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lunedì 1 ottobre 2012

Vite OGM: occorre iniziare a parlarne


                  In un momento in cui  i tre quarti dei consumatori hanno manifestato la loro contrarietà all’acquisto di alimenti transgenici, la possibilità di coltivare vite transgenica, e di ottenere vino da uve transgeniche, rappresenta un pericolo o una opportunità per il nostro Paese? E’ una domanda difficile a cui occorre dare una risposta, in quanto la vitivinicoltura, al di là della produzione di vino e della possibilità di determinare un reddito per il viticoltore, è troppo importante per la salvaguardia del territorio del nostro Paese.
Alcuni numeri per inquadrare il problema. Secondo i dati ISTAT, il trend produttivo degli ultimi dieci anni è in direzione di una scelta qualitativa della produzione, che è passata da una media di 72 milioni di ettolitri negli anni ’80, ai 59 milioni degli anni ’90. Relativamente alle caratteristiche della produzione, si conferma il sostanziale equilibrio degli ultimi anni tra vini bianchi e vini rossi, anche se a livello regionale le differenze sono piuttosto marcate (in Calabria il 93% della produzione è costituito da vini rossi). Nel 2003 la nostra esportazione vinicola sui mercati mondiali si è attestata intorno ai 10.617.543 ettolitri, per un valore di 2.202.657.000 di Euro, registrando rispetto all’analogo periodo del 2002 una flessione del 15,5% in quantità, ma solo dell’1,4% in valore. Nello stesso periodo il prezzo medio del prodotto esportato è aumentato del 16,3%, passando da 1,78 a 2,07 Euro al litro. Relativamente alle esportazioni verso gli Stati Uniti d’America, occorre rilevare che negli ultimi anni, per la prima volta, abbiamo superato la Francia, leader storico, anche in termini di valore: 822 milioni di dollari, che rappresentano il 32% del mercato Usa, contro il 28% detenuto dai cugini d’Oltralpe. Terzo incomodo l’Australia, che con i propri vini si ritaglia un consistente 22%. Nel 2001 e nel 2002 l’export dei vini in bottiglia ha superato per la prima volta quello dei vini sciolti, rispettivamente con 7.028.977 ettolitri (vini sciolti 6.126.415 ettolitri) e 7.216.680 ettolitri (vini sciolti 5.494.089 ettolitri). Le forniture di vini in bottiglia verso i Paesi dell’Unione Europea hanno registrato nel 2002 rispetto al 1999 un incremento del 6,3% in volume e del 13,4% in valore, mentre quelle verso  Paesi terzi hanno manifestato un incremento ancora maggiore: +32,4% in quantità e + 58,5% in valore. Diminuite, invece, le forniture di vini sciolti, che sono passate da 1.000.878 a 854.763 ettolitri. Come si può notare, sono sempre più evidenti i segnali di dinamismo di una politica di qualità, che, come per tutto il “Made in Italy”, sembra essere l’unica via praticabile per contrastare l’aggressività dei nuovi produttori, che offrono sul mercato vini a prezzi fortemente competitivi (Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Cile, Argentina e Sud Africa).
Relativamente alla problematica in oggetto, ovvero all’eventualità che anche nel nostro Paese sia “creata” e successivamente introdotta per la coltivazione una o più cultivar di vite transgenica, occorre verificare  se sarà una via percorribile per la nostra vitivinicoltura e se potrà rappresentare  un miglioramento qualitativo della nostra produzione o se, al contrario, sarà percepita dal consumatore come una omologazione della produzione verso standard che non sono ritenuti in sintonia con elementi di qualità.
A livello mondiale i genetisti che si occupano di “transgenesi” stanno trasformando viti per la produzione di uva da vino allo scopo di tentare di conferire loro la resistenza a determinati parassiti, tra i quali i più importanti sono rappresentati dai “virus”, dalla “flavescenza dorata”, dal “mal dell’esca” e dalla “fillossera”. Da un punto di vista del “miglioramento qualitativo”, l’unico risultato che sembra sia stato ottenuto è quello di isolare e di clonare il gene che consente di ottenere uve senza semi.
A livello mondiale occorre rilevare che la Francia, insieme alla Germania, è tra i Paesi che maggiormente hanno lavorato per la produzione di viti transgeniche. Negli ultimi anni, però, anche in relazione al fatto che i consumatori hanno manifestato un forte dissenso in merito al loro consumo,  si è avuta una netta inversione di tendenza, che ha portato all’abbandono dei progetti di trasformazione a suo tempo attivati e al divieto da parte dell’INAO (l’Istituto Nazionale delle denominazioni  di origine) di utilizzare uve transgeniche per la produzione di vino a denominazione di origine controllata.
Per quanto attiene ai progetti attuati, dei quali alcuni abbandonati ed altri ancora in atto, si rileva che:
-                           l’INRA (Istituto nazionale di ricerche agronomiche francese) ha intrapreso la produzione di varietà resistenti alle malattie fungine mediante l’utilizzazione di un gene (Run 1) derivante da Muscadinia rotundifolia, specie vegetale notevolmente distante dalla Vitis vinifera;
-                           a Tolosa l’Ensat, organismo che appartiene sempre all’INRA, ha in corso ricerche mediante trasformazione genetica al fine di conferire alla vita da vino la resistenza all’EUTIPIOSI (malattia fungina). In questo caso il gene (Vr-ERE) deriva da Vigna radiata. Per il momento sono state ottenute delle cellule che in vitro hanno manifestato tolleranza al fungo. Sembra che scopo di questa ricerca sia soprattutto quella di individuare un “gene pulito”, che consenta di eliminare il gene di resistenza agli antibiotici normalmente utilizzato nella verifica delle trasformazioni genetiche attuate con Agrobacterium e/o con metodo biolistico;
-                           l’INRA di Bordeaux ha attivato ricerche per conferire alla vite la resistenza ai fitoplasmi (flavescenza dorata). Per il momento il gene che potrebbe essere interessato è in corso di valutazione su piante di tabacco. Se fornirà i risultati attesi il gene sarà trasferito alla vite;
-                           la transgenesi in Francia è sperimentata anche per verificare l’efficacia di taluni geni per lo sviluppo fiorale della vite. Anche in questo caso i primi esperimenti hanno riguardato il tabacco; se saranno ottenuti risultati, essi potranno essere trasferiti alla vite.
In Germania il Centro Federale Sperimentale per il miglioramento genetico della vite effettua ricerche sulla trasformazione genetica della vite allo scopo di ottenere piante resistenti ai parassiti animali e vegetali, a fattori di stress (siccità, freddo, ecc.), ecc.
In Israele sono in atto numerose ricerche di trasformazione genetica della vite. In particolare, sono stati creati dei plasmidi con un elevato numero di transgeni che una volta introdotti nella vite dovrebbero renderla resistente all’oidio e alla botritis.
Come si è potuto notare, numerosi sono i campi di applicazione della transgenesi alla vite. Da rilevare, comunque, che la produzione di viti transgeniche per l'esecuzione di impianti produttivi è ancora lontana. Occorrerà poi verificare se le attese saranno confermate dai fatti, ovvero se effettivamente queste nuove piante risolveranno il problema degli attacchi parassitari, o quant’altro.
In particolare, relativamente alla vite transgenica resistente agli insetti, occorrerà fare i conti con la naturale selezione genetica di insetti resistenti alla tossina prodotta dalla pianta. Tale inconveniente è già stato riscontrato per il mais BT (resistente alla piralide), ed ha determinato un cambiamento nelle pratiche agronomiche normalmente adottate per la sua coltivazione. In particolare, consapevoli del fatto che gli insetti dopo alcune generazioni maturano una resistenza genetica alla tossina transgenica, è stato consigliato agli agricoltori di coltivare ogni 100 ettari di Mais BT una aliquota variabile dal 20% al 50% di Mais convenzionale (aree rifugio), al fine di evitare la pressione selettiva di individui resistenti.
Relativamente alla predisposizione di “aree rifugio” per la coltivazione della vite, occorre chiedersi se è un modello produttivo adatto alla nostra agricoltura, che, come è risaputo, è costituita da aziende di modestissime dimensioni (5-6 ettari), dove non è raro incontrare vigneti dell’ordine di poche migliaia di metri quadrati. Occorrerà poi considerare che un vigneto ha una durata produttiva di 30-40 anni, per cui, inevitabilmente, si potranno manifestare prima o poi delle resistenze genetiche da parte dell’insetto. A questo punto le alternative per il viticoltore potranno essere di due tipi:
-              riutilizzare i vecchi insetticidi in grado di controllare l’insetto che è divenuto resistente alla tossina insetticida prodotta autonomamente dalla vite transgenica;
-              sostituire (dopo quanti anni?) le vecchie viti transgeniche, non più resistenti alle nuove generazioni dell’insetto, con altre viti transgeniche appositamente selezionate per poter resistere alle nuove generazioni di insetto.
Ovviamente il problema precedente è amplificato nel caso della vite transgenica resistente ai patogeni vegetali, in quanto trattasi di organismi caratterizzati da una pressione selettiva superiore agli insetti e, quindi, in grado di originare resistenze genetiche in tempi minori.
Occorrerà poi verificare se le caratteristiche organolettiche dell’uva prodotta dalle viti transgeniche rimarranno identiche a quelle dell’uva ottenuta da vitigni convenzionali, in quanto è risaputo che l’introduzione di un gene estraneo in un organismo determina delle importanti modificazioni nel metabolismo di questo stesso organismo, per cui potrebbero modificarsi enormemente le caratteristiche dell’uva e, conseguentemente, le caratteristiche del vino prodotto. A questo proposito alcuni ricercatori hanno verificato che la granella di mais BT resistente alla piralide presenta un forte incremento del contenuto di lignina. 
         Ma al di là delle problematiche agronomiche e qualitative, occorrerà verificare se il nostro sistema Paese otterrà vantaggi dall’introduzione di “uva transgenica”. In particolare:
-         è impensabile che la nostra viticoltura possa competere sul mercato mondiale sulla base dei bassi costi di produzione. Essa potrà competere solo sulla base di produzioni di eccellenza, produzioni in grado di rispondere ad una pressante domanda di qualità, di sicurezza alimentare e di tracciabilità e che cosa debba intendersi per “qualità” lo decide il consumatore;
-         l’introduzione ed il consumo di “uva transgenica” aumenterà la dipendenza del nostro Paese nei confronti delle forniture provenienti dall’estero, in quanto l’auspicata contrazione dei prezzi causata dall’introduzione dell’uva transgenica  determinerà un ulteriore abbandono dell’attività viticola dalle aree marginali, che non saranno più in grado di competere sulla base dei bassi prezzi della globalizzazione dei mercati (è già accaduto per i vigneti ubicati nei terrazzamenti e su terreni in forte pendenza, che a causa della concorrenza dei vigneti di pianura sono stati abbandonati);
-         la vite transgenica, così come è stata progettata, favorirà la delocalizzazione produttiva nei Paesi caratterizzati da bassi costi di produzione, da scarse limitazioni di carattere ambientale e da limitate tutele sociali. Quando verrà meno il legame tra qualità del prodotto/qualità del territorio in cui è stato ottenuto, è impensabile che la produzione di questo stesso prodotto possa essere mantenuta nel nostro Paese;
-         se è vero che l’introduzione della vite transgenica determinerà un aumento delle importazioni, sarà altrettanto vero che si avrà una diminuzione del numero di occupati in agricoltura, con aggravamento dei problemi di presidio del territorio e di tutela dell’assetto idrogeologico;
-         l’abbandono dei territori marginali determinerà un aumento delle spese necessarie per le operazioni di manutenzione e conservazione del territorio;
-         la vite transgenica determinerà un danno di immagine per la vitivinicoltura nazionale, da sempre rinomata per le produzioni di eccellenza che immette sul mercato;
-         la vite transgenica potrebbe determinare una diminuzione di qualità dei nostri vini tipici. In particolare, al momento attuale non sono state fatte apposite analisi e sperimentazioni in grado di verificare la qualità dei vini ottenuti dalla trasformazione di uva  transgenica. Trattasi di un problema di carattere generale, che riguarda tutti i vini prodotti sul territorio nazionale e non solo di quelli che nel loro disciplinare di produzione non prevedono di utilizzare materiale transgenico. Supponiamo per un attimo che il vino ottenuto da uve transgeniche contenga il transgene (fatto ancora tutto da dimostrare, in quanto mancano specifiche sperimentazioni) e, pertanto, debba essere etichettato come tale (“vino OGM” o “vino ottenuto da uve OGM” o quant’altro), siamo sicuri che il consumatore continuerà ad acquistarlo?;
-         da rilevare, infine, che il brevetto di una pianta (una particolare cultivar di vite, che produce un’altrettanto particolare uva) potrebbe consentire ai Paesi che ne detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in località prossime ai mercati di collocamento, rendendo così competitive produzioni viticole che attualmente sono penalizzate dagli elevati costi di commercializzazione, evitando nel contempo le problematiche ambientali che queste coltivazioni potrebbero comportare se fossero attuate sul loro territorio. Trattasi di uno scenario molto pericoloso per il nostro Paese, in quanto l'introduzione di "nuove coltivazioni esotiche", succedanee delle nostre produzioni, è attualmente ostacolata dagli elevati costi di condizionamento e di trasporto. In definitiva, una volta ottenuto il brevetto di una determinata cultivar di vite, è molto più semplice e meno costoso attuarne direttamente la produzione su contratto in prossimità dei mercati di collocamento, evitando così tutte le problematiche ed i costi  relativi alla conservazione ed al trasporto.
In conclusione, e in un’ottica di globalizzazione dei mercati, anche nel caso della vite transgenica, così come per altri alimenti transgenici, oltre alle incertezze nutrizionali ed ambientali, si inseriscono considerazioni di opportunità per il nostro Paese, in merito all’utilizzazione o meno di produzioni che non sono gradite dal consumatore e che possono determinare una diminuzione della competitività delle nostre produzioni. Un consumatore che oggigiorno sarebbe meglio chiamare “acquistatore”, in quanto controlla e verifica accuratamente il prodotto prima di acquistarlo e che oggigiorno tende a scartare prodotti che contengono Organismi Transgenici.
Per quale motivo il nostro Paese dovrebbe aprire al vino transgenico se il consumatore non lo vuole? Non risponde ad alcuna logica economica la strategia di voler immettere sul mercato  un bene che secondo le ultime indagini il 70-80% degli acquirenti ha detto di non voler acquistare. Perché la nostra viticoltura dovrebbe abbandonare una strategia sicura, basata sulla qualità, sulla tracciabilità e sulla sicurezza alimentare, per far posto ad una produzione omologante, sempre meno richiesta dal mercato? Potrà competere il nostro Paese sul mercato globale sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita o, più realisticamente, potrà competere sulla base di produzioni di eccellenza, ad alto valore aggiunto?
Sono domande importanti a cui occorre dare una risposta prima di intraprendere una strada che potrebbe essere pericolosa per la sopravvivenza della nostra vitivinicoltura.