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domenica 29 dicembre 2013

NATURE cerca di rispondere a 3 domande cruciali sugli OGM

La prestigiosa rivista Nature si interroga su taluni controversi effetti degli OGM in ambito agro-alimentare, cercando di rispondere a 3 domande che gli ambienti meno favorevoli agli OGM da anni stanno facendo. Sembra che, finalmente, i nodi vengano al pettine. Di seguito le domande:

1.Gli OGM coltivati sono stati all’origine di varietà super-resistenti agli erbicidi, come alcuni dichiarano? La risposta di Nature è ………VERO!

2. Gli OGM coltivati hanno davvero causato un’ondata di suicidi nell’India rurale, come anche Vandana Shiva ha più volte pubblicamente dichiarato? La risposta di Nature è ………FALSO!

3. I geni delle piante OGM coltivate si sono diffusi nell’ambiente, in modo incontrollato, come paventato da altri? La risposta di Nature è ………ANCORA SCONOSCIUTO, DA VERIFICARE!


Risposta alla 1° domanda secondo Nature ……….. Gli OGM avrebbero davvero contribuito a creare varietà super-resistenti, a causa della monocoltura e dell’uso continuo e incontrollato di alcuni erbicidi totali. Come in tutti i fenomeni biologici di adattamento e selezione, l’utilizzazione continua di questi erbicidi ha determinato la selezione di erbe infestanti resistenti a quell’erbicida, che sono divenute anche più difficili da controllare. Per risolvere questo problema è necessario diversificare gli erbicidi (tornare ai vecchi erbicidi) e per diversificare gli erbicidi è necessario ritornare alle rotazioni (si torna indietro!).

Risposta alla 2° domanda di Nature……… La seconda domanda ha invece una risposta più sfumata. Il tasso di suicidi non sarebbe aumentato, mantenendosi ad un livello di circa 100 mila all’anno.  Nature evidenzia, però, che qualche problema di reddito per gli agricoltori potrebbe essere stato causato dal fatto che i semi costano cinque volte tanto quelli convenzionali.


Risposta alla 3° domanda di Nature ………. Circa la terza domanda, ancora non si ha una risposta chiara, anche se Nature afferma che esistano evidenze scientifiche che stia accadendo. In Messico, dove gli OGM non sono approvati per la coltivazione, nel 2000 alcuni agricoltori cercarono di farsi certificare una varietà locale di mais per la coltivazione biologica. Con grossa sorpresa, si accorsero che il proprio mais conteneva espressioni genetiche di mais OGM. Probabilmente, il mais OGM era stato piantato da alcuni coltivatori e una volta nell'ambiente, aveva causato la diffusione di geni di resistenza. Lo studio cadde sotto il fuoco della Monsanto, che spinse per sconfessarne la pubblicazione. Diversi studi successivi però non furono in grado di contenere le accuse e anzi, nel 2009 uno studio di Elena Alvarez-Buylla della Università Autonoma del Messico trovò conferme al fenomeno della diffusione genetica nell'ambiente dei transgeni inseriti nelle piante OGM di mais.

domenica 22 dicembre 2013

Non credo che con gli OGM riusciremo a far concorrenza all’Ucraina sul mercato internazionale dei prodotti agricoli

L’Ucraina ha dei terreni unici – cernozëm (terra nera) – che rappresentano gran parte della copertura del suolo, occupando 27,8 milioni di ettari (a confronto l’Italia, per i non addetti ai lavori, ha una Superficie Agraria Coltivata di 13 milioni di ettari). Terreni ad elevato contenuto di humus che, secondo gli scienziati, possono offrire la possibilità di sfamare circa 300 milioni di persone.

Nel 2012 l’Ucraina ha prodotto 46,1 milioni di tonnellate di cereali e di legumi da granella, 8,4 milioni di tonnellate di semi di girasole, 23,2 milioni di tonnellate di patate e circa 1 milione di tonnellate di ortaggi. Una delle coltivazioni più promettenti dei prossimi anni è la coltivazione del mais, che viene attivamente venduto sui mercati esteri. Se sarà mais OGM, il nostro Paese potrà competere sul mercato mondiale con la produzione di questo stesso mais OGM? Risposta decisamente negativa e cerchiamo di vedere perché.

Il terreno agricolo è di proprietà di contadini. Tuttavia, la maggior parte di loro non riesce a gestire i propri appezzamenti da solo e perciò li affitta. Il termine di locazione medio in Ucraina è di 6 anni, il pagamento medio per la locazione dei terreni è di 51 euro per ettaro all’anno (in Italia, sempre per i non addetti ai lavori, il canone di affitto di un ettaro di terreno agricolo a seminativo può andare dai 1.000 ai 1.500 euro per ettaro…….20-30 volte). Tanti contratti di locazione sono conclusi per un periodo di 10 anni o più. È possibile pagare annualmente “in natura”, con grano prodotto, e non con denaro. Sta crescendo in Ucraina il numero di aziende agricole di grandi e medie imprese che gestiscono migliaia di ettari di terreno. Prendono il posto di inefficienti piccoli proprietari. Ma al momento il paese ha centinaia di migliaia di ettari di terreno che  erano coltivati ​​durante l’Unione Sovietica, ma non sono oggi ancora utilizzati in agricoltura. 

In Ucraina l’allevamento di bestiame da latte e suini sono le direzioni più promettenti per lo sviluppo dell’agricoltura. Alla fine del secolo scorso, l’Ucraina ha perso l’iniziale vantaggio nell’allevamento di bestiame da latte che aveva ereditato dall’Unione Sovietica. Di conseguenza, la gran parte dei capi di bestiame si trovano su terreno privato dei contadini. Tuttavia, i lavoratori ed il governo sono interessati alla comparsa di nuove aziende, che potrebbero fornire in modo permanente latte di qualità. Di conseguenza, nonostante la crisi, negli ultimi anni si sono evidenziate in Ucraina le tendenze allo sviluppo dell’allevamento di bestiame di alta produzione e efficienza e più modernizzato.
In Ucraina vivono 45,5 milioni di persone, la maggior parte delle quali preferisce i prodotti realizzati nel proprio paese. L’Ucraina sta aumentando le prestazioni nella produzione ed esportazione di oli vegetali (soprattutto olio di girasole). La quota dell’Ucraina nell’esportazione mondiale di olio di girasole è del 51%, mentre la sua quota nella produzione è di circa il 25%. Vengono migliorati e modernizzati la lavorazione e lo stoccaggio di cereali e prodotti lattiero-caseari. Tuttavia, l’agricoltura dell’Ucraina non ha ancora raggiunti minimamente i parametri del suo potenziale. L’Ucraina ha un gran numero di personale qualificato per lavorare in agricoltura, preparato dagli istituti didattici profilati. Lo stipendio medio in agricoltura nel 2012 è di 193 euro al mese, nell’industria di lavorazione di 276 euro al mese.

Avete letto bene……..lo stipendio medio in agricoltura è di 193 euro al mese………e noi dovremmo far concorrenza con gli OGM a questi Paesi?

I dati sono stati presi da:

venerdì 20 dicembre 2013

Il Creso non è un OGM

Sinceramente non avrei mai pensato di dover scrivere un post del genere, ma purtroppo la disinformazione è dilagante, anche perché qualcuno cerca di far intendere che sono decenni che mangiamo OGM, al solo scopo di screditare quelli che non li vogliono, e porta come esempio il frumento duro “Creso”, che è stato ottenuto per “mutazione indotta”, ma non è un OGM, così come stabilito dalla Legge.

Con il termine Organismo Geneticamente Modificato (OGM) si intendono soltanto gli organismi in cui parte del genoma sia stato modificato tramite le moderne tecniche di ingegneria genetica. Non sono considerati "organismi geneticamente modificati" tutti quegli organismi il cui patrimonio genetico viene modificato a seguito di processi spontanei (modificazioni e trasferimenti di materiale genetico avvengono infatti in natura in molteplici occasioni e tali processi sono all'origine della diversità della vita sulla terra), o indotti dall'uomo tramite altre tecniche che non sono incluse nella definizione data dalla normativa di riferimento (ad esempio con radiazioni ionizzanti o mutageni chimici).
Secondo la Legge un OGM è un ………organismo il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale" (Art. 2, Direttiva 2001/18/CE del12/03/01).

Il Creso non rientra in questa fattispecie.

Il “Creso” è la specie di grano duro maggiormente diffusa ed è utilizzata per produrre il pane e la pasta che consumiamo quotidianamente. Il “Creso” nasce dall’incrocio della varietà messicana Cymmit e di quella italiana Cp B144, quest’ultima ottenuta con una modificazione genetica della varietà “Senatore Cappelli”, che, oggigiorno è  coltivata quasi esclusivamente nelle aziende agricole  biologiche. La varietà “Senatore Cappelli” è stata largamente utilizzata fino agli anni ’80 ed è stata ottenuta nel lontano 1915 per selezione genealogica a Foggia ed era la varietà di grano duro più coltivato nel meridione. La varietà “Senatore Cappelli” è molto alta (arriva quasi a 2 metri) ed ha il difetto di essere a forte rischio di allettamento (il fusto con la pioggia o il vento tende a piegarsi impedendo così le operazioni meccaniche di raccolta). Per questo motivo, al fine di ottenere una varietà a bassa taglia, il grano “Senatore Cappelli” fu bombardato con raggi X, per modificarne la struttura genetica ed ottenere un grano più produttivo e più basso.

Nel 1974, nel Centro di studi nucleari del CNEN della Casaccia (Roma), sulla base dell’incrocio tra Cymmit e  Cp B144, si giunse ad ottenere il Creso, che interessa oggigiorno il 90% della coltivazione italiana di frumento duro.

Ma il "Creso" non è un OGM!



Coltivare OGM nel nostro Paese significa sicuramente un’apertura all’importazione di alimenti da altri Paesi.

Il nostro Paese è un Paese industrializzato e l’agricoltura, come tale, senza l’indotto e senza i "servizi sociali", rappresenta più o meno il 2% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Un valore molto basso, che non consente certo al nostro Paese di produrre grandi quantità di derrate agricole da destinare all'esportazione. L'agricoltura nel nostro Paese consente comunque un buon grado di autoapprovvigionamento alimentare, tra l'altro con ottimi prodotti alimentari che ci sono invidiati e copiati in tutto il resto del mondo (agropirateria). 

In questa situazione il nostro Paese è un esportatore di prodotti industriali. In relazione al fatto che nel Commercio Internazionale vige ancora il baratto, che cosa riceviamo in cambio? E’ ovvio che se le esportazioni sono dirette verso altri Paesi industrializzati, la contropartita sarà rappresentata da altri prodotti industriali (la teoria economica del “Vantaggio Comparato” spiega senza ombra di dubbio questo fenomeno). Se, invece, il nostro partner commerciale è un Paese meno avanzato (PMA), con ogni probabilità la contropartita sarà rappresentata da prodotti dell’agricoltura, in quanto, spesso, è l’unica attività presente in questi Paesi. Tali prodotti alimentari di importazione sono simili ai nostri, ma sono caratterizzati spesso da un prezzo decisamente inferiore al nostro prezzo interno, un prezzo che molto spesso non è in grado di coprire il nostro costo di produzione. E' ovvio che l'importazione di questi prodotti metta in crisi la nostra produzione interna, che non è in grado di competere sulla base dei bassi prezzi.

La domanda che sorge spontanea è questa: “è giusto che sul mercato del nostro Paese arrivino come contropartita delle nostre esportazioni industriali dei prodotti alimentari a basso prezzo ottenuti in altri Paesi, che riescono a produrre con tecniche diverse dalle nostre? Tecniche produttive  meno costose delle nostre? Tecniche produttive che spesso da noi non sono consentite? Tecniche produttive che a volte non tutelano il lavoratore? Tecniche produttive che utilizzano fattori della produzione che da noi sono vietati? E si potrebbe continuare ancora.
In questo contesto in cui il nostro Paese esporta prodotti industriali e riceve in cambio prodotti agro-alimentari, gli OGM aumenteranno o diminuiranno la possibilità che il nostro Paese esporti prodotti industriali e importi, come contropartita, prodotti agro-alimentari? Gli OGM aumenteranno o diminuiranno il nostro grado di autoapprovvigionamento alimentare?

In un contesto in cui gli OGM promettono piante autoimmuni da qualsiasi malattia, piante che possono crescere su qualunque terreno, piante resistenti al caldo e al freddo, piante la cui crescita può essere facilmente controllata dai satelliti, piante resistenti all’umidità e alla siccità, ecc. sicuramente gli OGM rappresentano uno strumento per aumentare questa nostra dipendenza dalle importazioni da altri Paesi, in cambio, ovviamente, di prodotti industriali.  E' una dipendenza "casuale" oppure è una dipendenza voluta, al fine di incrementare la produzione industriale a scapito della produzione agricola?

In definitiva, adottare gli OGM, per il nostro Paese significa:

- mettersi in concorrenza con lo stesso prodotto proveniente dalla globalizzazione dei mercati, poiché se anche noi facciamo OGM, è con questi prodotti che dovremo concorrere anche sul mercato interno (concorrenza impossibile). Non coltivare OGM, significa prima di tutto creare un mercato agro-alimentare diverso, che ci mette parzialmente al riparo dalla concorrenza esercitata dai prodotti di importazione;

 aumentare le possibilità di esportare prodotti industriali, accettando come contropartita prodotti agro-alimentari, per lo più OGM;

- aumentare le possibilità di importazione di derrate agro-alimentari, in quanto i nostri costi di produzione sono decisamente superiori ai costi di produzione del mercato globale;

 pericolo di delocalizzazione delle produzioni, poiché prodotti considerati simili, o equivalenti, possono essere ottenuti in qualunque parte del pianeta, non importa con quale tecnica produttiva, non importa con quali tutele ambientali e/o del consumatore, l’importante è che costino poco;

-        dipendere sempre più dalle importazioni agro-alimentari provenienti da altri Paesi;

 mettere in discussione la nostra “Sovranità alimentare”, poiché la presenza sempre più massiccia di prodotti agricoli a basso prezzo provenienti dall’estero, determinerà l’abbandono dell’agricoltura attuata nei territori marginali, che già oggi non sono in grado di competere con i bassi prezzi delle aree maggiormente produttive del nostro Paese;

- la scomparsa dell'agricoltura dai territori marginali, determinerà poi l'aumento delle problematiche legate al presidio del territorio e al dissesto idrogeologico. 


Ancora una volta dobbiamo chiederci: sacrificare l’agricoltura a favore dell’industria è un bene o un male? E’ una domanda importante, che richiede una risposta altrettanto importante, poiché l’agricoltura nel nostro Paese svolge funzioni che vanno al di là della semplice produzione di alimenti sani e di buona qualità. La nostra agricoltura è importante per il paesaggio, per l’assetto del territorio, per la tutela della flora e della fauna, per le attività indotte, ecc. Il nostro Paese potrà rinunciare alle esternalità prodotte dall’agricoltura? Il nostro Paese potrà rinunciare alle nostre produzioni alimentari di qualità? Il nostro Paese potrà rinunciare all’agricoltura? 

Non credo proprio. 


lunedì 16 dicembre 2013

Agricoltori, non è vero che gli OGM vi faranno guadagnare di più!

I sostenitori degli OGM in ambito agricolo, affermano che con gli OGM i costi di produzione sono inferiori (affermazione vera, se si vuole essere obiettivi). Essi, però, non parlano di prezzi di vendita dei prodotti OGM, lasciando così sottintendere che se si abbassano i costi, a parità di prezzo (ma è questo dato che non è vero)  gli agricoltori guadagneranno di più.
Purtroppo, questo scenario non è vero!  Sarebbe vero se l'agricoltore decidesse autonomamente il prezzo di vendita del mais o della soia. Purtroppo questo non accade, in quanto il prezzo di vendita delle derrate agricole è quasi sempre stabilito dal mercato e sul mercato, quando si abbassano i costi di produzione, dopo pochi anni si abbassano, inevitabilmente, anche i prezzi.

C’è poi un problema di minor utilizzazione dei suoi fattori produttivi, poiché la semente transgenica sostituisce, lavoro e capitale e il relativo reddito viene assorbito dall’industria.

C'è poi il problema della delocalizzazione produttiva, poiché quando avremo piante “resistenti a tutto”, verrà meno il legame territorio/prodotto e queste piante saranno prodotte all'estero.

C’è poi il problema di competere sul mercato con gli stessi prodotti della globalizzazione, ben sapendo che la nostra agricoltura non può competere sui bassi prezzi, ma può competere solo sulla qualità.

Cè poi il problema dei vincoli che possono essere introdotti dal brevetto sulle piante e sugli animali, soprattutto nel caso di piante OGM apomittiche.

http://ogmbastabugie.blogspot.it/2012/09/ogm-e-agricoltore.html




domenica 15 dicembre 2013

Le importazioni di alimenti sono la contropartita per la vendita di macchinari e altri prodotti industriali, per cui stiamo sacrificando l’agricoltura a favore dell’industria

La notizia è sicuramente vera: il nostro Paese importa una notevole quantità di prodotti alimentari. La domanda che sorge subito spontanea è: perché? Perché non è in grado di produrli o ci possono essere altre motivazioni?
Che l’agricoltura nel nostro Paese sia in crisi è un fatto accertato. Secondo i dati dei diversi Censimenti dell’agricoltura, gli agricoltori in 10 anni sono passati da 2,5 milioni a 1,5 milioni.

http://www.istat.it/it/files/2012/12/PresentazioneGreco.pdf


 Questo, ovviamente, non vuol dire nulla in termini produttivi, poiché il terreno coltivato potrebbe essere rimasto lo stesso, con un minor numero di agricoltori e la produzione potrebbe essere rimasta costante. I terreni coltivabili sono sicuramente diminuiti a causa della loro utilizzazione per scopi non agricoli (aree edificabili, strade, aeroporti, ecc.). Ma tale evoluzione del numero di agricoltori è sintomatica di quello che sta accadendo in agricoltura, ovvero che il reddito per unità di superficie si sta abbassando, per cui molti agricoltori sono costretti ad abbandonare la loro piccola azienda agricola, che non è più in grado di fornire loro un reddito adeguato……perché? Molto semplicemente perché la dinamica dei prezzi dei prodotti agricoli non ha seguito la dinamica dei costi di produzione (ad un aumento dei costi di produzione agricoli, non ha fatto seguito un analogo aumento dei prezzi di vendita dei prodotti agricoli) e, pertanto, i redditi agricoli si sono enormemente abbassati.
A questo punto la domanda potrebbe essere: perché i prezzi agricoli nel nostro Paese non hanno seguito la dinamica dei costi di produzione? Cerchiamo di dare una delle tante risposte.
Una delle tante motivazioni, a mio parere tra le più importanti, che hanno determinato questa situazione è sicuramente dovuta alla forte concorrenza esercitata sul mercato interno dal prodotto di importazione, che determina un  "forzato" abbassamento dei nostri prezzi interni (prodotto nostrano e prodotto di importazione competono sullo stesso mercato e, pertanto, i prezzi tendono a coincidere). Prodotto di importazione che a volte proviene da Paesi che attuano forme di dumping diverse dal dumping sul prezzo, per cui è caratterizzato da un prezzo molto vantaggioso rispetto ai nostri prezzi interni. Prodotto di importazione che spesso, è “forzatamente importato” dall’Italia come contropartita di altre esportazioni italiane (soprattutto macchinari). A questo riguardo occorre ricordare che nel Commercio Internazionale vige ancora il baratto e, pertanto, le esportazioni di un determinato prodotto da un Paese, sono pagate con l'importazione di altri prodotti ottenuti in questo stesso Paese.  
In merito al primo punto (Dumping), è risaputo che spesso le nostre importazioni provengono da Paesi che non adottano il nostro sistema sociale/produttivo/economico. Per farla molto breve, si tratta di Paesi che non hanno le nostre regole produttive, che non hanno i nostri costi sociali, che non hanno i nostri costi burocratici, ecc. e che, pertanto, sono in grado di produrre a costi agricoli decisamente inferiori ai nostri. L’importazione di alimenti da questi Paesi a prezzi contenuti determina sicuramente una concorrenza per il prodotto nazionale ed i prezzi agricoli interni tendono ad una diminuzione.
Ma l’altro aspetto, sotto certi punti di vista sottovalutato, ma che sicuramente determina il maggior impatto sulle nostre “forzate importazioni di alimenti”, alimenti che vanno poi a competere con la produzione agricola interna, è il Commercio Internazionale. Da un punto di vista generale, occorre essere consapevoli del fatto che nel Commercio Internazionale le Bilance dei Pagamenti dei diversi Stati che vi partecipano, deve essere nel limite del possibile in pareggio (per un Paese si avrebbero problemi economici di svalutazione interna, di effetti sul tasso di cambio della moneta, ecc. sia nel caso di un forte sbilanciamento negativo, sia nel caso contrario di un forte sbilanciamento positivo). Ecco allora che l’Italia, che notoriamente produce alimenti di altissima qualità, ma che non è certo un Paese agricolo (meno del 2% del PIL), quando esporta macchinari, medicinali, autoveicoli, elettrodomestici, abbigliamento, ecc. è costretta ad accettare qualcos’altro come pagamento e questo qualcos’altro molto spesso è costituito da prodotti agricoli. Ecco allora che, in termini generali, potremmo affermare che, pur di sostenere le esportazioni di prodotti industriali e, conseguentemente la nostra industria, siamo disposti a sacrificare l’agricoltura. E’ un bene o è un male?
Tanto per rendercene conto, di seguito saranno riportati alcuni dati relativi ai flussi di import-export da alcuni Paesi. Trattasi solo di esempi, e come tali devono essere considerati, e vogliono esclusivamente evidenziare che a fronte di una esportazione di prodotti meccanico/tecnologici/moda, il nostro Paese accetta in pagamento prodotti agricolo/alimentari (i dati sono ufficiali e sono del Ministero dello Sviluppo Economico e si riferiscono all'anno 2012).

ESPORTAZIONI ITALIANE (1.019 milioni di euro), principali prodotti esportati
-          Macchine per impiego speciale (90 milioni di euro)
-          Macchine per impiego generale (35 milioni di euro)
-          Medicinali (32 milioni di euro)
-          Parti di Autoveicoli, motori, ecc. (27 milioni di euro)

IMPORTAZIONI ITALIANE (1.025 milioni di euro), principali prodotti importati
-          Oli e grassi vegetali e animali (84 milioni di euro)
-          Prodotti di colture agricole permanenti (35 milioni di euro)
-          Carne lavorata e conservata e prodotti a base di carne (22 milioni di euro)
-          Prodotti di colture agricole non permanenti (19 milioni di euro)
-          Pesce, crostacei e molluschi lavorati e conservati (18 milioni di euro)


ESPORTAZIONI ITALIANE (4.994 milioni di euro), principali prodotti esportati
-          Parti di Autoveicoli, motori, ecc. (408 milioni di euro)
-          Macchine per impiego generale (737 milioni di euro)
-          Macchine per impiego speciale (365 milioni di euro)
-          Altre macchine (203 milioni di euro)

IMPORTAZIONI ITALIANE (3.402 milioni di euro), principali prodotti importati
-          Prodotti di colture agricole permanenti (268 milioni di euro)
-          Pasta-carta, carta e cartone (259 milioni di euro)
-          Prodotti di colture agricole non permanenti (155 milioni di euro)
-          Carne lavorata e conservata e prodotti a base di carne (127 milioni di euro)


Altri esempi:
                                                                                                                    


Sacrificare l’agricoltura a favore dell’industria è un bene o un male? E’ una domanda importante, che richiede una risposta altrettanto importante, poiché l’agricoltura nel nostro Paese svolge funzioni che vanno al di là della semplice produzione di alimenti sani e di buona qualità. La nostra agricoltura è importante per il paesaggio, per l’assetto idro-geologico del territorio, per la tutela della flora e della fauna, per le attività indotte, ecc. Il nostro Paese potrà rinunciare alle esternalità prodotte dall’agricoltura? Il nostro Paese potrà rinunciare alle nostre produzioni alimentari di qualità? Il nostro Paese potrà rinunciare all’agricoltura? Non credo proprio. 

martedì 10 dicembre 2013

Aumento dei prezzi del cibo e fame nel mondo

Ciclicamente il problema dell’aumento del prezzo del cibo e della conseguente crisi alimentare si ripresenta nella sua gravità. L’insicurezza alimentare non è certamente una novità nel panorama dei problemi mondiali, e, purtroppo, la sua gravità non accenna a diminuire: secondo i dati diffusi dalla FAO, nel mondo sono circa 900 milioni le persone che soffrono la fame. E questo a dispetto dei numerosi e solenni impegni presi nelle più alte assise internazionali: nel 1996, i Paesi partecipanti al Vertice ONU sull’alimentazione si impegnarono a dimezzare entro il 2015 il numero degli affamati rispetto al 1991, riducendolo a 412 milioni. Nel 2000, invece, l’ONU approvò gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, fra cui quello di dimezzare la percentuale di chi soffre la fame, sempre entro il 2015 e in riferimento al 1991. Per raggiungere questo secondo obiettivo gli affamati nel mondo avrebbero dovuto ridursi a 585 milioni, mentre purtroppo dal 1996 essi sono in costante aumento.
Il cibo nel mondo non manca (secondo la FAO ci sarebbe cibo sufficiente per 12 miliardi di persone) e quella attuale è sicuramente una “crisi alimentare” dovuta alla mancanza di risorse economiche necessarie per poter acquistare il cibo, in relazione ad un rapido aumento dei prezzi degli alimenti e ad una stagnazione dei salari.
A questo punto, anche al fine di trovare le auspicabili soluzioni, è necessario interrogarsi sulle cause di tali aumenti del prezzo del cibo. È possibile affermare che l’attuale congiuntura è determinata da una serie di fattori, identificabili soprattutto:
- nella dinamica della domanda e dell’offerta di alimenti;
- nel  funzionamento dei mercati.
Per quanto attiene alla domanda di derrate agroalimentari occorre rilevare che la popolazione mondiale è in costante aumento e, secondo le previsioni più autorevoli, dovrebbe raggiungere gli 8 miliardi entro il 2020. Questo significa che solo per assicurare alla popolazione futura agli attuali livelli di alimentazione, sarà necessario aumentare del 40-50% la disponibilità di alimenti. Ma, a parte alcuni territori di Africa e America Latina, la possibilità di incrementare le superfici coltivate è piuttosto limitata, in quanto il suolo disponibile per nuove coltivazioni è troppo freddo, arido e/o in forte pendenza. Inoltre l’incremento della popolazione non si distribuisce uniformemente sul pianeta, ma spesso è concentrato proprio dove esistono già problemi di sottoalimentazione.
Anche la concentrazione della popolazione in agglomerati di grandi dimensioni è responsabile dell’incremento dei costi di produzione e di distribuzione degli alimenti e, in definitiva, del loro prezzo. I luoghi di produzione degli alimenti sono sempre più lontani da quelli di consumo. In questo contesto è cruciale o la redistribuzione della popolazione anche sul territorio rurale o lo sviluppo di quei servizi di mercato in grado di razionalizzare e di rendere efficiente la distribuzione degli alimenti (conservazione, imballaggio, trasporto, ecc.). Ovviamente questi servizi hanno un costo, che si ripercuote sul prezzo degli alimenti, a volte più elevato dello stesso costo dell’alimento.
Un altro fattore determinante della tensione sui prezzi delle derrate agroalimentari è l’innescarsi di processi di crescita economica in alcuni Paesi emergenti del Globo. L’incremento del reddito pro capite in taluni Paesi (ad esempio Cina e India) conduce ad una lievitazione della domanda di alimenti, che a sua volta, in presenza di una offerta mondiale sostanzialmente costante, determina la crescita dei prezzi. Ma questo diminuisce le possibilità di accesso al cibo di quei Paesi, o di quegli strati sociali, il cui reddito non è cresciuto e che così si ritrovano relativamente ancora più poveri. Si tratta di una vera e propria «guerra tra poveri», dove gli unici che guadagnano sono coloro che dispongono della proprietà legale del cibo, spesso con intenti speculativi.
Un fenomeno analogo deriva dalla ricchezza dei Paesi sviluppati, che permette loro di consumare — e spesso sprecare — troppi alimenti, aumentandone la domanda e quindi il prezzo. Occorrerebbe una maggiore sobrietà nel consumo di alimenti da parte dei Paesi ricchi, consapevoli del fatto che un incremento dei consumi da parte di taluni può determinare una carenza di alimenti per altri. Per esempio, nei Paesi sviluppati si consuma troppa carne: alcune stime indicano che se i Paesi Meno Avanzati (pma) raggiungessero i nostri livelli di consumo, sarebbero necessari 7 Pianeti per produrre i mangimi da destinare all’allevamento animale. Infatti, l’attività di ingrasso degli animali può essere rappresentata come la trasformazione di alcuni alimenti (i mangimi) in carne. Al contrario di quanto avveniva un tempo, oggi gli animali non mangiano più prodotti di scarto, ma competono con gli uomini, in quanto mangiano gli stessi prodotti (mais e soia, soprattutto). Ecco allora che l’incremento di prezzo delle derrate alimentari è dovuto a comportamenti di consumo elitari, che non tengono conto delle necessità alimentari di coloro che con noi condividono il pianeta e hanno diritto a una porzione adeguata delle sue risorse.
Nei tempi più recenti ha fatto la sua comparsa anche un altro potente protagonista nella competizione per l’allocazione dei prodotti agroalimentari: in seguito al boom del prezzo del petrolio, e di conseguenza delle altre risorse energetiche, assistiamo oggi all’utilizzo di risorse alimentari (soia, mais, girasole, ecc.) per la produzione di energia. In particolare, agli attuali prezzi del petrolio, le derrate agricole possono essere convenientemente utilizzate per la produzione di biodiesel, etanolo, singas (gas di sintesi), biomassa, ecc. Automobili che funzionano a biodiesel o a etanolo sono ormai una realtà, in particolare in Paesi come Stati Uniti e Brasile, così come centrali elettriche che funzionano a singas o a biomassa. Non v’è dubbio che si tratti di un competitore molto importante, in quanto l’economia mondiale è affamata di energia e tutti i mezzi risultano idonei pur di averne in quantità e a basso prezzo.
Significativi sono anche i fenomeni che influenzano l’andamento dell’offerta di derrate agroalimentari. Sicuramente i recenti incrementi del prezzo mondiale degli alimenti, sono dovuti anche all’aumento dei prezzi dei fattori della produzione, soprattutto quelli derivati in qualche modo dal petrolio (forza motrice, concimi, fitofarmaci, trasporti, conservazione, ecc.).
All’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli ha sicuramente contribuito anche la presenza di situazioni ambientali avverse. In particolare, appare ormai evidente che i cambiamenti climatici hanno determinato situazioni produttive anomale. Nel 2007 la produzione di cereali in alcuni dei principali Paesi produttori, come Australia o Ucraina, ha subito forti flessioni a causa della siccità. Il che, a fronte di una domanda sostanzialmente rigida, avrebbe favorito un incremento dei prezzi. Non sappiamo se si tratti di un fenomeno episodico o di carattere permanente. Di certo la comunità scientifica e i Governi dei diversi Paesi sono molto preoccupati dal fenomeno del «riscaldamento globale» e dalla crisi idrica che ne dovrebbe conseguire. Se così accadrà, sembrano inevitabili ulteriori aumenti dei prezzi degli alimenti.
Poco sopra abbiamo menzionato l’esistenza di una competizione per l’allocazione dei prodotti agroalimentari fra usi alternativi. Un fenomeno analogo si verifica anche per un fattore produttivo insostituibile per l’agricoltura, la terra coltivabile, che viene destinata a insediamenti di vario tipo (abitazioni, ferrovie, strade, centri commerciali, campi da golf, aeroporti, ecc.). Purtroppo, tale sottrazione avviene molto spesso a scapito dei terreni migliori, ai margini degli antichi insediamenti urbani, che, per le necessità alimentari della popolazione, furono costruiti proprio dove erano presenti i terreni migliori. Si tratta di un processo inarrestabile, in quanto i guadagni che si possono ottenere dall’uso agricolo dei suoli non sono in grado di competere con quelli generati dalle destinazioni alternative extra agricole.
Ad aggravare le prospettive di sicurezza alimentare di taluni Paesi Meno Avanzati contribuirebbe anche l’uso dei terreni per coltivazioni di pregio destinate ai mercati dei Paesi ricchi. Con la produzione/esportazione di derrate agricole destinate ai Paesi ricchi, i Paesi Meno Avanzati cercano di acquisire valuta pregiata con la quale poter poi acquistare altri beni sui mercati internazionali: non a caso si parla in questi casi di cash crop (piantagioni da «cassa»). Si tratta di un fenomeno antico, almeno per prodotti come caffè o cacao, che negli ultimi anni si è ulteriormente esteso: basti pensare, ad esempio, alla coltivazione di fiori per il mercato europeo in Kenya o alla trasformazione delle risaie in allevamenti di gamberetti da esportazione in India. È ovvio che queste produzioni sono in competizione con la coltivazione di cibo per la popolazione locale e conseguentemente contribuiscono all’incremento dei prezzi delle derrate agroalimentari.
Da ultimo esaminiamo una serie di fattori che incidono sull’aumento dei prezzi dei prodotti agroalimentari derivanti dalle modalità concrete con cui funzionano i relativi mercati.
La domanda di prodotti alimentari, in confronto a quella di altri prodotti di consumo, è sostanzialmente rigida, in quanto le necessità biologiche riducono la libertà dei consumatori di comprimerne i consumi, anche a fronte di un aumento dei prezzi. Questo fatto aumenta il potere di mercato dei produttori e le loro possibilità di guadagno, spingendo i grandi potentati economici a tentare di costruire monopoli del cibo, al fine di controllane i prezzi. Vari strumenti vengono utilizzati a questo scopo, tra cui: acquisto massiccio delle terre agricole disponibili; realizzazione di forme di integrazione verticale tra produttori e distributori; espansione dei mercati a termine; tutela brevettuale del materiale genetico necessario per produrre il cibo (semi geneticamente modificati, animali clonati geneticamente modificati, ecc.). Evidentemente condotte di questo genere non possono che sollevare profondi dubbi in termini etici, in considerazione degli effetti che ne possono conseguire. Inoltre, in anni recenti si è registrato un notevole sviluppo di prodotti finanziari derivati, legati all’andamento delle quotazioni dei prodotti agroalimentari, in analogia con quanto è andato accadendo nella gran parte dei mercati borsistici e delle materie prime. L’abbondante liquidità disponibile in alcune aree del mondo, unitamente ai bassi tassi di interesse e all’alto prezzo del petrolio, ha reso il mercato di tali derivati estremamente attraente per speculatori in cerca di opportunità di diversificare il rischio e ottenere maggiori profitti, fino al punto che l’andamento di tali mercati concorre a trascinare i prezzi dei prodotti su cui i derivati si basano. Anche in questo caso è indispensabile sottolineare che una speculazione con tali effetti perde ogni giustificazione sul piano etico: l’attività speculativa, infatti, può ritenersi legittima solo quando rappresenta un incentivo all’efficienza dei mercati ed è al servizio dell’uomo, non più quando diventa un elemento di perturbazione tale da mettere a repentaglio le condizioni di vita di milioni di persone.
Un forte contributo alla contrazione della produzione di cibo con conseguente incremento dei prezzi è dato dalla modificazione delle politiche agricole di alcuni Paesi produttori. In particolare, l’ue, con la c.d. «Riforma Mc Sharry» attuata a partire dai primi anni del 2000, è passata da una politica agricola basata sul sostegno dei prezzi a una basata sul sostegno del reddito dell’agricoltore. Nel primo caso venivano fissati prezzi minimi garantiti e, di conseguenza, i guadagni dei produttori crescevano al crescere delle quantità prodotte. Una politica di questo genere spingeva dunque all’aumento della produzione e delle rese per ettaro, con il ricorso massiccio a concimi, fitofarmaci e irrigazione, e con effetti sicuramente criticabili in termini di impatto ambientale.
La nuova politica agricola dell’UE ha profondamente modificato il modo di produrre in agricoltura, in quanto ricorre a strumenti come:
-         limitazione delle superfici a seminativo;
-         progressiva riduzione dei prezzi interni al livello di quelli che si formano sul mercato mondiale;
-         introduzione di forme di sostegno al reddito dell’agricoltore legate alle superfici coltivate e non tanto alle quantità prodotte (con la conseguenza che l’agricoltore ottiene il sussidio anche se produce poco);
-         obbligo per i grandi produttori di destinare al riposo (set aside) una porzione, variabile di anno in anno, della superficie per la quale fruiscono di sussidi;
-         erogazione di aiuti per l’adozione di tecniche produttive eco-compatibili (riduzione dell’uso di concimi e fitofarmaci, diminuzione delle rese, riduzione del patrimonio bovino e ovino) o conformi alle norme sull’«agricoltura biologica»;
-         erogazione di premi per l’imboschimento di terreni normalmente destinati a seminativo.
È indubbio che tali misure abbiano determinato una consistente spinta alla riduzione della produzione cerealicola europea, peraltro storicamente eccedentaria, con effetti di una certa entità sull’offerta e quindi sui prezzi delle derrate agroalimentari a livello globale.
Da più parti, anche a livello politico, le piante geneticamente modificate sono presentate come una possibile soluzione al problema della fame, in quanto consentirebbero di aumentare la produzione e di conseguenza ridurre i prezzi. La questione è affiorata anche in occasione del vertice FAO di inizio giugno, senza che si potesse giungere ad un accordo, anche per la notoria polemica in materia fra USA, molto favorevoli agli ogm, e UE, tenacemente contraria.
Anche trascurando le implicazioni del ricorso agli OGM in termini di tutela della biodiversità e il fatto che la posizione appena espressa ripropone l’idea che la fame derivi soprattutto dall’insufficiente produzione di alimenti — che abbiamo già visto essere falsa —, le esperienze di coltivazione di ogm in alcuni Paesi evidenziano che le promesse non sono state mantenute, mentre si sono manifestati numerosi effetti negativi, vanificando quegli effetti miracolosi che, secondo alcuni sostenitori, costituirebbero il presupposto per la loro introduzione.
In particolare, per quanto riguarda le piante resistenti ai diserbanti totali, è stato riscontrato che l’uso continuo dello stesso diserbante ha determinato la selezione di piante infestanti geneticamente resistenti al diserbante. Inoltre le piante infestanti sono aumentate, in quanto le piante parentali selvatiche hanno acquisito il transgene che conferisce resistenza al diserbante e le piante transgeniche coltivate in una annata agraria sono divenute infestanti di altre piante transgeniche coltivate in annate successive. Per risolvere questi problemi è stato necessario ritornare ai vecchi diserbanti abbinati ai disseccanti totali.
Anche le piante transgeniche resistenti agli insetti presentano degli inconvenienti, in quanto dopo alcune generazioni anche gli insetti maturano una resistenza genetica alla tossina transgenica. Per evitare la selezione di insetti resistenti, i produttori di sementi transgeniche, ad esempio nel caso del mais, hanno consigliato agli agricoltori di riservare una certa quota della superficie coltivata (aree rifugio) al mais convenzionale, rendendo necessaria l’adozione di una pluralità di tecniche di coltivazione e dunque aumentando la complessità e anche i costi per i produttori agricoli (che infatti non sempre hanno seguito tale consiglio).
Infine, alcuni studi indipendenti condotti da ricercatori di Università americane avrebbero verificato poi che non è sempre vero che le piante transgeniche producano di più. In particolare, indagini effettuate su migliaia di ettari coltivati hanno evidenziato che la soia transgenica produce dal 6% all’11% in meno di quella convenzionale, mentre nel caso del mais transgenico si avrebbe un aumento della produzione del 2,6%.
Come le pagine precedenti hanno provato a mostrare, il problema del contenimento del prezzo del cibo non è di facile soluzione, in quanto coinvolge scelte di carattere politico, economico, sociale e di rapporti internazionali tra i diversi Paesi del globo. Affinché la situazione si normalizzi e si determinino condizioni nutrizionali stabili e sufficienti per tutti, sono necessari comportamenti cooperativi da parte degli organismi che compongono la lunga e complessa filiera di produzione del cibo. Questo comporta, necessariamente, che almeno alcuni comincino a mettere da parte forti interessi particolari per lasciare spazio alla ricerca di un bene comune globale.

Sarà necessario, inoltre, da parte di tutti — e in particolare degli abitanti dei Paesi ricchi — un atteggiamento più sobrio nei confronti del cibo, al fine di maturare una nuova consapevolezza verso un bene del quale nessuno può fare a meno.

lunedì 9 dicembre 2013

Meno male che ha vinto Matteo Renzi

Tutti quelli che ritengono che l’agricoltura del nostro Paese non possa competere con gli OGM sul mercato mondiale, ma possa, invece, competere solo sulla base della qualità, saranno contenti della vittoria di Renzi alle primarie del PD.
Perché devono essere contenti? Perché Renzi, non è sicuramente a favore di quella parte del PD (che si mette contro l’80% dei consumatori che non vogliono OGM), che è favorevole all’introduzione degli OGM nella nostra agricoltura. In particolare, durante le primarie del 2012, Renzi, alla domanda formulata da un gruppo di giornalisti, blogger, ricercatori e cittadini………….. Quali politiche intende adottare per la sperimentazione pubblica in pieno campo di OGM e per l’etichettatura anche di latte, carni e formaggi derivati da animali nutriti con mangimi OGM? ha dato la seguente risposta…………..
“Se è vero che molti dei prodotti agricoli che finiscono nelle nostre tavole sono varietà figlie di incroci e selezioni avvenute nei secoli, e che la ricerca in campo agroalimentare è comunque un fattore positivo e una strada da perseguire, altra cosa è aprire l'Italia a produzioni transgeniche che non hanno nulla a che fare con la qualità e la forza economica dei nostri prodotti agricoli. Il futuro dell'agricoltura italiana non credo possa essere legato agli Ogm. 

I nostri agricoltori sono da guinnes, con i 239 prodotti tipici italiani, il più alto numero europeo di produzioni di qualità e prodotti riconosciuti tra Dop, Igt e Stg, un fatturato al consumo di quasi 10 miliardi di euro e oltre un milione di ettari oggi condotti con metodo biologico. Un settore che è cresciuto e sta crescendo soprattutto con i giovani agricoltori nel segno della qualità e del presidio ambientale e garantisce parte dell'attrattività del Made in Italy nel mondo. Va scelta quindi la via dell'eccellenza, della salvaguardia delle nostre eccellenze agroalimentari e della sicurezza alimentare. Credo che occorra studiare bene tutti gli effetti dell'utilizzo in agricoltura di organismi geneticamente modificati e dell'impiego nell'allevamento animale di mangimi Ogm e gli effetti sulla salute pubblica.

Se è giusto, insomma, che la ricerca esplori più campi rispetto a quelli messi in pratica, si tratta di evitare quello che tutte le nostre associazioni agricole temono e cioè il Far West italiano, che qualcuno possa seminare campi di mais Ogm in grado di contaminare i territori circostanti con i pollini Ogm. Il nostro Paese finora ha avuto un comportamento esemplare su tutta la partita Ogm, mettendo sempre al centro il principio di precauzione e la necessità di non mettere a repentaglio l'immagine e la sostanza del nostro made in Italy. Infine, piena trasparenza per cittadini consumatori è la nostra scelta di fondo per etichettatura e corretta informazione rispetto a ciò che viene messo in vendita.”
A mio parere una risposta ottima, sotto tutti i punti di vista, poiché ha parlato di prodotti tipici, ha parlato dei giovani in agricoltura, ha parlato di biologico……………niente da dire.

Non ha risposto, o ha risposto solo in parte, sulla questione relativa all’etichettatura dei derivati da OGM……….una problematica seria, poiché da un lato occorre tutelare il consumatore, dall’altro occorre tutelare gli allevatori, che, purtroppo, al momento utilizzano nella gran parte dei casi anche mangimi OGM……peccato. Occorrerà far capire a Renzi che la mancata etichettatura dei derivati da OGM (carne, latte, uova, ecc.) ottenuti con “mangimi OGM”, porterà prima o poi ad una protesta da parte dei nostri allevatori che utilizzano “mangimi non OGM”, che sono costretti a produrre ai costi del convenzionale in un mercato in cui il prezzo, più basso, è fatto dai derivati ottenuti da “mangimi OGM”.

domenica 8 dicembre 2013

Mais OGM in Italia. A quante polente dovremo rinunciare?

Da sempre la polenta fa parte dell’alimentazione e della gastronomia di gran parte della popolazione italiana. In tutte le Regioni esistono coltivazioni particolari di mais destinate all'ottenimento di granella idonea alla produzione di farina per polenta. Così, per esempio, in Piemonte troviamo il “Mais 8 file di Antignano”, in Lombardia troviamo il “Mais 8 file di Storo”, in Veneto il “Mais Marano”, nelle Marche troviamo il “Mais 8 file di Pollenza”, ecc.  Nel nostro Paese molti ristoranti vivono, e ricavano reddito,  grazie alla polenta, che rappresenta la base per la produzione di numerosi piatti tipici.

http://www.agricoltura.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Agricoltura%2FDetail&cid=1213305708001&packedargs=NoSlotForSitePlan%3Dtrue%26menu-to-render%3D1213287460804&pagename=DG_AGRWrapper

Purtroppo, tutto questo “Ben di Dio” rischia di scomparire se nel nostro Paese sarà  introdotta la coltivazione di mais OGM ….….o, quantomeno, se sarà introdotta la coltivazione di questo mais OGM, che ha il transgene inserito nel genoma nucleare, che ha promotori costitutivi e che ha marcatori antibiotici) . In particolare, abbiamo già spiegato in un altro post che con la coesistenza, in presenza di incertezza produttiva e in assenza di etichettatura dei derivati (carne, latte, uova, ecc.), il mais OGM coltivato per scopi mangimistici è destinato a soppiantare interamente o quasi la coltivazione di mais convenzionale, destinato anch’esso a scopi mangimistici (il mais OGM ha un costo di produzione leggermente inferiore e i derivati da mangimi "non OGM" hanno lo stesso prezzo di vendita di quelli derivati dall’utilizzazione di mangimi OGM, per cui l’allevatore, che non è certo un benefattore, utilizzerà se possibile solo mangimi OGM).
Ma il problema della coesistenza, purtroppo, non riguarda solo il mais destinato alla produzione di mangimi, ma riguarda anche il mais di origine locale e destinato alla produzione di farina per polenta.   In particolare, in una situazione di inquinamento genetico diffuso, in relazione alla forte presenza di mais OGM per la produzione di mangimi (95% del totale),  anche le coltivazioni di “mais 8 file” destinate per la gran parte alla produzione di farina per polenta…..e che polenta! dovranno subire la presenza e l’inquinamento da polline OGM. Da questo punto di vista illuminante è la situazione che si è venuta a determinare in Messico, luogo di origine del mais, dove coltivazioni locali di mais sono state inquinate dal mais OGM.

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3001031/

Lo scenario, ipotizzabile e fortemente realistico, che si verrà a determinare è molto semplice:

- la coesistenza con il mais OGM determinerà incertezza produttiva per i coltivatori di “mais 8 file”, che non saranno in grado di prevedere il livello di inquinamento che avrà il loro mais una volta raccolto. Se avrà un livello di OGM inferiore allo 0,9% non succederà niente, ma se avrà un livello superiore allo 0,9%, il loro mais dovrà essere etichettato e dovrà essere venduto come “mais OGM”, con la certezza di non venderne nemmeno un chicco. Questo mais, con ogni probabilità, sarà avviato verso la filiera mangimistica, con grave danno economico per i maiscoltori, in quanto il costo di produzione di questo "mais 8 file" è decisamente superiore al costo di produzione del mais per alimentazione animale;

- l’agricoltore convenzionale del mais 8 file in annate successive non potrà continuare a coltivare ai costi del convenzionale o del biologico destinato all'alimentazione umana per poi vendere ai prezzi del mais transgenico destinato all'alimentazione animale;

- dopo pochi anni, se la soglia di inquinamento genetico da OGM continuerà ad essere superiore allo 0,9%, gli agricoltori del mais convenzionale/biologico smetteranno di coltivare il “mais 8 file”, poichè se etichettato come OGM continueranno a non venderne un chicco e, pertanto, saranno costretti a subire forti perdite economiche;

- in questa situazione di incertezza produttiva, causata dalla presenza del “mais OGM”, si avrà una forte riduzione, se non addirittura la scomparsa, delle produzioni tipiche regionali di “mais 8 file”, poichè non più economicamente valide;

- con la scomparsa della coltivazione di “mais 8 file”, anche i piccoli ristoranti tipici avranno conseguenze negative, così come il turismo enogastronomico legato al consumo di questo preziosissimo alimento;

- nella suddetta situazione anche i piccoli mulini locali, che vivono grazie alla produzione di farina di “mais 8 file”, dovranno chiudere e diminuirà, così, anche il grado di autoapprovvigionamento alimentare locale di un territorio!


Scenario alternativo al precedente potrebbe essere la delocalizzazione produttiva del "mais 8 file" in aree marginali, ovvero in aree dove è antieconomica la produzione di "mais OGM". Se così fosse, la produzione di "mais 8 file" sarebbe comunque garantita, ma si avrebbe un forte aumento dei costi di produzione e, conseguentemente, del prezzo della farina per polenta derivante da “mais 8 file”………ma chi paga?........sempre noi?

venerdì 29 novembre 2013

Coesistenza “mais OGM” e “mais convenzionale”, a cosa dovremo rinunciare?

I sostenitori del “mais OGM” affermano che la coesistenza con altre produzioni di mais sarebbe possibile, in quanto il mais non ha parentali selvatiche nel nostro Paese, per cui sarebbe sufficiente controllare con idonee distanze di sicurezza la diffusione del polline dai campi coltivati con piante OGM agli altri campi limitrofi “non OGM”…………..è ancora aperta la discussione su chi dovrà sostenere i maggiori oneri di queste “fasce tampone”. Ovviamente i fautori del “mais OGM” dicono che questi maggiori oneri li dovranno sostenere coloro che vogliono produrre “mais OGM free o biologico”, al contrario i coltivatori di mais convenzionale affermano che questi maggiori oneri li dovranno sostenere coloro che vogliono coltivare “mais OGM”. E’ questa la “vexata quaestio”, in quanto i sostenitori del “mais OGM” sanno benissimo che nel caso in cui fossero loro a dover sostenere gli oneri della coesistenza, non ci sarebbe alcun vantaggio economico. Vantaggio economico che si annulla completamente nei Paesi dove è prevista la separazione di filiera tra “mais OGM” e “mais convenzionale”, poiché i costi di coesistenza (aree tampone nei campi coltivati, pulizia delle macchine per la semina e la raccolta, conservazione in specifici silos, analisi genetiche di certificazione, specifica etichettatura degli alimenti, ecc.), anche ad un primo sommario giudizio, sono sicuramente superiori al vantaggio economico ottenibile dalla coltivazione in campo. Che sia chiaro, fino a quando il consumatore richiederà l’etichettatura degli alimenti OGM, ad esclusione delle ditte che vendono il seme, non ci sarà alcun vantaggio economico per nessuno.
Anche nel caso di coesistenza, noi consumatori, in relazione al fatto che sarà impossibile avere la certezza di produrre “mais OGM free”, dovremo comunque rinunciare a qualcosa. In particolare, pur nella consapevolezza che il 90% del mais prodotto in Italia è destinato all’alimentazione animale e ai digestori per produrre energia elettrica (Zea mays sub-sp. indentata), dovremo comunque rinunciare ad avere la certezza che gli alimenti derivanti da altre tipologie di mais (per uso alimentare umano) siano effettivamente “OGM free”, poiché l’inquinamento genetico prodotto dal “mais OGM” è solo in parte controllabile.  
In Italia le superfici investite a mais sono dell’ordine di 1 milione di ettari (per averne un’idea, 1/30 della superficie nazionale), che originano una produzione di circa 10 milioni di tonnellate, destinate, come si è detto, per oltre il 90% all’alimentazione animale e ai digestori per biogas. Rimangono 1 milione di tonnellate (1miliardo di kg) destinati alle utilizzazioni più disparate, compresa l’alimentazione umana. Dalla lavorazione della granella di mais si ricavano:
Prodotti alimentari: olio, farine per pane, polenta, zucchero, biscotti, ecc.;
Bevande alcooliche come birra e liquori;
Prodotti farmaceutici come acetone, aldeide acetica, acido citrico, acido lattico, acido fumarico, ecc.;
Prodotti dell’industria cartaria, tessile, ceramica e di quella delle vernici e degli esplosivi.
Per quanto attiene ai prodotti alimentari, si tratta soprattutto di mais particolari, che spesso sono rappresentati da prodotti tipici di un territorio (mais otto file, mais bianco, ecc.). Così, per esempio abbiamo le seguenti sottospecie di mais destinate per la gran parte all’alimentazione umana diretta:
- Zea mays sub-sp. everta: mais da far scoppiare (pop-corn).Raggruppa tipi primitivi, con piante prolifiche e accestite, portanti spighe piccole e numerose. Le cariossidi sono molto piccole (1.000 pesano 100 grammi e meno), hanno endo­sperma completamente vitreo, traslucido, molto proteico e se riscaldate «scoppiano» aumentando assai di volume e formando una massa bianca e porosa (pop-corn).
- Zea mays sub-sp. indurata: mais vitreo o plata («flint corn»). Ha cariossidi tondeggianti, con endosperma farinoso all'interno e corneo tutt'intorno. Moltissimi mais europei di antica introduzione appartengono a questo tipo. Questo mais è preferito nell'alimentazione umana e in avicoltura («Plata»).
- Zea mays sub-sp. amylacea: mais amilosico («soft corn»). Deriva da mutazioni che inducono modificazioni nella costituzione dell'amido (prevalenza di amilosio rispetto all'amilopectina) ed è destinato a specifiche preparazioni alimentari.
- Zea mays sub-sp. saccharata: mais zuccherino («sweet corn»). L'endosperma contiene poco amido e molti carboidrati solubili. Le spighe raccolte alla maturazione latteo-cerosa, costituiscono un ortaggio apprezzato da consumare fresco in insalata o inscatolato.
Come si è potuto notare, sono tante le sottospecie di mais…….…..mais non è solo quello destinato all’alimentazione animale, esistono sottospecie di mais destinate all’alimentazione umana diretta e non solo mediata dagli animali.
Le domande che ci possiamo porre sono le seguenti:
-         è giusto che con l’introduzione di “mais OGM” non sia più possibile avere a disposizione per l’alimentazione umana mais delle precedenti sottospecie sicuramente esente da OGM?”

-         è giusto che la presenza di “mais OGM” metta in difficoltà i coltivatori e gli utilizzatori di mais tradizionale?


-         è giusto che le incertezze produttive determinate dalla presenza del “mais OGM” possa determinare nel lungo periodo la scomparsa delle produzioni tipiche di mais tradizionale di un territorio?

sabato 23 novembre 2013

In Friuli Venezia Giulia una petizione a favore del mais OGM

Una petizione pro mais OGM sottoscritta da 400 imprenditori agricoli e' stata recentemente consegnata  al Presidente del Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia. In relazione alla definizione delle “Regole di coesistenza”, i firmatari hanno fatto presente che nelle campagne del Friuli Venezia Giulia è prassi consolidata la coltivazione simultanea di mais bianco e di mais giallo, che ha consentito la pacifica coesistenza fra imprenditori che perseguono i loro diversi obiettivi economici, senza che si sia mai creato alcun contenzioso giudiziario. Proprio in considerazione di questa secolare pratica, i firmatari sottintendono che non è necessaria alcuna regola di coesistenza tra mais convenzionale, mais OGM e mais Biologico, poiché ci penserà il mercato ad appianare ogni divergenza.
Si tratta a mio parere della solita “mezza verità” raccontata da chi, senza argomentazioni specifiche e senza alcun timore per le conseguenze che la scelta transgenica può avere sull’economia agro-industriale di un territorio, vuole adottare una tecnologia fortemente pervasiva, che non offre possibilità di coesistenza, poiché se è vero che con il mais OGM la coesistenza tecnica potrebbe anche essere possibile, in quanto il mais nel nostro Paese non ha parentali selvatiche, è altrettanto vero che non sarebbe possibile una coesistenza economica, in quanto il mais OGM modificherebbe quell’equilibrio economico che caratterizza attualmente il settore. In particolare, non essendoci etichettatura dei derivati (carne, latte, uova, ecc.) da mangimi OGM, dopo pochi anni, anche i coltivatori che volevano mantenersi “OGM free” saranno costretti dal mercato a coltivare OGM, poiché altrimenti coltiverebbero ai costi del convenzionale (più alti del transgenico), per poi vendere ai prezzi del transgenico.


Occorre poi far rilevare che il paragone “mais giallo/mais bianco” portato ad esempio di pacifica coesistenza dai promotori degli OGM in Friuli Venezia Giulia, non regge. In particolare, per i non addetti ai lavori, il “mais giallo” è quello destinato all’alimentazione animale (la quasi totalità delle coltivazioni), mentre il “mais bianco” è destinato all'alimentazione umana diretta per la produzione di particolari polente (anche in questo caso la quasi totalità). Perchè il paragone non regge? Non regge per il semplice fatto che per la gran parte della produzione di "mais bianco" non esistono soglie di tolleranza per il prodotto fecondato da polline di "mais giallo convenzionale". Pertanto il prodotto ottenuto può essere venduto senza specifica etichettatura, così come previsto per gli OGM. Diverso è il discorso relativo alla possibilità che il mais bianco destinato all'alimentazione umana sia fecondato da polline di mais OGM. In questo caso, se la percentuale di produzione finale supera lo 0,9%, il mais bianco dovrà essere etichettato come "alimento OGM" e saremmo quasi sicuri che non avrà mercato e che non ne sarà venduto un chicco!
Se si vuole avere un'idea di quello che già accade sul mercato del mais nel caso di "inquinamento genetico", è possibile portare ad esempio la coltivazione del "mais waxy". In particolare, il “mais waxy”, è caratterizzato da un’altissima percentuale di amilopectina (99%) ed una bassa quantità di amilosio (1%, rispetto al 25% del “mais giallo”), per cui è destinato a specifici usi industriali e per questa ragione gli ibridi di "mais waxy" vengono coltivati solo su contratto di coltivazione con l’industria di trasformazione. Tale contratto di coltivazione, nella fissazione del prezzo tiene conto del fatto che una parte della produzione sarà inquinata dal polline del “mais giallo convenzionale” e dovrà essere eliminata (di solito sono le 8-10 file perimetrali del campo coltivato) e destinata al mercato del “mais giallo”. Pertanto, anche il prezzo fissato nel contratto di coltivazione tiene conto di questa eventualità, con un “premio di coltivazione” che è dell’ordine di 10-20 euro/Tonnellata…….più o meno 150-300 euro/ettaro, che oggigiorno sono “gran soldi” in agricoltura (1).
In conclusione, la coesistenza tra "mais convenzionale" e "mais OGM" potrebbe anche essere possibile, ma è necessario che il mercato possa essere in grado di valorizzare la differenza esistente tra i due prodotti. Purtroppo, la possibilità di utilizzare nell'allevamento mangimi OGM, senza specifica etichettatura dei derivati ottenuti (carne, latte, uova, ecc.), impedisce al consumatore una scelta consapevole, per cui sarà impossibile dare un valore diverso ai mangimi OGM e a quelli convenzionali.   



(1) Occorre, però, considerare che rispetto al “mais giallo” il costo di coltivazione del “mais waxy” è leggermente maggiore………altrimenti tutti coltiverebbero “mais waxy”. 

martedì 19 novembre 2013

Il prezzo di mercato della “soia OGM” è inferiore al prezzo della “soia OGM free”


Tra gli elementi che devono essere considerati per valutare la convenienza ad introdurre una determinata coltivazione, oltre al costo dei mezzi tecnici e delle operazioni colturali, di estrema importanza è anche il prezzo di vendita sul mercato.
Per quanto riguarda la soia, l’unico prodotto per il quale al momento il mercato consente di operare un giusto confronto, il prezzo di mercato della “soia OGM free” è sicuramente superiore a quello della “soia OGM”.
Per operare questo confronto è sufficiente osservare il Bollettino della Borsa Merci di Bologna, l’unica Borsa Merci che riporta dati tra loro confrontabili, stessa materia prima “OGM” e “non OGM”.


E’ interessante notare il diverso prezzo, sempre superiore, dei trasformati di soia non derivanti da OGM, rispetto a quelli OGM. In particolare:
- Soia tostata integrale Estera non derivante OGM…………...…….497/498 €/T
- Soia tostata integrale Estera………………………….…………….474/475 €/T

Una differenza di 24/25 €/T, pari al 5% circa.

- Soia tostata Decorticata estera non derivante OGM………….……540/542 €/T
- Soia tostata Decorticata estera……………………….……….…….478/480 €/T

Una differenza di 60/62 €/T, pari all’11% circa.

Qualcuno, osservando Bollettini Merci che riportano prezzi di soia nazionale (non OGM) più bassi della soia estera (probabilmente OGM), afferma, erroneamente, che non è vero che la “soia OGM free” ha un prezzo superiore alla “soia OGM”, anzi è vero il contrario. Trattasi di un confronto errato, che non è fattibile, in quanto si tratta di due prodotti completamente diversi, caratterizzati da un contenuto proteico diverso. In particolare, la soia nazionale costa meno della soia di importazione perchè ha un contenuto proteico intorno al 43% e non perchè non è OGM, mentre la soia estera costa di più di quella nazionale perchè ha un contenuto proteico intorno al 49% e non perchè è OGM.

venerdì 15 novembre 2013

Coesistenza tra piante OGM e piante “non OGM”: a chi spettano i costi di coesistenza?

Il problema è sicuramente attuale…….nel caso di coesistenza tra “piante non OGM”, siano esse convenzionali o biologiche, e “piante OGM”, e soprattutto nel caso in cui uno Stato preveda l'etichettatura degli alimenti derivati, ci sarà sicuramente un generalizzato aumento dei costi di coltivazione per le diverse tipologie produttive (non OGM, OGM e biologico), in relazione alle aree di rispetto, alla pulizia delle attrezzature di lavorazione e di raccolta, ai costi di segregazione, ecc.
Una domanda sorge spontanea: a chi spettano i maggiori costi di coesistenza? Agli agricoltori "non OGM” o agli agricoltori che vogliono introdurre gli OGM sul territorio nazionale? La risposta non è semplice, poiché ognuno di essi dirà che dovranno essere gli altri a sostenere i costi di coesistenza.
  Al fine di rispondere a questa domanda è necessario focalizzare l’attenzione sulle caratteristiche di ogni diversa forma di agricoltura e sui conseguenti danni che ne possono derivare nel caso di coesistenza.
Per l’agricoltore convenzionale la presenza di polline transgenico che può inquinare la sua produzione non OGM deve essere evitata, ma non costituisce un grande problema, poiché non ha una dotazione particolare di macchine da ammortizzare. L’importante è che questa soglia di inquinamento non superi la soglia dello 0,9%, così come previsto dalla Legge sull’etichettatura, per non avere una riduzione di prezzo. Nel caso in cui, invece, questa soglia superasse lo 0,9% ecco che si presentano una serie di danni per l’agricoltore convenzionale, che sarà costretto a vendere sul mercato del transgenico la sua produzione convenzionale (ha sostenuto i costi del convenzionale, per poi vendere ai prezzi, più bassi, del transgenico).
Diverso è il discorso per l’agricoltore biologico, che ha fatto le siepi intorno alla sua azienda agricola, si è dotato di macchine particolari per effettuare la “falsa semina” e per l’esecuzione dei trattamenti antiparassitari con prodotti naturali, si è dotato di strutture particolari per l’allevamento degli animali biologici, si è dotato di macchine particolari per la trasformazione dei prodotti agricolo/zootecnici, ha sopportato i minori introiti del periodo di conversione, si è sottoposto ai controlli previsti dalla Legge………..tutto questo comporta maggiori costi, con la speranza di poter ottenere maggiori prezzi di vendita, che non otterrà se il suo prodotto sarà anche in parte OGM. Con ogni probabilità il prodotto biologico inquinato da OGM non sarà accettato dalla filiera biologica e dovrà essere venduto sul mercato del convenzionale. Se poi il livello di inquinamento supererà lo 0,9%, anche questo prodotto che doveva essere biologico, dovrà essere venduto sul mercato del transgenico, con indubbi maggiori perdite negli incassi.
Chi guadagnerà da questa situazione? Gli unici che guadagneranno saranno i coltivatori di piante OGM, che vedranno aumentare i costi e le difficoltà produttive di chi fa agricoltura convenzionale e/o biologica e vedranno divenire maggiormente competitive le loro produzioni.

In una situazione come quella delineata, anche al fine di ristabilire una determinata concorrenza di mercato, è necessario che siano gli agricoltori che intendono coltivare OGM a sostenere i costi di coesistenza…….se così non fosse, dopo pochi anni le coltivazioni “non OGM”, convenzionale e biologica, scomparirebbero.

Quando il mercato ci fa fare cose assurde, ovvero “mais non OGM” per scopi energetici e “mais OGM” per l’allevamento zootecnico.

Che sia subito chiaro, nessuno vuole insinuare che i derivati (carne, latte, uova, ecc.) ottenuti dall’allevamento zootecnico mediante l’utilizzazione di “mais OGM” siano diversi da quelli normalmente ottenuti con mais convenzionale, fatto ancora da dimostrare con certezza. Quale è l’obiezione? o quantomeno, quale è la contraddizione?      La contraddizione è che oggigiorno la produzione nazionale di mais convenzionale, in quanto nel nostro Paese è vietato coltivare OGM, è destinata in larga parte alla produzione di energia elettrica e non di alimenti, mentre per sopperire al fabbisogno mangimistico per uso zootecnico a scopi alimentari, facciamo largo uso di materiale OGM di importazione.
Qualcuno penserà una cosa assurda, invece è proprio così, in relazione alle regole di mercato che ci siamo dati……regole di mercato sicuramente da riscrivere.
In particolare, in Italia è vietato coltivare piante OGM, ma non è vietato importarle per destinarle all’alimentazione animale. Già questo fatto è assurdo e determina una sorta di concorrenza sleale tra gli stessi allevatori, in quanto i mangimi OGM hanno un costo decisamente più basso di quelli certificati “OGM Free”, mentre i prodotti ottenuti dalla trasformazione hanno lo stesso prezzo. In pratica chi utilizza mangimi OGM, spende di meno e incassa lo stesso prezzo per i derivati ottenuti……veramente assurdo……tra qualche anno assisteremo sicuramente a proteste di piazza per questo fatto, poiché anche gli allevatori che non vogliono adottare gli OGM, saranno costretti a farlo dal mercato, in quanto i margini si restringeranno sempre più (pure loro tengono famiglia).
Se qualcuno pensa che questo non sia vero è sufficiente osservare il bollettino della “Borsa Merci di Bologna”.
Per il mais il confronto tra convenzionale e OGM non è fattibile, in quanto il bollettino non riporta specificamente prezzi diversi per la granella, anche in relazione al fatto che il mangime viene importato sottoforma di farina. E’ possibile, invece, il confronto con la soia, poiché il bollettino riporta esplicitamente prezzi diversi per derivati di soia di importazione estera (quasi tutta OGM) o derivati certificati “OGM Free”. In particolare, il bollettino del 14 novembre 2013 riporta i seguenti prezzi:

                                                         
FARINE VEGETALI DI ESTR. (2)
Soia tostata integ. Nazion. (prot. 44% stq)
14 novembre 2013
476,00
477,00
7 novembre 2013
478,00
479,00
-2,00
-2,00
Soia tostata integ. estera (prot. 44% stq)
14 novembre 2013
474,00
475,00
7 novembre 2013
476,00
477,00
-2,00
-2,00
Soia Tostata integ. Naz. non deriv. OGM
14 novembre 2013
499,00
500,00
7 novembre 2013
489,00
490,00
10,00
10,00
Soia Tostata integ. Estera non deriv. OGM
14 novembre 2013
497,00
498,00
7 novembre 2013
487,00
488,00
10,00
10,00
Soia Tostata Decorticata naz.
14 novembre 2013
481,00
483,00
7 novembre 2013
486,00
488,00
-5,00
-5,00
Soia Tostata Decorticata estera
14 novembre 2013
478,00
480,00
7 novembre 2013
483,00
485,00
-5,00
-5,00
Soia Tostata Decorticata naz.non deriv. OGM
14 novembre 2013
543,00
545,00
7 novembre 2013
533,00
535,00
10,00
10,00
Soia Tostata Decorticata est.non deriv. OGM
14 novembre 2013
540,00
542,00
7 novembre 2013
530,00
532,00
10,00
10,00

E’ interessante notare il diverso prezzo, sempre superiore, dei trasformati di soia non derivanti da OGM, rispetto a quelli OGM. In particolare:
-         Soia tostata integrale Estera non derivante OGM………….497/498 €/T
-         Soia tostata integrale Estera………………………….…….474/475 €/T

Una differenza di 24/25 €/T, pari al 5% circa.

-         Soia tostata Decorticata estera non derivante OGM………….540/542 €/T
-         Soia tostata Decorticata estera……………………….……….478/480 €/T

Una differenza di 60/62 €/T, pari all’11% circa.

Da questi elementi possiamo porci una domanda: fino a quando gli allevatori che utilizzano mangimi convenzionali saranno disposti a produrre i loro derivati zootecnici (carne, latte, uova, ecc.) ai costi del convenzionale, per poi vendere ai prezzi del transgenico?