merito alle diverse opportunità di vendita sul mercato del prodotto ottenuto da quella stessa semente. Tale somma di denaro potrebbe essere vista come il giusto compenso per colui che ha investito in ricerca e sviluppo ed è riuscito ad ottenere una pianta caratterizzata da un surplus di utilità per l’agricoltore e per il consumatore. Occorre comunque rilevare che, soprattutto nel caso in cui il mercato della semente  sia in condizioni di monopolio, a differenza di quanto precedentemente affermato, l’imposizione di una royalty sulla semente potrebbe limitare il processo di riduzione dei costi di produzione, in quanto il monopolista, con ogni probabilità, sarà portato ad aumentare il prezzo di vendita della semente di un’aliquota  prossima al maggior margine che essa sarà in grado di determinare al produttore agricolo, con annullamento dei potenziali vantaggi economici per il coltivatore e, conseguentemente, per il consumatore (in pratica, se la semente transgenica determina una diminuzione dei costi di 100 €/ha, il monopolista della semente potrebbe far pagare la semente 99 € in più ed accaparrarsi tutto il vantaggio). Pertanto, il brevetto potrebbe impedire l’attesa riduzione dei prezzi di mercato dei prodotti alimentari, annullando così anche l’auspicato ampliamento delle possibilità di acquisto di cibo da parte delle classi sociali economicamente più deboli (quelle classi sociali che in molti Paesi soffrono la fame perché non dispongono del reddito necessario per acquistare il cibo).
Rispetto alla situazione precedente, il detentore del brevetto potrebbe andare oltre. In particolare, oltre a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, potrebbe richiedere una royalty anche per ogni chilogrammo di prodotto ottenuto da quella stessa semente ed immesso sul mercato. Il brevetto in questo caso porterebbe grandi vantaggi a colui che ne detiene la proprietà  e trasformerebbe l’agricoltore in un “dipendente” della stessa ditta proprietaria del seme, in quanto più l’agricoltore produce e più questa ditta guadagna (da rilevare che queste forme contrattuali sono già adottate in agricoltura).
Rispetto alle situazioni descritte in precedenza, il detentore del brevetto potrebbe non accontentarsi  e potrebbe riservarsi anche la proprietà della produzione finale, attuando la produzione per conto proprio, sulla base di un rapporto contrattuale con l’agricoltore.  Trattasi di modalità di produzione che già avvengono in agricoltura e che sarebbero amplificate dalla presenza di un forte ricorso al brevetto. In particolare, colui che detiene il brevetto potrebbe non vendere la semente sul mercato e potrebbe sottoscrivere con l’agricoltore un “contratto di coltivazione”, nel quale saranno indicate le epoche di semina, le modalità di coltivazione e quant’altro serve per portare a termine il processo produttivo, riservandosi la proprietà del prodotto una volta giunto a maturazione. Ovviamente per l’attività prestata l’agricoltore riceverà un compenso, che sarà commisurato all’impegno richiesto in termini di apporto di fattori della produzione (terra, lavoro, capitale). In una situazione come quella evidenziata, l’agricoltore non avrebbe alcun potere contrattuale, per cui la presenza di un unico  “proprietario” della semente, associata al fatto che i coltivatori non sono in grado di manifestare un’unica controparte, li metterebbe tra loro in concorrenza per l’acquisizione della commessa di coltivazione.  E’ facilmente intuibile che in questa situazione si determinerebbe una tendenza verso il basso del compenso relativo allo svolgimento dell’attività agricola, in quanto, nel peggiore dei casi per la nostra agricoltura, colui che possiede il brevetto potrebbe trovare in altri Paesi migliori condizioni contrattuali per attuare il processo produttivo agricolo. Da rilevare, poi, che in questo modo la ditta proprietaria della semente brevettata otterrebbe anche il “monopolio di fatto” del cibo prodotto da quella stessa semente, con tutte le conseguenze del caso in termini di “potere di mercato” e di controllo dei prezzi di vendita del cibo.
Ma il grande salto di qualità per le ditte che detengono il brevetto della semente, potrà essere ottenuto allorquando la manipolazione genetica sulle piante consentirà di sfruttare l’”apomissia”, ovvero la possibilità di originare piante identiche alla madre anche nel caso di riproduzione sessuata di sementi ibride (l’apomissia consentirà di utilizzare come semente una parte del raccolto dell’annata precedente, senza incorrere negli inconvenienti determinati dalla presenza di seme ottenuto per autofecondazione). In particolare, lo sfruttamento dell’”apomissia” consentirà alle ditte sementiere  di  evitare la produzione e la successiva commercializzazione del seme, mantenendo comunque la possibilità di ricavare le royalty dal seme e dalla produzione di cibo; il “seme ibrido apomittico”, una volta distribuito, sarà annualmente prodotto autonomamente dall’azienda agricola, la quale, mediante un apposito contratto di sfruttamento della semente, sarà tenuta a pagare le royalty al detentore del brevetto, ogni qual volta utilizzerà le sementi apomittiche per una nuova semina. L’”apomissia” semplificherà notevolmente la vita al detentore del brevetto, che dovrà attuare un’unica operazione: distribuire una sola volta la semente apomittica e incassare le royalty ogni volta che il seme viene seminato ed il cibo viene prodotto. Qualcuno afferma che questo scenario è irrealizzabile, in quanto alle ditte sementiere non converrebbe mettere sul mercato una semente apomittica, poiché lieviterebbero le frodi e occorrerebbe mettere in atto un sistema di vigilanza decisamente costoso. Purtroppo queste affermazioni si scontrano con la realtà, in quanto le grandi multinazionali del seme stanno cercando di evitare questo inconveniente mediante la creazione di una “Apomissia inducibile chimicamente”. In pratica, che cosa accade? Accade che la semente apomittica germina ed origina una pianta identica alla madre solo in presenza di una sostanza chimica che sarà venduta, a parte, insieme alla semente e che dovrà essere distribuita nel campo coltivato, così come un qualsiasi trattamento chimico. Da rilevare che tutto questo non è fantascienza, in quanto il brevetto sull’”Apomissia inducibile chimicamente” è già stato richiesto (http://www.ptodirect.com/Results/Publications?query=IN/(Russinova-Eygeniya).

Gli esempi precedenti, costituiscono per la nostra Società un vantaggio o uno svantaggio? Si adattano a tutte le coltivazioni o solo a quelle brevettate? E le popolazioni svantaggiate otterranno dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre rispondere a queste domande prima di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi controproducenti per il benessere della nostra Società e per quello delle Future Generazioni. A questo proposito, interessanti sono le considerazioni del card. Turkson “Si promuovono le nuove tecnologie asserendo che aumenteranno il cibo a disposizione di ciascuno, ma questo è solo un pezzo della storia. In realtà, le innovazioni sono concepite e realizzate a beneficio di un numero circoscritto di persone già molto abbienti. Man mano che si procede, molti piccoli produttori saranno inevitabilmente esclusi e/o spostati dalle loro terre. Saranno “amputati” dalle loro occupazioni tradizionali e dal loro stile di vita. Lo sradicamento di singoli, famiglie e comunità non è soltanto una dolorosa separazione dalla terra, ma investe il loro intero ambiente esistenziale e spirituale, minacciando e talvolta sconvolgendo le poche certezze della loro vita. Non dovrebbe sorprenderci il fatto che alcune popolazioni rifiutino certe innovazioni, non perché siano cattive o percepite come tali, ma perché il modo in cui vengono diffuse comporta costi insostenibili per coloro che in teoria dovrebbero beneficiarne. Non sono loro che non capiscono; è chi si rifiuta di guardare il quadro dell’insicurezza alimentare nel suo complesso – le persone, la loro dignità e la loro vita, oltre alla produzione e alla distribuzione del cibo – a non cogliere il nocciolo della questione, ….”. 

A conclusione di quanto precedentemente esposto, è possibile affermare che il brevetto su piante ed animali transgenici sarà in grado di sconvolgere il modo di produrre in agricoltura. Lo scenario sarà quello di un settore in cui l’agricoltore avrà perso ogni potere decisionale; egli diverrà semplicemente un fornitore di mezzi di produzione a favore di colui che detiene il brevetto di quel prodotto, che diverrà anche proprietario del cibo. Cibo che potrà essere ottenuto in ogni parte del Globo, non importa con quale materiale genetico, non importa con quale tecnica di produzione, non importa con quali tutele sociali. Tutto questo comporterà la realizzazione di un grande mercato mondiale dei prodotti alimentari, un mercato dove l’imperativo sarà produrre di tutto ovunque, ai più bassi costi possibili, per poi vendere il prodotto laddove ci sono i mezzi economici per acquistarlo. In pratica, il brevetto sul cibo rischia di essere l’antitesi del “Cibo come Bene Comune” e potrebbe rappresentare una nuova forma di “colonialismo alimentare”.