Ciclicamente il problema dell’aumento del prezzo del cibo e
della conseguente crisi alimentare si ripresenta nella sua gravità.
L’insicurezza alimentare non è certamente una novità nel panorama dei problemi
mondiali, e, purtroppo, la sua gravità non
accenna a diminuire: secondo i dati diffusi dalla FAO, nel mondo sono circa
900 milioni le persone che soffrono la fame. E questo a dispetto dei numerosi e
solenni impegni presi nelle più alte assise internazionali: nel 1996, i Paesi
partecipanti al Vertice ONU sull’alimentazione si impegnarono a dimezzare entro
il 2015 il numero degli affamati rispetto al 1991, riducendolo a 412 milioni.
Nel 2000, invece, l’ONU approvò gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, fra
cui quello di dimezzare la percentuale di chi soffre la fame, sempre entro il
2015 e in riferimento al 1991. Per raggiungere questo secondo obiettivo gli
affamati nel mondo avrebbero dovuto ridursi a 585 milioni, mentre purtroppo dal
1996 essi sono in costante aumento.
Il cibo nel mondo non manca (secondo
la FAO ci sarebbe cibo sufficiente per 12 miliardi di persone) e quella
attuale è sicuramente una “crisi alimentare” dovuta alla mancanza di risorse
economiche necessarie per poter acquistare il cibo, in relazione ad un rapido
aumento dei prezzi degli alimenti e ad una stagnazione dei salari.
A questo punto, anche al fine di trovare le auspicabili
soluzioni, è necessario interrogarsi sulle cause di tali aumenti del prezzo del
cibo. È possibile affermare che l’attuale congiuntura è determinata da una
serie di fattori, identificabili soprattutto:
- nella dinamica della domanda e dell’offerta di alimenti;
- nel funzionamento
dei mercati.
Per quanto attiene alla domanda di derrate agroalimentari
occorre rilevare che la popolazione mondiale
è in costante aumento e, secondo le previsioni più autorevoli, dovrebbe
raggiungere gli 8 miliardi entro il 2020. Questo significa che solo per
assicurare alla popolazione futura agli attuali livelli di alimentazione, sarà
necessario aumentare del 40-50% la disponibilità di alimenti. Ma, a parte alcuni
territori di Africa e America Latina, la possibilità di incrementare le
superfici coltivate è piuttosto limitata, in quanto il suolo disponibile per
nuove coltivazioni è troppo freddo, arido e/o in forte pendenza. Inoltre
l’incremento della popolazione non si distribuisce uniformemente sul pianeta,
ma spesso è concentrato proprio dove esistono già problemi di
sottoalimentazione.
Anche la concentrazione
della popolazione in agglomerati di grandi dimensioni è responsabile
dell’incremento dei costi di produzione e di distribuzione degli alimenti e, in
definitiva, del loro prezzo. I luoghi di produzione degli alimenti sono sempre
più lontani da quelli di consumo. In questo contesto è cruciale o la
redistribuzione della popolazione anche sul territorio rurale o lo sviluppo di
quei servizi di mercato in grado di razionalizzare e di rendere efficiente la
distribuzione degli alimenti (conservazione, imballaggio, trasporto, ecc.).
Ovviamente questi servizi hanno un costo, che si ripercuote sul prezzo degli
alimenti, a volte più elevato dello stesso costo dell’alimento.
Un altro fattore determinante della tensione sui prezzi
delle derrate agroalimentari è l’innescarsi di processi di crescita economica
in alcuni Paesi emergenti del Globo. L’incremento del reddito pro capite in
taluni Paesi (ad esempio Cina e India) conduce ad una lievitazione della
domanda di alimenti, che a sua volta, in presenza di una offerta mondiale
sostanzialmente costante, determina la crescita dei prezzi. Ma questo
diminuisce le possibilità di accesso al cibo di quei Paesi, o di quegli strati
sociali, il cui reddito non è cresciuto e che così si ritrovano relativamente
ancora più poveri. Si tratta di una vera e propria «guerra tra poveri», dove
gli unici che guadagnano sono coloro che dispongono della proprietà legale del
cibo, spesso con intenti speculativi.
Un fenomeno analogo deriva dalla ricchezza dei Paesi
sviluppati, che permette loro di consumare — e spesso sprecare — troppi
alimenti, aumentandone la domanda e quindi il prezzo. Occorrerebbe una maggiore
sobrietà nel consumo di alimenti da parte dei Paesi ricchi, consapevoli del
fatto che un incremento dei consumi da parte di taluni può determinare una
carenza di alimenti per altri. Per esempio, nei Paesi sviluppati si consuma
troppa carne: alcune stime indicano che se i Paesi Meno Avanzati (pma)
raggiungessero i nostri livelli di consumo, sarebbero necessari 7 Pianeti per
produrre i mangimi da destinare all’allevamento animale. Infatti, l’attività di
ingrasso degli animali può essere rappresentata come la trasformazione di
alcuni alimenti (i mangimi) in carne. Al contrario di quanto avveniva un tempo,
oggi gli animali non mangiano più prodotti di scarto, ma competono con gli
uomini, in quanto mangiano gli stessi prodotti (mais e soia, soprattutto). Ecco
allora che l’incremento di prezzo delle derrate alimentari è dovuto a
comportamenti di consumo elitari, che non tengono conto delle necessità
alimentari di coloro che con noi condividono il pianeta e hanno diritto a una
porzione adeguata delle sue risorse.
Nei tempi più recenti ha fatto la sua comparsa anche un
altro potente protagonista nella competizione per l’allocazione dei prodotti
agroalimentari: in seguito al boom del prezzo del petrolio, e di conseguenza
delle altre risorse energetiche, assistiamo oggi all’utilizzo di risorse
alimentari (soia, mais, girasole, ecc.) per la produzione di energia. In
particolare, agli attuali prezzi del petrolio, le derrate agricole possono
essere convenientemente utilizzate per la produzione di biodiesel, etanolo,
singas (gas di sintesi), biomassa, ecc. Automobili che funzionano a biodiesel o
a etanolo sono ormai una realtà, in particolare in Paesi come Stati Uniti e
Brasile, così come centrali elettriche che funzionano a singas o a biomassa.
Non v’è dubbio che si tratti di un competitore molto importante, in quanto
l’economia mondiale è affamata di energia e tutti i mezzi risultano idonei pur
di averne in quantità e a basso prezzo.
Significativi sono anche i fenomeni che influenzano
l’andamento dell’offerta di derrate agroalimentari. Sicuramente i recenti
incrementi del prezzo mondiale degli alimenti, sono dovuti anche all’aumento
dei prezzi dei fattori della produzione, soprattutto quelli derivati in qualche
modo dal petrolio (forza motrice, concimi, fitofarmaci, trasporti,
conservazione, ecc.).
All’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli ha sicuramente
contribuito anche la presenza di situazioni ambientali avverse. In particolare,
appare ormai evidente che i cambiamenti climatici hanno determinato situazioni
produttive anomale. Nel 2007 la produzione di cereali in alcuni dei principali
Paesi produttori, come Australia o Ucraina, ha subito forti flessioni a causa
della siccità. Il che, a fronte di una domanda sostanzialmente rigida, avrebbe
favorito un incremento dei prezzi. Non sappiamo se si tratti di un fenomeno
episodico o di carattere permanente. Di certo la comunità scientifica e i
Governi dei diversi Paesi sono molto preoccupati dal fenomeno del
«riscaldamento globale» e dalla crisi idrica che ne dovrebbe conseguire. Se
così accadrà, sembrano inevitabili ulteriori aumenti dei prezzi degli alimenti.
Poco sopra abbiamo menzionato l’esistenza di una
competizione per l’allocazione dei prodotti agroalimentari fra usi alternativi.
Un fenomeno analogo si verifica anche per un fattore produttivo insostituibile
per l’agricoltura, la terra coltivabile, che viene destinata a insediamenti di
vario tipo (abitazioni, ferrovie, strade, centri commerciali, campi da golf,
aeroporti, ecc.). Purtroppo, tale sottrazione avviene molto spesso a scapito
dei terreni migliori, ai margini degli antichi insediamenti urbani, che, per le
necessità alimentari della popolazione, furono costruiti proprio dove erano
presenti i terreni migliori. Si tratta di un processo inarrestabile, in quanto
i guadagni che si possono ottenere dall’uso agricolo dei suoli non sono in
grado di competere con quelli generati dalle destinazioni alternative extra
agricole.
Ad aggravare le prospettive di sicurezza alimentare di
taluni Paesi Meno Avanzati contribuirebbe anche l’uso dei terreni per coltivazioni
di pregio destinate ai mercati dei Paesi ricchi. Con la produzione/esportazione
di derrate agricole destinate ai Paesi ricchi, i Paesi Meno Avanzati cercano di
acquisire valuta pregiata con la quale poter poi acquistare altri beni sui
mercati internazionali: non a caso si parla in questi casi di cash crop
(piantagioni da «cassa»). Si tratta di un fenomeno antico, almeno per prodotti
come caffè o cacao, che negli ultimi anni si è ulteriormente esteso: basti
pensare, ad esempio, alla coltivazione di fiori per il mercato europeo in Kenya
o alla trasformazione delle risaie in allevamenti di gamberetti da esportazione
in India. È ovvio che queste produzioni sono in competizione con la
coltivazione di cibo per la popolazione locale e conseguentemente
contribuiscono all’incremento dei prezzi delle derrate agroalimentari.
Da ultimo esaminiamo una serie di fattori che incidono
sull’aumento dei prezzi dei prodotti agroalimentari derivanti dalle modalità
concrete con cui funzionano i relativi mercati.
La domanda di prodotti alimentari, in confronto a quella di
altri prodotti di consumo, è sostanzialmente rigida, in quanto le necessità
biologiche riducono la libertà dei consumatori di comprimerne i consumi, anche a
fronte di un aumento dei prezzi. Questo fatto aumenta il potere di mercato dei
produttori e le loro possibilità di guadagno, spingendo i grandi potentati
economici a tentare di costruire monopoli del cibo, al fine di controllane i
prezzi. Vari strumenti vengono utilizzati a questo scopo, tra cui: acquisto
massiccio delle terre agricole disponibili; realizzazione di forme di
integrazione verticale tra produttori e distributori; espansione dei mercati a
termine; tutela brevettuale del materiale genetico necessario per produrre il
cibo (semi geneticamente modificati, animali clonati geneticamente modificati,
ecc.). Evidentemente condotte di questo genere non possono che sollevare
profondi dubbi in termini etici, in considerazione degli effetti che ne possono
conseguire. Inoltre, in anni recenti si è registrato un notevole sviluppo di
prodotti finanziari derivati, legati all’andamento delle quotazioni dei
prodotti agroalimentari, in analogia con quanto è andato accadendo nella gran
parte dei mercati borsistici e delle materie prime. L’abbondante liquidità
disponibile in alcune aree del mondo, unitamente ai bassi tassi di interesse e
all’alto prezzo del petrolio, ha reso il mercato di tali derivati estremamente
attraente per speculatori in cerca di opportunità di diversificare il rischio e
ottenere maggiori profitti, fino al punto che l’andamento di tali mercati
concorre a trascinare i prezzi dei prodotti su cui i derivati si basano. Anche
in questo caso è indispensabile sottolineare che una speculazione con tali
effetti perde ogni giustificazione sul piano etico: l’attività speculativa,
infatti, può ritenersi legittima solo quando rappresenta un incentivo
all’efficienza dei mercati ed è al servizio dell’uomo, non più quando diventa
un elemento di perturbazione tale da mettere a repentaglio le condizioni di
vita di milioni di persone.
Un forte contributo alla contrazione della produzione di
cibo con conseguente incremento dei prezzi è dato dalla modificazione delle
politiche agricole di alcuni Paesi produttori. In particolare, l’ue, con la
c.d. «Riforma Mc Sharry» attuata a partire dai primi anni del 2000, è passata
da una politica agricola basata sul sostegno dei prezzi a una basata sul
sostegno del reddito dell’agricoltore. Nel primo caso venivano fissati prezzi
minimi garantiti e, di conseguenza, i guadagni dei produttori crescevano al
crescere delle quantità prodotte. Una politica di questo genere spingeva dunque
all’aumento della produzione e delle rese per ettaro, con il ricorso massiccio
a concimi, fitofarmaci e irrigazione, e con effetti sicuramente criticabili in
termini di impatto ambientale.
La nuova politica agricola dell’UE ha profondamente
modificato il modo di produrre in agricoltura, in quanto ricorre a strumenti
come:
- limitazione
delle superfici a seminativo;
- progressiva
riduzione dei prezzi interni al livello di quelli che si formano sul mercato
mondiale;
- introduzione
di forme di sostegno al reddito dell’agricoltore legate alle superfici
coltivate e non tanto alle quantità prodotte (con la conseguenza che
l’agricoltore ottiene il sussidio anche se produce poco);
- obbligo per
i grandi produttori di destinare al riposo (set aside) una porzione, variabile
di anno in anno, della superficie per la quale fruiscono di sussidi;
- erogazione
di aiuti per l’adozione di tecniche produttive eco-compatibili (riduzione
dell’uso di concimi e fitofarmaci, diminuzione delle rese, riduzione del patrimonio
bovino e ovino) o conformi alle norme sull’«agricoltura biologica»;
- erogazione
di premi per l’imboschimento di terreni normalmente destinati a seminativo.
È indubbio che tali misure abbiano determinato una
consistente spinta alla riduzione della produzione cerealicola europea,
peraltro storicamente eccedentaria, con effetti di una certa entità
sull’offerta e quindi sui prezzi delle derrate agroalimentari a livello
globale.
Da più parti, anche a livello politico, le piante
geneticamente modificate sono presentate come una possibile soluzione al
problema della fame, in quanto consentirebbero di aumentare la produzione e di
conseguenza ridurre i prezzi. La questione è affiorata anche in occasione del
vertice FAO di inizio giugno, senza che si potesse giungere ad un accordo,
anche per la notoria polemica in materia fra USA, molto favorevoli agli ogm, e
UE, tenacemente contraria.
Anche trascurando le implicazioni del ricorso agli OGM in
termini di tutela della biodiversità e il fatto che la posizione appena
espressa ripropone l’idea che la fame derivi soprattutto dall’insufficiente
produzione di alimenti — che abbiamo già visto essere falsa —, le esperienze di
coltivazione di ogm in alcuni Paesi evidenziano che le promesse non sono state
mantenute, mentre si sono manifestati numerosi effetti negativi, vanificando
quegli effetti miracolosi che, secondo alcuni sostenitori, costituirebbero il
presupposto per la loro introduzione.
In particolare, per quanto riguarda le piante resistenti ai
diserbanti totali, è stato riscontrato che l’uso continuo dello stesso
diserbante ha determinato la selezione di piante infestanti geneticamente
resistenti al diserbante. Inoltre le piante infestanti sono aumentate, in
quanto le piante parentali selvatiche hanno acquisito il transgene che
conferisce resistenza al diserbante e le piante transgeniche coltivate in una
annata agraria sono divenute infestanti di altre piante transgeniche coltivate
in annate successive. Per risolvere questi problemi è stato necessario ritornare
ai vecchi diserbanti abbinati ai disseccanti totali.
Anche le piante transgeniche resistenti agli insetti
presentano degli inconvenienti, in quanto dopo alcune generazioni anche gli
insetti maturano una resistenza genetica alla tossina transgenica. Per evitare
la selezione di insetti resistenti, i produttori di sementi transgeniche, ad
esempio nel caso del mais, hanno consigliato agli agricoltori di riservare una
certa quota della superficie coltivata (aree rifugio) al mais convenzionale,
rendendo necessaria l’adozione di una pluralità di tecniche di coltivazione e
dunque aumentando la complessità e anche i costi per i produttori agricoli (che
infatti non sempre hanno seguito tale consiglio).
Infine, alcuni studi indipendenti condotti da ricercatori di
Università americane avrebbero verificato poi che non è sempre vero che le
piante transgeniche producano di più. In particolare, indagini effettuate su
migliaia di ettari coltivati hanno evidenziato che la soia transgenica produce
dal 6% all’11% in meno di quella convenzionale, mentre nel caso del mais
transgenico si avrebbe un aumento della produzione del 2,6%.
Come le pagine precedenti hanno provato a mostrare, il
problema del contenimento del prezzo del cibo non è di facile soluzione, in
quanto coinvolge scelte di carattere politico, economico, sociale e di rapporti
internazionali tra i diversi Paesi del globo. Affinché la situazione si
normalizzi e si determinino condizioni nutrizionali stabili e sufficienti per
tutti, sono necessari comportamenti cooperativi da parte degli organismi che
compongono la lunga e complessa filiera di produzione del cibo. Questo comporta,
necessariamente, che almeno alcuni comincino a mettere da parte forti interessi
particolari per lasciare spazio alla ricerca di un bene comune globale.
Sarà necessario, inoltre, da parte di tutti — e in
particolare degli abitanti dei Paesi ricchi — un atteggiamento più sobrio nei
confronti del cibo, al fine di maturare una nuova consapevolezza verso un bene
del quale nessuno può fare a meno.